In occasione dell’anniversario dell’inizio delle agitazioni operaie del 1943, pubblichiamo un interessantissimo articolo di Fausto Vighi, uscito su Patria Indipendente n. 3 del 27 febbraio 1983. In quel tempo Fausto Vighi era del comitato di redazione, fu il primo direttore del periodico (1952) fino al 1959.
II capo-gabinetto della prefettura di Torino sollevò la cornetta del telefono, ma quando udì l’inconfondibile voce risonargli nell’orecchio s’irrigidì sulla poltrona. Guardò l’orologio: segnava le 9,30 del 6 marzo 1943. Dall’altro capo del filo, la «voce», scandendo bene le sillabe com’era suo costume, stava dicendo:
– Mi risulta che in cotesta provincia serpeggia un grave malumore nell’ambiente operaio e che ci sono stati perfino tentativi di sciopero. Ciò e inammissibile!
– Duce, – rispose il capo-gabinetto – per la verità ci sono state delle proteste abbastanza vibrate, specialmente alla sezione motori della Fiat e della Villar Perosa. S.E. il Prefetto è in giro per rendersi personalmente conto della situazione, onde adottare gli opportuni provvedimenti.
– Quali sarebbero le ragioni del malumore?
– Da quanto siamo venuti a conoscenza sinora, pare che la protesta sia stata causata dal ritardo nella distribuzione dei generi tesserati.
– Questo è soltanto un pretesto – affermò il «duce». – Comunque, perché questo ritardo?
– In primo luogo, perché le assegnazioni dell’Alimentazione non sono sufficienti, e noi non abbiamo scorte. In secondo luogo, a causa dei bombardamenti aerei, quel poco che ci mandano arriva sempre con notevole ritardo, e qualche volta non arriva affatto.
– Bisogna, ad ogni costo, eliminare gli inconvenienti e arrangiarsi.
– È ciò che cerchiamo di fare – ammise il capo-gabinetto –.
– Bisogna tenere gli occhi aperti – disse Mussolini con tono di comando – perché, in cotesta, come pure in altre province, sono state segnalate ricostituzioni di gruppi sovversivi!
– Fino a questo momento, non ci risulta alcuna ricostituzione, salvo naturalmente l’infiltrazione di qualche elemento proveniente dall’estero.
– Appunto a ciò intendevo riferirmi: bisogna vigilare! – esclama il «duce» concludendo la conversazione.
I preoccupati rapporti dei servizi segreti dell’OVRA
Questo dialogo, tratto dalle «veline» del SSR (Servizio Speciale Riservato: l’organizzazione poliziesca per l’intercettazione telefonica che controllava, per ordine di Mussolini, tutte le comunicazioni delle personalità politiche e militari, dittatore compreso, e prendeva nota delle conversazioni più interessanti o compromettenti), ci rivela che il «duce» quel giorno, scorsi – come faceva tutte le mattine – i rapporti dell’OVRA, della polizia, dei carabinieri e della milizia sullo stato dell’ordine pubblico delle 24 ore precedenti, aveva subito compreso il significato di quanto era accaduto a Torino il 5 marzo, nonostante la scarsa documentazione che poteva essere in suo possesso, e aveva chiesto immediatamente lumi alla prefettura fingendosi sorpreso. In realtà, quanto era successo e stava succedendo a Torino non aveva colto impreparato l’occhiuto dittatore. Una ventina di giorni prima la polizia aveva avuto sentore che alla Fiat i comunisti andavano organizzando uno sciopero «per motivi economici ma con finalità politiche». Lo stesso capo della polizia, Carmine Senise, aveva informato direttamente il «duce» di quello che bolliva in pentola, senza però ricevere direttive per prevenire l’agitazione. O Mussolini non aveva preso sul serio l’informazione – cosa abbastanza improbabile – o era sicuro che i fascisti all’interno della Fiat avrebbero avuto, da soli, la forza per soffocare la protesta operaia al suo manifestarsi. Bisogna ricordare che il dittatore, in quei giorni, stava adoperandosi freneticamente per recuperare il perduto credito in seguito alle gravi sconfitte in Africa settentrionale (evacuazione della Tripolitania) e sul fronte russo (ritirata dell’ARMIR). Tra la fine di gennaio e i primi giorni di febbraio (1943) Mussolini aveva silurato il maresciallo Cavallero, capo di S.M. generale, e rimaneggiata l’intera compagine governativa, allontanando dalla stanza dei bottoni gerarchi come Ciano, Bottai e Grandi. II «duce» voleva che i liquidati assumessero al cospetto della nazione il ruolo di capri espiatori per il fallimento politico-militare del fascismo e che l’opinione pubblica avesse la sensazione di una svolta che avrebbe radicalmente modificato la situazione, ma il «terremoto» non diede i risultatati sperati. Mussolini, nei rapporti inviatigli pochi giorni dopo dall’OVRA, a documentazione delle reazioni popolari al pesante bombardamento di Milano nella notte tra il 14 e il 15 febbraio, poté leggere:
«Universalmente la gente se la prende con chi ha scatenato questa ira di Dio, che sarebbero poi il Duce e il Fuehrer, e dice che sarebbe ora di finirla, che se per trattare una pace e necessario cambiare i due Capi, si cambino prima che vengano condotte alla rovina le due Nazioni». In un altro rapporto trovò scritto: «Ciò che le mie orecchie hanno sentito all’indirizzo del Duce è cosa da non credersi. Chi lo malediceva, chi lo chiamava farabutto, chi diceva “quel gran mascalzone dovrebbe trovarsi lui esposto a una di queste sciagure” …».
Parte dalla Fiat il segnale di sciopero
Dato questo stato d’animo degli italiani e data l’impossibilità di individuare coloro che stavano organizzando gli scioperi, un’azione poliziesca preventiva contro gli operai della Fiat avrebbe vieppiù alimentato lo spirito antifascista e screditato ulteriormente il regime. Probabilmente a queste considerazioni giunse anche Mussolini, il quale risolse di non fare alcunché, confidando nella combattività dei fascisti che operavano all’interno del complesso torinese.
Resta da spiegare perché il dittatore reagì con tanta poca energia, quando si rese conto che i fascisti della Fiat non solo non erano intervenuti contro gli scioperanti, ma avevano fatto causa comune con loro, e perché non vi fu, durante gli scioperi, quella violenta azione repressiva, coordinata e unitaria che era da attendersi, per cui l’intervento della forza pubblica non ebbe dappertutto le stesse caratteristiche e la medesima durezza. Sappiamo che l’agitazione, cominciata il 5 marzo e protrattasi sino al 14 aprile successivo, provocò 268 scioperi in 205 fabbriche, con la partecipazione di un numero imprecisato di lavoratori, sicuramente oltre i 140.000. Una legge, votata frettolosamente dal Consiglio dei ministri l’8 marzo, cioè tre giorni dopo il primo sciopero, prevedeva l’arresto e la condanna a 6 mesi di reclusione per quei dipendenti di stabilimenti interessati alla produzione bellica che avessero abbandonato il lavoro. Ebbene, i 140.000 e più lavoratori, che abbandonarono il lavoro, potevano essere tutti considerati – dato lo stato di guerra – come dipendenti di stabilimenti «interessati alla produzione bellica», ma gli arrestati furono complessivamente 872, in maggioranza milanesi e torinesi, e uno degli arrestati perse la vita in seguito alle percosse ricevute dalla polizia.
La cifra e la collocazione geografica degli arrestati, anche se rivelano una certa irrisolutezza nella conduzione dell’azione repressiva, nulla tolgono al coraggio degli scioperanti, tutti consapevoli dei rischi che correvano al momento d’incrociare le braccia, sia per la pubblicità data alla legge dell’8 marzo, sia perché durante il ventennio ogni agitazione operaia era stata punita con estrema durezza, sia perché le autorità minacciavano di far intervenire l’esercito. Se si tiene conto che nelle manifestazioni popolari dal 25 luglio all’8 settembre caddero 93 lavoratori, 536 furono i feriti e 2.276 gli arrestati, si ha meglio il senso di quello che poteva capitare agli scioperanti e della sostanziale debolezza della reazione fascista.
Com’è noto, alle 10 del 5 marzo i 21.000 operai della Fiat Mirafiori interruppero il lavoro. Diedero il via gli operai dell’officina 19, organizzati dal comunista Leo Lanfranco, uomo preparato e combattivo, che verrà poi arrestato nella notte dal 14 al 15 marzo e deferito, nel giugno, al «tribunale speciale». Liberato il 25 luglio, Lanfranco si dedicò alla Resistenza e cadde combattendo il 5 febbraio ’45 a Villafranca Piemonte.
Il segnale d’inizio dello sciopero doveva essere dato dalla prova quotidiana delle sirene d’allarme, che avveniva appunto alle 10. Ma la direzione era stata preavvertita di ciò che sarebbe accaduto e non fece azionare le sirene. Nonostante ciò il lavoro si fermò e la notizia che la Fiat era entrata in sciopero si sparse fulminea per Torino, inducendo prima di sera gli operai di altre sette fabbriche a interrompere la produzione. E i fascisti della Fiat Mirafiori, su cui tanto contava Mussolini? Essi formavano una legione della MVSN, la «18 Novembre», ma anziché inquadrarsi e marciare contro coloro che abbandonavano il lavoro, «parteciparono allo sciopero come tutti gli altri operai e non si può proprio pensare che non avessero compreso le finalità di un movimento di cui erano evidenti il carattere politico e il fine contrario alla guerra» (Carmine Senise, Quando ero capo della polizia). Gli scioperanti, infatti, chiedevano sì la concessione di un’indennità speciale e l’aumento delle razioni alimentari, ma anche la cessazione delle ostilità e della dittatura mussoliniana. Queste due ultime richieste definivano, inequivocabilmente, la politicità dell’agitazione.
Gli scioperi si estesero, nei giorni seguenti, ad altre fabbriche torinesi e a quasi tutti i centri industriali del Piemonte. All’11 marzo avevano scioperato almeno 60.000 lavoratori. Intanto le autorità, superato lo smarrimento iniziale, avevano sguinzagliato ovunque i gerarchi sindacali e politici, la polizia e la milizia. Mentre i gerarchi cercavano con appelli e minacce di far riprendere il lavoro o d’indurre le maestranze a rinunciare agli scioperi, polizia e milizia presidiavano gli stabilimenti e procedevano all’arresto degli operai più in vista o più combattivi, senza riuscire però a bloccare l’agitazione. In quello stesso 11 marzo, cioè quando più viva era la protesta operaia in Piemonte, si riunì a Roma il direttorio del PNF e Mussolini informo i gerarchi di quanto stava accadendo nelle fabbriche, cercando di minimizzare il fatto ed evitando di pronunciare la parola sciopero. «… in questi ultimi giorni c’è stato a Torino il primo fenomeno di un movimento di carattere operaio collettivo. Eccone le ragioni. Si era data l’indennità di sfollamento alle famiglie degli operai sfollati; a un certo punto è stato richiesto che anche quelli che erano rimasti avessero una eguale indennità di sfollamento. In generale io ero sempre stato contrario a questo, ma adesso dichiaro nella maniera più esplicita che non darò neppure un centesimo. No, non siamo lo Stato liberale che si fa ricattare da una fermata di un’ora di lavoro in un’officina. Considero questo come un tradimento vero e proprio… Trent’anni fa… si considerava programma massimissimo quello che noi senza tanti clamori abbiamo realizzato per gli operai italiani. Non chiediamo a costoro alcun attestato di gratitudine… Ma quando essi abbandonano il lavoro in un momento come questo… se non si mettono in regola nel più breve tempo possibile, saranno trattati come si trattano coloro che abbandonano il proprio posto di fronte al nemico…».
Parole grintose, ma senza pratici effetti. Era impossibile colpire la massa degli scioperanti, e il fascismo ne era consapevole. Non solo, anche gli arresti sino ad allora effettuati non avevano bloccato la protesta; anzi, pareva che l’azione repressiva ampliasse il movimento piuttosto che ridurlo.
L’inerzia che caratterizzò il vertice del fascismo in quella circostanza trova riscontro anche nella mancata presenza in Piemonte dei massimi gerarchi. Solo il 17 marzo Carlo Scorza, vice segretario del PNF, si spinse fino a Torino e andò a visitare la sede del partito alla Fiat, ma evitò di prendere contatto con la massa dei lavoratori. Diede ordine che gli iscritti al PNF indossassero la camicia nera quando andavano al lavoro e niente più, nonostante egli fosse considerato un «duro» propenso alle soluzioni violente e all’impiego di mezzi drastici.
Scendono in sciopero le fabbriche milanesi
Il 23 marzo, giorno sacro per la liturgia fascista, scendevano in sciopero le fabbriche milanesi, presto seguite dagli stabilimenti di altri centri lombardi e della Liguria. Lo sciopero si estendeva anche alle industrie di alcune località emiliane. In precedenza vi erano stati scioperi nel Veneto, altri se ne avranno in Toscana, nelle Marche, nel Lazio e in Sicilia. L’agitazione continuò anche nella prima quindicina d’aprile, poi, quando furono noti gli importi dell’indennità che il governo era stato costretto a concedere, essa si placò. La debolezza politica delle forze antifasciste, particolarmente accentuata nel Sud, rese impossibile la crescita del movimento e la sua trasformazione in moto insurrezionale.
Roberto Farinacci, il tragico «ras» di Cremona, apprezzò meglio di ogni altro fascista il significato degli scioperi e partecipò le sue impressioni al «duce» con una lettera datata 10 aprile: «Ho vissuto, naturalmente stando nell’ombra, le manifestazioni degli operai del Milanese. Ne sono rimasto profondamente amareggiato come fascista e come italiano. Non siamo stati capaci né di prevenire né di reprimere, ed abbiamo infranto il principio di autorità del nostro regime … Se ti dicono che il movimento ha assunto un aspetto esclusivamente economico, ti dicono una menzogna. Il contegno degli operai di Abbiategrasso di fronte a Cianetti (sottosegretario alle Corporazioni, ndr) è eloquente, come è eloquente la fioritura di manifestini stampati alla macchia che danno alle manifestazioni un carattere deliberatamente e preordinatamente antifascista. I pochi arresti non contano. Bisognava avere il coraggio di dare qualche esempio, che avrebbe fatto meditare le maestranze degli altri stabilimenti e di altre città…».
Hitler e Mussolini corrono ai ripari
Chissà come rimase Farinacci quando, il giorno dopo aver scritto al «duce» per sostenere la linea dura, lesse sui giornali che erano allo studio provvedimenti che sarebbero stati varati quanto prima, relativi alla concessione di un’indennità di sfollamento per tutti i dipendenti dell’industria. Colui che aveva dichiarato con tanta solennità di non voler dare «neppure un centesimo», non solo accoglieva una precisa richiesta degli scioperanti, ma anticipava addirittura la notizia della concessione nella speranza di placare gli animi. Com’è immaginabile, gli scioperi avevano suscitato, sin dai primi momenti dell’agitazione, grande allarme tra i nazisti. Per essi la mancata brutale repressione del moto era segno della fragilità dello Stato fascista. Commentando gli scioperi, Hitler aveva dichiarato che «in questi casi chi mostra la minima debolezza è perduto», e certamente illustrò a lungo la sua teoria a Mussolini, quando i due dittatori s’incontrarono a Klessheim (7-10 aprile ’43). Non si sa che cosa precisamente si dissero i due, ma sappiamo che in quell’occasione Himmler si assunse l’incarico di armare con carri «Tigre», che sarebbero stati ceduti gratuitamente, una divisione della milizia; ma poneva come condizione che a far parte della grande unità fossero chiamati solo fascisti di provata fede. La divisione, che sarà ancora in corso di allestimento il 25 luglio, doveva garantire il regime dai nemici interni.
«Cambio della guardia» nella gerarchia fascista
Nel corso del convegno Hitler certamente chiese a Mussolini di fornire all’alleato qualche prova di risolutezza, se il «duce», appena rientrato a Roma, collocò a riposo il capo della polizia, Carmine Senise, accusandolo di non aver agito con decisione durante gli scioperi. Senise fu sostituito da Renzo Chierici, vecchio squadrista formatosi alla scuola di Italo Balbo e generale della milizia forestale. II «duce» sperava di ottenere da Chierici una polizia ancora più fascista di quella organizzata da Senise, dove ci fossero fascisti-agenti e non agenti-fascisti, ma lo squadrista padano non ebbe il tempo di accontentarlo. Pochi giorni dopo questo «cambio della guardia», Mussolini convocò il direttorio del PNF per annunciare che aveva deciso di sostituire il segretario del partito. A Vidussoni, che durante gli scioperi aveva saputo solo spedire telegrammi ai federali con generici inviti alla vigilanza, subentrò Carlo Scorza, l’unico gerarca che si era spinto sino a Torino nei giorni caldi dell’agitazione, il quale aveva solida fama di manganellatore e veniva indicato come responsabile della feroce aggressione al deputato liberale antifascista Giovanni Amendola, avvenuta nel 1925. Nel suo discorso al direttorio – un discorso non destinato al pubblico come ogni altra allocuzione del «duce» in quella sede – Mussolini trattò a lungo il problema degli scioperi, che sempre chiamò «agitazioni operaie», sottolineando che alle rivendicazioni economiche si era innestata la speculazione politica ispirata «dalle cellule comuniste e anche da altre cellule più o meno liberaloidi».
Dopo aver falsata la verità affermando che il governo non era stato preavvisato di ciò che si preparava a Torino, il dittatore incolpò gli organismi politici e sindacali di non aver saputo impedire e poi bloccare gli scioperi. «A Torino – disse Mussolini – sono accadute cose paradossali. Si sono invitati gli operai a ritornare al lavoro, con un volantino stampato alla macchia. Si dava l’impressione che nessuno avesse il coraggio di firmarsi: il Federale di Torino, il Podestà di Torino, il Prefetto di Torino, qualche sigla ci doveva essere per assumere la responsabilità… Questo volantino è stato un documento pietoso, non solo nella sostanza, ma soprattutto per il modo con cui è stato diffuso. Sempre a Torino, quando si è saputo che questa gente voleva fare sciopero alle ore 10, si è pensato di non far suonare la sirena, come se questa gente non avesse l’orologio… Questi sono piccoli accorgimenti, ma io li chiamerò trucchi, coi quali si pensa di bordeggiare e di evitare le difficoltà… A un certo punto si dice: “Tutti i fascisti in camicia nera”. Ma non si è detto per quanto tempo, e se ciò era obbligatorio e allora molti hanno messo la camicia nera; molti no. Anche questo ha dato il senso di una scucitura. I Federali sono andati sul posto… ma non ho l’impressione che siano riusciti a prendere in mano la situazione».
Aggiunse poi che i poliziotti non avevano avuto «il mordente necessario» (e questo giustificava, a suo avviso, il cambiamento ai vertici della PS), ma se l’avessero avuto, cioè «se avessero sparato» addosso agli scioperanti, lui «avrebbe assunto subito la responsabilità di ciò». Poi, dopo aver dichiarato che il regime era disposto a giungere sino al Terrore e polemizzato con coloro che erano contrari alla guerra, con la borghesia e gli intellettuali, propinò al direttorio del PNF alcune idee, sicuramente d’ispirazione hitleriana, sulla guerra in Russia, sulla necessità di politicizzare l’esercito e di rafforzare il partito, quindi concluse affermando che occorreva «prendere per il collo tutti i disfattisti». E gli scioperanti erano, evidentemente, dei disfattisti.
Come si vede, Mussolini fece ancora una volta la faccia feroce, ma in privato si può dire, poiché aveva parlato per uso e consumo dei soli membri del direttorio fascista. Alle minacce non fu dato seguito alcuno. Il dittatore non aveva nessun interesse a sfidare apertamente i lavoratori, come si può rilevare dal famoso discorso del «bagnasciuga», pronunciato il 24 giugno, ma reso pubblico solo il 5 luglio ’43:
«Le masse operaie. Le sospensioni, talune di brevissima durata, dal lavoro del marzo scorso furono sporadiche e a fondo economico. Ogni tentativo di tramutarle in “politiche” fallì nella maniera più ridicola e pietosa. All’invito “clandestino” di dimostrazioni in piazza, nessuno, dico nessuno, rispose. Credo che un nuovo impulso alla vita sindacale convincerà gli operai che veramente il regime fascista è il migliore regime che essi si possono attendere in qualsiasi parte del mondo. A tal proposito è bene che i dirigenti dei sindacati vivano fra gli operai, non “sopra” gli operai, bensì “tra” gli operai. I quali del resto, quando non siano viziati dalle chimere bolsceviche sono delle brave persone educate, tranquille e che chiedono soltanto di essere apprezzate nella loro fatica e informate».
Parole accattivanti, ben diverse da quelle pronunciate in precedenza, tipiche di chi vuole calmare le acque e fa il finto tonto per facilitare l’operazione. È questa la chiave di lettura delle affermazioni mussoliniane, anche se il dittatore si arrampica sugli specchi per dimostrare, mediante la mancanza di dimostrazioni di piazza, l’apoliticità degli scioperi, cosa del resto in contraddizione con quanto da lui detto in precedenza. Va detto che non vi fu nessun invito agli scioperanti perché dimostrassero in piazza, ma pure in diverse località gli operai organizzarono cortei e dimostrazioni per le vie. Questo accadde ad Asti, per iniziativa degli scioperanti della Way Assauto, e anche in altri centri.
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Ricordare oggi (…) gli scioperi del marzo-aprile 1943 significa non solo rievocare la prima grande manifestazione di massa contro la guerra e il fascismo, ma anche onorare migliaia e migliaia di uomini e donne, gli oscuri protagonisti di una azione che si presentava gravida di pericoli per tutti e che per tanti si concluse dolorosamente. È difficile dire che peso ebbero gli scioperi nel portare a maturazione la crisi del fascismo, ma è innegabile che il 25 luglio fu preparato anche nelle fabbriche e che i movimenti antifascisti ricevettero un rafforzamento dall’agitazione operaia, mentre i dissidenti fascisti e probabilmente Vittorio Emanuele III e i militari ebbero dai moti delle fabbriche un incentivo ad agire per prevenire la temuta rivolta popolare.
Gli operai stavano prendendo coscienza della loro forza e presto avrebbero avuto un peso determinante nella soluzione dei nodi italiani: ne erano certi i clandestini dell’antifascismo, se ne stavano rendendo conto la classe dirigente e i fascisti, contrari o favorevoli che fossero a Mussolini.
Pubblicato lunedì 21 Marzo 2016
Stampato il 23/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/incrociarono-le-braccia-in-attesa-di-impugnare-le-armi/