Ventisette è, per abitudine, singolare. Spesso in maiuscolo, “il Ventisette” rappresentava, per noi giovani professori così come per centinaia di migliaia di altri dipendenti, il tanto agognato giorno di paga. Dalla mattina del 24 giugno 2016 dC, il lemma diviene di fatto un sostantivo plurale, “i Ventisette”, ad indicare gli Stati Membri dell’Unione Europea o – almeno per i prossimi due anni – i governi che decideranno dell’uscita del Regno Unito dalla UE.
A parte l’ironia che il Brexit – o “la” Brexit? – ha scatenato su internet (la palma ritorna alla questione «ma se l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione è Brexit, quella della Scozia dal Regno Unito è “Scottex”?»), la scelta dei sudditi di sua Maestà di lasciare la UE pone alcuni interrogativi di non facile risposta.
Innanzitutto sui problemi legati al “voto popolare” in caso di decisioni di questo tipo.
Le statistiche di Google sulle principali domande poste al motore di ricerca nelle 24 ore successive al voto, indicano che al quinto posto degli interrogativi dei britannici il giorno dopo il referendum c’è: “Quali Paesi appartengono all’Unione Europea?”. Francamente un po’ tardi per informarsi … Più inquietante la domanda al terzo posto: “Cosa succede se lasciamo la UE?”. In un mondo ideale, questo problema si sarebbe forse dovuto affrontare prima di mettere una crocetta sulla scheda. Chiude questa breve panoramica l’interrogativo principe, quello posto dalla maggioranza degli utenti di Google tra il 24 giugno mattina e il 25: “Perché dovremmo restare nell’Unione Europea?”. Assunto che la domanda sia mal formulata – avremmo dovuto mi parrebbe più consono che dovremmo, visto che il quesito è “ex post” – sorge spontanea una contro-domanda: “ma non potevate pensarci prima?”.
Pur tenendo conto dei limiti statistici di un tale indicatore, è evidente che la campagna del SÌ e del NO è stata troppo incentrata su emozioni e menzogne e troppo poco sui veri costi/benefici di una scelta così importante.
Un esempio tra tanti: Nigel Farage, leader del partito della destra populista UKIP, ha ammesso di aver mentito agli elettori in merito ai costi dell’appartenenza della Gran Bretagna all’Unione e ai vantaggi del Brexit. La mattina del Day After, interrogato dai giornalisti di ITV sull’effettiva destinazione dei fondi che il Regno Unito verserebbe ogni settimana alla UE (434 milioni di euro secondo Farage) e che avrebbero immediatamente (sempre secondo l’eurodeputato alleato del M5S al Parlamento europeo) preso la strada del Servizio sanitario nazionale (l’NHS) per offrire ai cittadini del Regno prestazioni migliori, il leader populista ha dovuto ammettere che “c’era stato uno sbaglio” e quando la giornalista lo ha incalzato con “Lei sta dicendo che si è sbagliato, dopo che 17 milioni di cittadini hanno votato per uscire dall’Unione, allettati da questa promessa”, Farage si è profuso in spiegazioni ingarbugliate e poco credibili.
Resta il fatto che la decisione è stata – almeno dalle prime analisi del voto – una “scelta di pancia” più che di testa, influenzata da anni di bugie ed articoli scandalistici su “l’Europa” piuttosto che su ragionamenti ponderati.
Come già suggerito qualche tempo fa (vedi http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/servizi/regno-unito-e-ue-verso-un-drammatico-divorziomo/) il fatto che i più favorevoli alla partenza siano stati gli inglesi sopra i 55 anni, con un livello d’istruzione medio-basso, dimostra che l’OUT ha prevalso non per ragionate prese di posizione, ma per tendenziose e spesso false informazioni fornite ad un elettorato che non era in grado di verificare le notizie.
La democrazia diretta esce quindi dal referendum fortemente indebolita nel suo valore simbolico, rafforzando invece il concetto di delega di potere, ovvero affidare a professionisti – che si suppone facciano scelte ponderate – decisioni che comportino valutazioni complesse ed il più possibile oggettive. Con buona pace di chi, da un ventennio almeno, cerca di sminuire il ruolo della politica.
Un secondo interrogativo è legato all’età dei votanti: all’aumentare degli anni ha corrisposto un proporzionale “fuori”.
I cosiddetti “Native Europeans” – cioè la generazione che è cresciuta dopo il 1973 approfittando del Mercato Unico senza porsi il problema di sudditanza agli eurocrati, vivendo l’Erasmus, la mobilità transfrontaliera ed il riconoscimento dei titoli di studio (tanto per fare qualche esempio) come qualcosa di naturale – hanno in larga parte disertato le urne, commettendo probabilmente l’errore di dare per scontato qualcosa di acquisito.
Terzo elemento che interpella, non tanto come effetto sorpresa, quanto per le possibili conseguenze, è quello geografico.
Come già individuato dai sondaggi, i votanti dell’Irlanda del Nord si sono espressi contro il Brexit, così come la Scozia e, con poca meraviglia, Londra. Singolare che il Galles abbia invece votato a favore. Un proverbio locale recita “Twrcyn pleidleisio i Nadolig”, ovvero “è come chiedere ai tacchini di votare per il pranzo di Natale”. Considerando che ogni Gallese riceve dalla UE 70 sterline in più di quanto paghi con le sue tasse, non si capisce perché il 53% dei votanti abbia deciso di uscire…
Qualunque siano le motivazioni degli uni e degli altri, la questione indipendentista – non da Bruxelles, ma dal Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord (che, per essere precisi, comprende Inghilterra, Scozia, Galles, le isole del Canale, d’Anglesey, di Wight, le Ebridi, le Orcadi e le Shetland) – torna di stringente attualità. Posto che lo status di città indipendente come Washington DC pare di difficile attuazione per Londra, più seria è la questione di Scozia e Irlanda del Nord. Vista da Bruxelles, l’indipendenza di porzioni di uno Stato sovrano è qualcosa che spaventa. Non tanto per i deliri padani, quanto per le possibili ricadute sulla Catalogna, eventualmente sui Paesi Baschi e su alcune altre realtà europee. Proprio in merito alla Catalogna, la Commissione europea aveva lasciato intendere – all’epoca del tentato referendum sull’indipendenza dalla Spagna – che qualsiasi “nuovo Stato” che nascesse sul territorio europeo e che intendesse aderire all’Unione Europea, avrebbe dovuto introdurre formale richiesta e passare per le forche caudine del lungo processo di richiesta d’adesione (la Croazia, ultima arrivata nella UE, ha negoziato per circa otto anni!). Evidente quanto la posizione fosse influenzata dal desiderio di scoraggiare ogni secessione; altrettanto palese quanto – nel caso di Scozia ed Irlanda del Nord – l’interesse dell’Unione Europea sia diametralmente opposto. Nel momento in cui questo articolo va online si mormora di un tentativo del Parlamento scozzese di opporsi ad ogni domanda di uscita del Regno Unito dalla UE: legittimità e peso giuridico di una tale scelta restano da determinare.
Il quarto, ma non ultimo, interrogativo è quello forse più sentito a Bruxelles: ma che succederà ai comunitari oggi residenti al di là della Manica e, soprattutto, quale futuro per i britannici nella Unione Europea? Entrambe le risposte sono legate ai negoziati che cominceranno solo dopo che il governo di Sua Maestà avrà eventualmente formalizzato la richiesta d’uscire, chiedendo l’applicazione dell’articolo 50 del Trattato. Ma se il Commissario Hill si è già dimesso ed è praticamente certo che i 73 deputati britannici prenderanno la strada di casa (compreso Nigel Farage, che con il Brexit si è quindi giocato lo stipendio), più incerta è la sorte del migliaio di dipendenti delle Istituzioni europee di nazionalità inglese. Se per diventare funzionario occorre infatti essere cittadino di uno Stato Membro della UE, nulla si sa sui requisiti necessari per “rimanere” alle dipendenze dell’Unione. Benché il Presidente del Parlamento, Martin Schulz, abbia scritto il giorno stesso ai dipendenti britannici per rassicurarli che farà del suo meglio, nel corso dei negoziati ex articolo 50, per tutelare i loro interessi e benché ogni funzionario presti giuramento d’indipendenza dal Paese d’origine all’atto della sua entrata in funzione – lasciando quindi pensare che il requisito della nazionalità serva solo per il reclutamento – nulla di simile è mai successo prima e tutto è incerto. Prevarrà il sentimento di appartenenza o quello di ritorsione?
E come risolvere il problema dei funzionari a riposo? I dipendenti dell’UE maturano il diritto alla pensione a 65 anni, che può arrivare sino al 70% dell’ultima retribuzione. La cassa pensioni è alimentata dalle trattenute sugli stipendi e dall’imposta sui salari (sino al 45%) ma è ovviamente integrata dai contributi che ogni Stato membro paga annualmente. L’uscita del Regno Unito comporterebbe la scomparsa di tali trasferimenti – che come abbiamo visto è stato un punto fondamentale nella campagna dei Brexiters – e quindi l’Unione si troverebbe a dover pagare le pensioni agli ex funzionari britannici usando i soldi degli altri 27 Stati Membri. Opzione, ovviamente, inaccettabile.
A Maria Hübner, presidente della Commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo, spetta poi l’ingrato ruolo di porre la ciliegina sull’amarissima torta: “L’inglese è oggi una lingua ufficiale e di lavoro dell’Unione Europea e anche quella predominante, ma secondo il Regolamento numero uno del 1958, ogni Paese sceglie una sola lingua al momento dell’adesione. Gli Irlandesi hanno scelto il gaelico ed i Maltesi il maltese; il Regno Unito era l’unico ad aver notificato l’inglese”. Senza la Gran Bretagna, quindi, exit l’inglese come lingua ufficiale dell’Unione! Basta traduzioni dei documenti e della Gazzetta Ufficiale e basta interpretazione simultanea delle sedute del Parlamento e delle centinaia di riunioni che ogni giorno popolano il quotidiano della UE.
“Naturalmente il regolamento si può cambiare, con un consenso all’unanimità del Consiglio”, ha continuato la Signora Hübner, ma non è detto che accada.
Il terremoto che ha colpito i due lati della Manica era largamente prevedibile ed è francamente difficile pensare che nessuno, né di qua né di là, abbia cercato di prepararsi al peggio, facendo una lista dei problemi eventuali. Eppure in questi primi giorni sembra che tutto sia inaspettato. Gli inglesi sono traumatizzati, ministri ombra e primi ministri si dimettono, i militanti chiedono l’allontanamento dei vertici dei partiti, i congressi d’autunno s’annunciano come un redde rationem in cui gli ex alunni dell’Eton College, che da generazioni governano la Gran Bretagna, sembrano destinati a cedere il passo a chi ha fatto scuole meno prestigiose ma pare più vicino ai bisogni della gente.
Cameron, Primo Ministro dimissionario, annuncia che non sarà lui a negoziare con l’Europa e Westminster studia ogni opzione per ritardare l’introduzione formale della notifica di fine contratto. Dall’altra parte, i governi dei 6 Stati fondatori si riuniscono con una specie di sussulto d’orgoglio e la maggior parte dei leader chiede che l’articolo 50 sia attivato il più presto possibile, una specie di “via il dente via il dolore” certamente più emozionale che giuridico.
“Mi parli dei territori che hanno lasciato le Comunità europee” era la domanda che ponevo ai miei giovani studenti di Diritto CE all’inizio degli anni ’90, trabocchetto innocente per ricordare il singolare episodio della Groenlandia, territorio autonomo della Danimarca che nel novembre 1983 decise di staccarsi dalla CEE creando un precedente unico e – pensavamo allora – irripetibile. Benché il Trattato di Lisbona abbia in seguito introdotto la possibilità per uno Stato di lasciare il club, nessuno, sino alla mattina del 24 giugno, credeva realmente che fosse un’ipotesi realizzabile. L’Europa esce rafforzata o indebolita dal Referendum? Da europeista convinto ritengo che l’Unione Europea debba cogliere l’occasione per ripensare al proprio ruolo, senza cadere nella trappola di considerare che gli inglesi abbiano deciso d’andarsene a causa delle politiche troppo invasive dell’Unione.
Al contrario, la timidezza di Bruxelles sui dossier sociali, lo strapotere degli Stati Membri che ha paralizzato l’attuazione dei principi spinelliani, il non voler agire per non stuzzicare desideri d’abbandono, non hanno oggi più giustificazioni.
O l’Europa approfitta del momento difficile per raddrizzare la schiena e guardare davanti a sé o l’abbandono del Regno Unito rischia di essere il primo di una serie. Che determinerebbe, di fatto, la sconfitta delle idee di quei precursori visionari che il 25 maggio 1957, a Roma, nella sala degli Orazi e Curiazi in Campidoglio, firmarono il Trattato che ha garantito 70 anni di pace, stabilità e progresso ad un continente che usciva martoriato dall’esperienza del nazifascismo.
Filippo Giuffrida, giornalista, Presidente ANPI Belgio, membro del Comitato Esecutivo della FIR in rappresentanza dell’ANPI
Pubblicato mercoledì 6 Luglio 2016
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