I primi due mesi del 2016 hanno visto un improvviso capovolgimento di fronte in Siria. Le forze filogovernative, con l’aiuto determinante dell’aviazione russa, hanno tagliato le linee di rifornimento dei ribelli verso nord, circondando quasi completamente la porzione della città di Aleppo ancora in mano a questi ultimi.
La riscossa del regime guidato dal presidente Bashar al-Assad ha allarmato l’Arabia Saudita, che fin dai primi mesi della rivolta aveva invocato la sua rimozione dal potere ed aveva attivamente perseguito tale obiettivo finanziando e armando l’insurrezione.
Riyadh si è detta pronta ad inviare proprie truppe nel Paese insieme alla Turchia, altro sponsor dei ribelli. Bersaglio dichiarato della missione sarebbe l’ISIL, il gruppo estremista che nel giugno del 2014 ha fondato un sedicente califfato a cavallo tra Siria e Iraq.
Tuttavia, responsabili e commentatori sauditi non hanno fatto mistero sul reale intento della ventilata spedizione militare, che sarebbe quello di contrastare Damasco e l’influenza iraniana. La monarchia saudita è impegnata in una sorta di “guerra per procura” con l’Iran su numerosi fronti mediorientali, dalla Siria all’Iraq, e dal Libano allo Yemen.
Nei disegni di Riyadh, la Siria verrebbe così suddivisa in due zone d’influenza, una occidentale sotto il controllo del regime, dei russi e degli iraniani, ed una orientale sotto il controllo di una “coalizione anti-ISIL” nella quale il regno saudita avrebbe un ruolo di primo piano.Fonti anonime a Riyadh hanno inizialmente accennato alla possibilità di assemblare una forza consistente, addirittura di 150.000 uomini, che verrebbero forniti anche dagli alleati del Golfo e da paesi come Sudan, Pakistan, Egitto e Giordania.
Lo scorso dicembre Mohammed bin Salman, ministro della Difesa e figlio del re, aveva annunciato la creazione di una “coalizione islamica” contro il terrorismo, costituita essenzialmente da Paesi sunniti, che avrebbe combattuto militarmente l’ISIL ed ogni altra manifestazione di estremismo jihadista nel mondo arabo-islamico.
Ma l’esclusione di Iran, Iraq e Siria dall’alleanza era apparsa a molti analisti come un indizio eloquente di quali fossero, agli occhi della monarchia saudita, i reali avversari da contrastare.
Per dare maggior forza alle proprie bellicose dichiarazioni, Riyadh ha annunciato imponenti esercitazioni militari vicino al confine iracheno, con la partecipazione di 20 Paesi arabi e musulmani. Soprannominate “Raad al-Shamal” (Tuono del Nord), queste esercitazioni hanno avuto l’effetto di inasprire le tensioni con Baghdad, mentre milizie sciite irachene si sono recate a monitorare la situazione alla frontiera.
Tali milizie, insieme a Teheran e Damasco, hanno affermato senza mezzi termini che combatteranno ogni soldato saudita che osasse metter piede nella vicina Siria.
Oltre che un comprensibile allarme per una possibile ulteriore destabilizzazione della regione, le manifestazioni “muscolari” dell’Arabia Saudita hanno però suscitato perplessità tra analisti ed esperti militari. L’inedito interventismo del regno, alimentato dall’ossessione che l’alleato statunitense abbandoni la regione, non sta dando i frutti sperati da Riyadh.
La monarchia è già impantanata in un sanguinoso conflitto nello Yemen contro il movimento sciita degli Houthi. In tale operazione bellica, essa si avvale soprattutto di forze yemenite supportate dalla propria aviazione. Ma Riyadh ha dovuto schierare decine di migliaia di soldati sul suo confine meridionale per difendersi dalle continue rappresaglie degli Houthi.
Questi ultimi, alleati con spezzoni dell’esercito yemenita rimasti fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, compiono frequenti incursioni in profondità nel territorio saudita. Esse hanno causato centinaia di vittime, civili e militari, obbligando le autorità saudite ad evacuare almeno 7.000 persone da decine di villaggi di frontiera.
Oltre alle perdite umane e ai danni materiali, Riyadh deve mettere in conto l’enorme esborso che l’impegno bellico comporta. Secondo alcune stime, la coalizione a guida saudita spende complessivamente 6 miliardi di dollari al mese nel conflitto yemenita, gran parte dei quali provengono dalle casse del regno.
Anche a causa del crollo dei prezzi petroliferi, la monarchia ha registrato un deficit di quasi 100 miliardi di dollari lo scorso anno. E un deficit pressoché analogo è previsto nel 2016. Ciò sta mettendo a dura prova la sostenibilità dello Stato saudita, ma le spese nel settore della difesa continuano a crescere.
Nel periodo che va dal 2011 al 2015 le importazioni militari sono aumentate del 275% rispetto al quinquennio precedente, facendo del regno il secondo importatore mondiale di armi dopo l’India.
Malgrado spese così ingenti, l’esercito saudita rimane scarsamente equipaggiato per un massiccio impegno bellico lontano dai confini nazionali. Esso è strutturato essenzialmente per difendere il territorio dello Stato, e soprattutto la famiglia reale, da minacce esterne ed interne.
Inoltre, i presunti alleati di Riyadh, compresi quelli della cosiddetta “coalizione islamica”, si sono già mostrati estremamente riluttanti a fornire truppe di terra nel conflitto yemenita (emblematico a questo proposito il rifiuto di un alleato storico come il Pakistan). Ancor più difficilmente la monarchia riuscirà a convincerli ad inviare soldati in un conflitto come quello siriano, ben più pericoloso per gli equilibri regionali.
Un impegno militare su due fronti sembra dunque essere al di fuori della portata saudita. Tutt’al più, il regno potrebbe inviare in Siria un numero limitato di forze speciali (non più di 3.500 uomini, secondo alcune stime), che tuttavia necessiterebbero di una copertura aerea e del supporto logistico della coalizione a guida americana.
L’aviazione di Riyadh è duramente impegnata nello Yemen, e malgrado lo sbandierato invio di bombardieri sauditi in Turchia, alla base di Incirlik ne sono arrivati appena quattro.
Gli stessi responsabili militari del regno hanno recentemente compiuto una parziale retromarcia, affermando che Riyadh è disposta a mandare proprie truppe in Siria nell’ambito di un’eventuale missione di terra guidata da Washington.
L’intera manovra del regno è stata dunque interpretata a livello internazionale come un tentativo di forzare la mano alla Casa Bianca. Vista la ferma volontà del presidente Obama di non impiegare soldati americani sul terreno né in Siria né in Iraq (ad eccezione di un esiguo numero di forze speciali e addestratori), le speranze saudite sono destinate ad essere deluse, almeno per il momento.
Ankara ha problemi non dissimili da quelli di Riyadh. Un intervento armato turco rischierebbe di provocare uno scontro diretto con le forze russe. Ma diversi esponenti della Nato hanno fatto capire al governo del presidente Erdogan di non fare affidamento sulla solidarietà atlantica qualora un’escalation con Mosca fosse conseguenza dell’ingresso di truppe turche in Siria.
A breve termine, dunque, sia Riyadh che Ankara cercheranno di seguire altre strade, in particolare riorganizzando le fila dei ribelli e inviando loro nuove armi.
I rischi di escalation restano presenti, ma sono certamente inferiori a quelli che sarebbero determinati da un intervento militare turco e/o saudita. Tuttavia, sia Ankara che Riyadh non si rassegnano a veder sconfitti i propri alleati in Siria, e attendono con impazienza le presidenziali americane, sperando che il successore di Obama opti per una politica più interventista in Medio Oriente.
Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”
Pubblicato lunedì 7 Marzo 2016
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