È il popolo degli Stati Uniti – nelle parole di Lincoln, lo stesso Stato dell’Unione – il principale sconfitto di una vicenda elettorale che si conclude con l’inaugurazione della presidenza di Donald Trump, anche se il resto del mondo non ha motivi per stare allegro.
In primo luogo quel popolo ha dovuto scegliere tra due candidati entrambi minati da forme disparate di conflitti d’interesse. Quindi, se eletti, tali da rendere il governo da loro presieduto vulnerabile a diverse opportunità di ricatto, in primo luogo da parte degli interlocutori, pubblici e privati, locali e stranieri, che in un recente passato li hanno favoriti e sostenuti. La lista sarebbe lunga, ma in estrema sintesi si può dire l’alta finanza e gli Stati del Golfo nel caso di Hillary Clinton, la Russia e svariati partner di affari nel caso di Trump.
Lo svolgimento di queste elezioni ha rivelato falle antiche e nuove del sistema democratico americano. La rappresentanza sproporzionata degli Stati meno popolosi che, non per la prima volta, consentono l’elezione di un candidato numericamente minoritario; regole e modalità di voto diversificate Stato per Stato – per alcuni aspetti tecnici rilevanti, addirittura contea per contea – anche per primarie ed elezioni federali; modalità d’iscrizione al voto che ne disincentivano e ancora discriminano la partecipazione: sono tutti antichi nodi venuti al pettine nel corso di questa campagna elettorale. Ad essi se ne sono aggiunti, o sono diventati visibili, altri di nuovo conio: le interferenze degli apparati di partito (negli Stati Uniti teoricamente tecnici) per condizionare l’esito delle primarie, in particolare al fine di sconfiggere la candidatura di Bernie Sanders, nonostante ciò vittoriosa in 21 Stati; l’azione dei hackers, moscoviti o meno, nel rivelare selettivamente comunicazioni un tempo riservate, ma anche l’assunzione di personaggi come un ex agente dei servizi segreti di un altro Stato (il Regno Unito, per la precisione) per raccogliere o addirittura produrre notizie dannose per un candidato (in questo caso, Trump). Soprattutto la crescita esponenziale dell’influenza del denaro dovuta ad una sentenza della Corte Suprema che ha rimosso ogni vincolo a questo fine.
A tutto ciò si devono aggiungere danni che potremmo definire collaterali. O che dire di un sistema di sicurezza che, in un momento come questo, ha visto, prima e dopo l’elezione, la CIA e l’FBI schierate su posizioni opposte, comunque impropriamente operative e tra loro contraddittorie? In quanto società civile, il popolo americano è stato danneggiato da un ruolo dei media che, anche nella parte più qualificata (il New York Times che ha come motto “All the News That’s Fit to Print”, “tutte le notizie che vale la pena stampare”), si sono largamente trasformati in testate propagandistiche. Non è contestato il loro diritto di schierarsi, bensì quello di omettere o minimizzare le notizie scomode per il proprio candidato, enfatizzare quelle che ne colpiscono negativamente gli avversari o di oscurarne gli elementi di forza. Particolarmente evidente è stato il ricorso ad una logica di profezie che avrebbero dovuto autoadempiersi e che, invece, sono state clamorosamente smentite dai fatti. Prima tra tutte le previsioni sulla vittoria di Hillary Clinton, la disinformazione riguardo al seguito riscosso da, la trasformazione della candidatura di Trump da avversario di comodo a vincente. Il disastro che ne consegue è sotto i nostri occhi: tutto il dibattito sulla post-verità, che si vuole imputare alla rete, è in larga parte il frutto del rifiuto, o evidente ritardo, consapevole o meno, dei media ad accogliere ciò che corrisponde alla realtà di fatti rilevanti.
Infine, ciliegia sulla torta, l’esito finale che non solo premia un candidato che, per le sue caratteristiche – come ha giustamente osservato Beppe Severgnini, con un pizzico di Schadenfreude, il piacere che arrecano le disgrazie altrui – ha restituito un’aura di rispettabilità alla creatività nostrana di questo tipo, ma che, attraverso le nomine appena effettuate, profila una presidenza che potrebbe risultare un gigantesco inganno per i propri elettori. O che dire di una campagna elettorale che cavalca il tema dell’ineguaglianza; promette, se non agli ultimi, ai penultimi di razza bianca, un riscatto dall’alta finanza, dall’interventismo militare, dalle malefatte dell’establishment vigente, per poi produrre il presidente che vediamo ormai all’opera? Ma che si circonda di esponenti di Goldman Sachs, di generali più o meno bellicosi, comunque espressione di alcune delle sfaccettature della spesa militare, che rilancia quella per le armi strategiche, senza dimenticare un segretario di stato in pectore capo della Exxor, distintosi per gli affari costruiti con la Russia (anche se disposto a smentirsi per passare il vaglio del Senato)? Per carità, tutto è possibile, date le peculiarità dell’uomo.
Le polemiche contro la NATO, a cui collegare il rapporto con Putin, le critiche al trilione destinato alla produzione degli F35, le cautele introdotte riguardo alla sanità, l’accentuazione di alcune spinte autarchiche possono essere foriere di qualche novità, non tutte positive (come la ferma intenzione di giocare sui contrasti tra Stati europei). Tuttavia, costituiscono limiti difficilmente valicabili il rifiuto di qualsiasi forma di redistribuzione del reddito che intaccherebbe le elusioni fiscali dei colleghi miliardari e di regolamentazione della finanza, come anche il rilancio di un nuovo bipolarismo che sostituisce la Cina alla Russia quale nemico indispensabile per giustificare ed alimentare il complesso militare-industriale e la scelta antiglobale. Un suo elettore disoccupato del Rust Belt, dell’industria dismessa, potrebbe sentirsi preso in giro, per usare un linguaggio casto. O – pericolo da non sottovalutare – reclutabile per imprese politiche più estreme. Forse i muri doganali e umani, come anche qualche parola rassicurante non bastano per tranquillizzarlo. Invece, alcuni potenti sostenitori di Clinton possono ritenere Trump un male minore rispetto al candidato democratico in grado di intercettare la rabbia degli ineguali (Sanders).
Non è chiaro lo scopo della campagna mediatica in atto contro il presidente appena eletto. Difficile dire se si tratti di predisporre il suo impeachment (incriminazione) da parte del Congresso – obiettivo difficile da raggiungere da parte di maggioranze del suo stesso partito – o semplicemente di durezze della discussione politica, cui noi, al di là di qualche insulto in rete, non siamo abituati. Lo scopo immediato è sicuramente quello di renderlo più ricettivo ai poteri che, pur delusi dal risultato elettorale, continuano a contare quanto e più di esso. L’effetto netto è quello di indebolire le istituzioni democratiche finora risultate più solide del mondo, circondando l’immagine degli Stati Uniti di un’aura di debolezza e anche di ridicolo. Il Paese che ha inventato forme nuove di intervento nel voto di molti altri sovrani, ora piagnucola per avere subito lo stesso trattamento, per poi disconoscere la legittimità del proprio eletto? La difesa per questo popolo è ormai quella di ricorrere ai propri Padri Fondatori. We the People…
Gian Giacomo Migone (g.gmigone@libero.it), già ordinario di storia ed istituzioni degli Stati Uniti, è stato presidente della Commissione affari esteri del Senato dal 1994 al 2001
Pubblicato giovedì 2 Febbraio 2017
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