C’era da scommettere che, in un Paese stordito dal biennio pandemico e da una crisi economica infinita, questa precipitata campagna elettorale prendesse nuovamente il via all’insegna della novità che, del caso, sarebbe rappresentata da una donna alla guida del Governo.
Una carta non nuova, giocata nel trentennio berlusconiano dello yuppismo individualista sostenuto da una globalizzazione rapace e corollario di una competitività drogata, che, nel tempo, ha fatto le fortune di diversi e i disastri con cui ci misuriamo anche oggi. Un trentennio che, nonostante il rampantismo, ha mantenuto inossidabili stereotipi e divari di genere uomo/donna, gravando pesantemente sullo sviluppo economico e democratico del nostro Paese.
Considerato il carattere tradizionalista e neoconservatore della destra italiana non c’è dubbio che la leadership di Meloni possa rappresentare una novità, anche se, a ben vedere, si tratta di una novità datata già da quattro legislature di presenza parlamentare, un ministero pur senza portafoglio dal 2008 al 2011, e dalla guida del partito di cui è segretaria dalla sua fondazione nel 2014, con contenute fortune elettorali fino alle ultime elezioni europee del 2019.
Dal settembre 2020 Giorgia Meloni presiede anche l’Alleanza dei conservatori e riformisti europei (Acre) di cui, però, non fanno parte né Forza Italia né Lega, rispettivamente nel Partito popolare europeo e in Identità e democrazia, in cui Salvini è insieme a Marine Le Pen.
Va detto anche che per la destra la “novità” di una leadership al femminile è solo italiana. Come sottolinea Alfonso Botti in un puntuale articolo apparso sulla rivista Il Mulino del 1° aprile scorso, negli ultimi decenni i partiti della destra radicale in Occidente sempre più hanno scelto di parlare con volti di donne. Gli esempi sono numerosi, e, oltre a Le Pen in Francia, si possono citare Kjærsgaard in Danimarca, “che dal 1995 al 2012, ha guidato il Partito del Popolo Danese (Df) facendo virare le politiche della Danimarca, soprattutto in termini di Welfare e immigrazione, verso destra”.
Sempre nel Paese scandinavo, nel 2015 Pernille Vermund ha fondato il partito di destra radical-populista dei Nuovi borghesi (Nye), mentre in Norvegia l’imprenditrice Siv Jensen ha portato il suo Partito del progresso (FrP) al governo andando a ricoprire il ruolo di ministro delle Finanze dal 2013 al 2020.
Altre due donne, Frauke Petry e Alice Weidel sono state determinanti nell’ascesa in Germania di Alternative für Deutschland. Fino all’esempio austriaco, dove nel 2000 Jörg Haider, presidente del partito di destra radicale Fpö, si dimise in favore di Susanne Riess nel tentativo di guadagnare una legittimazione istituzionale attraverso una leadership femminile.
Precedenti ed esperienze sgombrano il campo dall’equivoco che a una leadership femminile equivarrebbe una politica che fa l’interesse delle donne. È stato dimostrato, anche di recente, negli Stati Uniti, con il voto determinante della giudice Barrett (nominata da Trump alla Corte suprema), che è servito a cancellare il diritto all’aborto delle donne americane: un voto che ha mandato in frantumi anni di battaglie e conquiste femministe.
Scrive Ida Dominijanni che “una donna senza ancoraggio nella politica delle donne non è una garanzia per nessuna”. Considerazione più che appropriata, tanto più se rivolgiamo lo sguardo all’offerta politica dell’insieme delle destre e, per quanto ci riguarda, della destra italiana, come ad esempio a Giorgia Meloni, alla sua agenda politica, al programma del suo partito e della coalizione di cui ambisce alla leadership.
Programma e programmi in cui la donna, anche poco nominata, è priva di riconoscimento in quanto persona, e quindi dignità, ma è oggetto e strumento di funzioni produttive e riproduttive mascherate da pseudo valori nativisti e familisti.
In questo caso, si potrebbe dire, nessuna novità. Ma senza la necessità di ritornare alla storia passata e all’origine della forza politica che Meloni rappresenta (e da cui, comunque, varrebbe la pena non distrarsi), basterebbe riascoltare il suo intervento al Congresso di Verona del 2019, i cui contenuti ha riproposto a Madrid nel giugno di quest’anno al comizio del partito dell’ultradestra spagnola Vox e che si ritrovano declinati nelle trentotto pagine del programma elettorale di Fratelli d’Italia: famiglia naturale, identità sessuale, radici cristiane, frontiere sicure, cultura della vita.
Quale vita? Quali vite? Quelle che sarebbero da salvaguardare dai piani mefistofelici di “sostituzione etnica” magari attraverso quei “blocchi navali” che, pure oggi inesistenti perché illegali, non ci risparmiano il dolore delle quotidiane tragedie di mare di quanti tentano di sfuggire dalle sofferenze, dalla fame, dalle guerre? O forse quelle delle donne costrette ad abortire nel dolore quando l’interruzione farmacologica della gravidanza potrebbe alleviarne le sofferenze?
In una delle tante interviste di questo periodo Giorgia Meloni si interroga retoricamente domandandosi “quali sarebbero i diritti che lei vorrebbe togliere alle donne”. Noi, invece, siamo a domandarle quali sarebbero le sue proposte per rimuovere le disuguaglianze di genere che hanno finora impedito alle donne del nostro Paese di giovarsi di quella parità di cui parla l’articolo 3 della Costituzione.
Come intenderebbe rimuovere quel divario di genere che colloca il nostro Paese al 63° posto della classifica mondiale? Nel programma del suo partito e in quello della coalizione di destra non le abbiamo trovate.
È plausibile che, in uno scenario di partiti senza appeal e di distrazioni estive, i sondaggi abbiano rilevato un elettorato italiano stordito da una sorta di sindrome di Stendhal nei confronti di Meloni. Va tenuto presente, però, che il passaggio da sindrome di Stendhal a sindrome di Stoccolma è breve.
Le parole contano, ma contano soprattutto i fatti e, senza la necessità di rivolgere le lancette degli orologi al passato, è bene essere consapevoli, donne e uomini, che con questo voto la destra italiana mira alla modifica del nostro impianto istituzionale, al depotenziamento del sistema partecipativo, allo stravolgimento della Costituzione, dei valori e dei diritti in essa espressi e salvaguardati. Per questo è bene essere consapevoli che, anche oggi, il tempo delle donne e il tempo della democrazia sono il tempo del voto.
Tamara Ferretti, coordinatrice donne Anpi, componente della segreteria e del comitato nazionale Anpi
Pubblicato venerdì 16 Settembre 2022
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