E ora, al ballottaggio. È probabile che in Francia vinca il gentile e rampante Emmanuel Macron, già alto dirigente di Banque Rothschild, già ministro dell’Economia con Hollande. Macron, leader del movimento En marche!, si definisce “europeista convinto” ed è una figura che si pone in alternativa al sistema dei partiti francesi, che escono pesantemente penalizzati dal voto: il candidato gaullista Fillon viene sconfitto, mentre quello socialista, Amon, viene letteralmente travolto, col suo misero 6.3%. Benissimo, invece, Jean-Luc Melencon (19.6%), rappresentante della sinistra radicale. La grande sfida sarà – si sa – con Marine Le Pen, “sovranista”, antieuropeista, di ispirazione sostanzialmente neofascista, sia pur meno impresentabile dell’anziano padre.
Tutto ciò è oramai noto. Uno dei temi su cui si è concentrata l’attenzione dei media nelle ore successive al voto francese è, per dirla con Massimo Nava sul Corriere della Sera, “la disfatta dei partiti”. Forse la definizione è eccessiva e generalizzante, ma non c’è dubbio che questo voto conferma alcune tendenze in atto da tempo. Basti pensare alle recenti elezioni olandesi che hanno sì visto la sconfitta del populista di estrema destra Geert Wilders, ma hanno anche segnato il crollo del partito laburista, analogamente a ciò che è avvenuto in Francia. D’altra parte anche in Italia è evidente a tutti la dissoluzione dello schema bipolare, incardinato su due grandi formazioni politiche di centrodestra e centrosinistra, e la nascita di un sistema politico più complesso, caratterizzato dalla presenza di due forze – come si suol dire – antisistema, e cioè il movimento di Grillo, che attualmente, secondo tutti i sondaggi, sarebbe la prima formazione politica in Italia, e la Lega di Salvini, con l’aggiunta del pesantissimo fenomeno astensionista.
Si può discutere su tutto, ma ciò che è assolutamente chiaro è che siamo in presenza di una crisi della tradizionale rappresentanza politica. Questa crisi si manifesta o nella forma del declino o in quella del crollo. Il paradigma francese risponde a questo schema: declino dei gollisti, crollo dei socialisti. Sembra quindi che i partiti tradizionali non riescano più a rappresentare gli interessi e i valori dei rispettivi ceti di riferimento. Avvicinando lo sguardo, questa crisi è legata non solo al declassamento traumatico di tanta parte dei ceti medi e alle imponenti cifre della disoccupazione, ma anche ai vuoti culturali, alla caduta di speranze, al bisogno non soddisfatto di punti di riferimento di tante fasce di cittadini, in particolare delle giovani generazioni che sono spaesate, che non vedono più un orizzonte liberatorio nelle forze politiche storiche. In sostanza la percezione comune è quella di vivere in un contesto in cui il cittadino non conta, la sua partecipazione non viene né voluta, né considerata, né sollecitata. In questo vuoto (sociale e culturale) nasce la possibile seduzione di forze che, direttamente o indirettamente, si ispirano al neofascismo, al neonazismo, alla xenofobia, insomma al complesso armamentario della modernissima (anzi, postmoderna) estrema destra eversiva. Tali forze si presentano come “alternative”, “rivoluzionarie”, “popolari” e quant’altro.
L’esito delle elezioni olandesi e il probabile (ma tutt’altro che certo, sia chiaro) risultato del ballottaggio francese possono scongiurare una immediata crisi verticale dell’Unione Europea. Ma rimane la gigantesca questione della caduta di rappresentanza delle forze politiche storiche, che sembrano a tutt’oggi incapaci di affrontare il cuore del problema, e cioè la proposta di un disegno di società che corrisponda agli interessi dei ceti sociali di riferimento, a valori condivisi, a una comune identità.
Per ora l’esperienza dimostra che la soluzione di tali difficoltà non può essere ricercata nell’uso delle parole e dei contenuti degli altri, cioè – per esempio – attingendo al linguaggio populista e qualunquista, oppure proponendo le stesse politiche dell’avversario, o ancora contribuendo all’oscuramento dell’immagine dei partiti presentando il leader come un uomo solo al comando. È ragionevole invece pensare che la via d’uscita dal tendenziale cupio dissolvi sia quella di tornare nella società, nelle piazze, fra i cittadini, sui luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università, nelle periferie, in sostanza in tutti i luoghi dove le cosiddette forze antisistema raccolgono consensi crescenti perché lì sono attive e presenti. E in questi luoghi promuovere la democrazia, la partecipazione, l’impegno per la buona politica. Nel secolo scorso la ragion d’essere stessa delle forze politiche di progresso e di cambiamento era il tema del lavoro. Oggi, proprio quando l’argomento assume una nuova e drammatica centralità, esso sembra derubricato, marginale, oggetto di retorica inerte; parlano i dati dell’incremento del Pil o i numeri dei disoccupati. Se chi lavora o chi cerca lavoro, in una situazione di costante peggioramento delle sue condizioni sociali, non vede in un partito politico la sua bandiera, la forza che lo difende, perché mai dovrebbe votarlo?
Questa sembra la sfida a cui sono chiamate le forze politiche, e un particolare le forze progressiste. Questa è la sfida dei governi. È la sfida della rinascita dei partiti, della buona politica e del buon governo. E, non ultima, della questione morale come grande questione del sistema politico attuale. Se la politica viene vista come l’occasione per la conquista personale di un posto (e di un conseguente reddito), che sia di consigliere comunale o regionale o di parlamentare, come si può credere che crei senso, entusiasmo, valori, partecipazione popolare?
Questa sfida si può raccogliere sul serio, o meno. Ma in quest’ultimo caso non si capisce perché dovrebbe cessare il declino delle forze politiche. E il loro declino, sul lungo periodo, come dimostra l’esperienza della prima metà del Novecento, può portare alla vittoria dell’estrema destra eversiva, che in Europa dal dopoguerra ad oggi non è mai stata così forte.
Pubblicato lunedì 24 Aprile 2017
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