Per decisione del Consiglio dei ministri, si va all’abolizione, tramite decreto legge, del pagamento della prestazione lavorativa con i cosiddetti voucher. Di conseguenza, se tale decreto verrà convertito in legge, non si svolgerà più il referendum promosso dalla Cgil. Il premier Gentiloni ha dichiarato in proposito che “useremo le prossime settimane per rispondere all’esigenza di una regolazione seria per il lavoro saltuario e occasionale, nella consapevolezza che quello strumento si era gradualmente deteriorato e aveva gradualmente modificato le intenzioni iniziali per le quali era stato introdotto e che quindi non era quello lo strumento attraverso il quale dare una risposta efficiente e moderna alla necessità di lavoro saltuario e occasionale”.

È comunque opportuno fare il punto su questa materia, per capire come hanno funzionato fino ad oggi i buoni lavoro e quali problemi si siano aperti in ragione del loro utilizzo.  (G.P.)

Il primo dei referendum proposti dalla Cgil e ammessi dalla Corte costituzionale prevede, com’è noto, l’abrogazione completa di tutta la normativa relativa ai cosiddetti buoni lavoro o voucher, attualmente contenuta negli artt. 48, 49 e 50 del d. lgs. n.81/2015. Istituiti con il d. lgs. n. 276/03, attuativo della c.d. riforma Biagi del mercato del lavoro, essi consistono in buoni, del valore di 10 euro ciascuno, acquistati dal datore di lavoro e utilizzati come mezzo di pagamento dei lavoratori. Dei 10 euro corrispondenti al loro valore e costo, 7,50 vengono riscossi dal lavoratore, 1,30 è versato all’Inps a titolo di contributi previdenziali, 0,70 all’Inail per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e il restante 0,50 costituisce tassa di esazione. L’istituto in origine ha una diffusione limitata, sia in ragione delle difficoltà di reperimento dei buoni, che potevano essere ritirati solo presso le sedi Inps, sia perché ne era previsto per legge l’utilizzo solo per lavori di carattere occasionale e limitato ad alcune specifiche attività, quali ad esempio i lavori di giardinaggio, le ripetizioni e i piccoli lavori domestici. Era (ed è tuttora) stabilito anche un limito massimo di buoni che può essere percepito da ciascun lavoratore. Anche dal punto di vista soggettivo vi erano forti limitazioni: potevano essere assunte e retribuite mediante i buoni lavoro solo alcune categorie di persone, peraltro considerate in ragione del loro particolare status (in origine solo disoccupati, casalinghe, disabili ed extracomunitari), con rilevanti dubbi di legittimità costituzionale, in quanto si riservava questa forma di lavoro a gruppi di persone protetti dal divieto di discriminazioni.

Negli anni successivi numerosissimi interventi legislativi modificano la regolamentazione, prevedendo più ampie e comode forme di distribuzione dei buoni (presso le Poste, le banche e le tabaccherie e da ultimo in via telematica) e soprattutto ampliando considerevolmente sia le attività che possono essere retribuite mediante i buoni, sia le categorie di soggetti che li possono incassare in quanto lavoratori. Sostanzialmente tra il 2008 e il 2015 la possibilità di retribuire i lavoratori mediante i buoni è estesa a tutte le imprese e a tutte le categorie di prestatori, con il limite massimo per ciascun percettore di 7.000 euro di reddito all’anno e di 2.000 euro per ciascun datore di lavoro (elevati a 3.000 nel caso in cui il lavoratore sia un destinatario di ammortizzatori sociali). Nel corso del 2016, secondo i dati dell’Inps, i voucher sono stati utilizzati per retribuire circa 133 milioni di ore di lavoro; nel 2015 hanno coinvolto circa 1.380 mila lavoratori, con un’età media di 35,9 anni, con una media di 63,8 buoni per ciascun percettore; corrispondenti a una percentuale pari a circa l’8% della forza lavoro (v. i dati in https://www.inps.it/docallegati/DatiEBilanci/lavoro%20accessorio/Documents/VOUCHER_Presentazione.pdf). Il loro impiego è stato effettuato da oltre 473 mila imprese nel 2015, in prevalenza nei settori alberghiero, della ristorazione, dei servizi alle imprese e alle persone.

Finalità fondamentale di questa forma di lavoro è quella di fornire uno strumento agile per prestazioni di lavoro considerate minori, che altrimenti rischierebbero di essere svolte in nero. I vantaggi sono individuati generalmente nella comodità data dal fatto che il datore di lavoro non deve adempiere a tutti gli obblighi connessi all’assunzione del lavoratore per lavori di breve durata (comunicazioni agli enti previdenziali, versamento mensile dei contributi, ecc.), nel minor costo previdenziale (con un abbattimento per il datore di lavoro dal 33% al 20%), nel carattere esentasse del reddito così percepito dal lavoratore e della sua compatibilità con lo svolgimento di altri lavori o con il mantenimento dello status di disoccupato. Peraltro è da osservare subito che per lungo tempo l’istituto dei buoni lavoro, come detto volto a favorire l’emersione dal sommerso di attività lavorative minori, si è prestato a forme fraudolente di evasione contributiva. Ciò in quanto il datore di lavoro poteva attivare un solo buono lavoro, corrispondente a un’ora di lavoro e impiegare per giornate intere il lavoratore. In caso di ispezione, sarebbe bastato dichiarare che il lavoratore aveva appena iniziato a lavorare con quell’unico buono attivato per risultare a norma. A questo tipo di utilizzo fraudolento dei buoni è stato posto rimedio solo nel mese di ottobre del 2016, quando il legislatore ha imposto l’attivazione del buono 60 minuti prima dell’inizio del lavoro, con indicazione del nominativo del lavoratore impiegato, del luogo, del giorno e dell’ora del suo utilizzo, obbligo questo, che però riguarda solo i datori di lavoro imprenditori non agricoli.

Tra gli aspetti più critici dell’istituto va sottolineata anzitutto la precarietà implicita nel loro utilizzo: sebbene la questione sia discussa tra i giuristi, il lavoratore non è di fatto considerato titolare di un contratto di lavoro. Il limite di 2.000 euro l’anno che egli può percepire da ciascun datore di lavoro corrisponde a poco più di un mese di lavoro, che può essere anche distribuito lungo tutto l’anno, durante il quale il lavoratore rimane nella totale incertezza del se e del quando potrà essere chiamato a lavorare, potendosi attivare i buoni uno alla volta, giorno per giorno. Dal punto di vista economico, il corrispettivo netto di 7,50 all’ora per il lavoratore risulta sì più alto di quanto previsto per i più bassi livelli salariali dei dipendenti, ma ad esso fanno da contraltare altri rilevanti svantaggi: rispetto al lavoratore assunto con ogni altro contratto di lavoro, il dipendente ha un accredito di contributi nettamente inferiore, che comporta oltre che una pensione decisamente più bassa, anche il rischio di non riuscire a maturare i requisiti necessari per accedere alla pensione (ciò sia perché, secondo le disposizioni attualmente vigenti per maturare una settimana di contribuzione occorre percepire un reddito minimo di 200, 76 euro a settimana, sia perché la riforma Fornero del 2011 ha previsto che i lavoratori che hanno iniziato a lavorare dopo il 1° gennaio 1996 e andranno in pensione con il sistema di calcolo interamente contributivo, potranno farlo a 67 anni solo qualora, oltre ad aver maturato 20 anni di contribuzione, il calcolo della pensione raggiunga l’importo minimo di 1,5 volte l’assegno sociale, pari a circa 640 euro).

Anche dal punto di vista fiscale l’istituto appare discutibile, in quanto si tratta di redditi che si trovano comunque al di sotto del limite minimo di tassazione (e che quindi sarebbero altrimenti esentasse), ma che sono soggetti alla tassa di esazione pari al 5% del loro valore. È opportuno precisare che, come ha osservato anche la Corte costituzionale nel giudizio di ammissibilità del referendum, il buono è solo una modalità di lavoro alternativa alle altre, ma non necessaria, nel senso che la sua mancanza non renderebbe affatto impossibile lo svolgimento di quelle attività lavorative oggi retribuite con i buoni: più semplicemente le renderebbe soggette alle regole e alle tutele previste per la generalità dei lavoratori. Il carattere occasionale della prestazione inoltre potrebbe giustificare il ricorso ad altri tipi di contratti estremamente flessibili, come il contratto a termine, il part-time per solo alcuni giorni della settimana o del mese, o il lavoro a chiamata. Tra l’altro, per i lavori di carattere domestico svolti in ambito familiare, gli oneri di comunicazione dell’assunzione e il costo previdenziale del lavoro sarebbero anche minori.

Olivia Bonardi, docente all’Università Statale di Milano, Dipartimento di scienze sociali e politiche