Volendo vivere e combattere fino in fondo per le loro idee e convinzioni, ad alcune persone una vita conformista e omologata va stretta. Non tutti si accontentano di condurre un’esistenza ordinaria, senza infamia né lode. Osvaldo Falaschi è uno di questi, disposto a tutto pur di manifestare e combattere per i suoi ideali, in cui ha creduto fermamente per oltre mezzo secolo. Osvaldo nasce il 1° giugno 1903 a Camerino, cittadina delle Marche che allora contava di poco più di 12mila abitanti. Con genitori progressisti, Tommaso e Giustina Massarotti, cresce leggendo l’Avanti.
Durante la grande guerra i quattro fratelli più grandi sono chiamati alle armi, ne tornarono a casa solo due. Ferruccio, sottotenente allievo pilota (laureatosi poco prima in scienze economiche all’università Bocconi di Milano) il 17 maggio 1918 era precipitato a Gallarate. Sesto, di professione geometra, era morto per malattie contratte sul fronte francese e italiano. Il dolore immenso che aveva genitori e figli sopravvissuti fece sì che Osvaldo diventasse un ribelle. Si iscrive alla gioventù socialista di Camerino quando ha poco più di diciotto anni, e nel gennaio 1921, passa al Partito comunista italiano, consapevole dei problemi cui sarebbe andato incontro avendo un carattere impulsivo e rivoluzionario.
Dopo pochi mesi dalla fondazione del Pci, a maggio avviene il primo scontro con fascisti locali e Carabinieri: trattenuto dai compagni evita il primo arresto. E’ ammonito e vigilato dalla polizia locale e dalla questura di Macerata. A vent’anni viene chiamato a svolgere il servizio di leva a Pola, in Istria, dove viene accompagnato da personale dell’Arma e consegnato al 4° reggimento artiglieria di campagna come elemento pericoloso. Dopo appena venti giorni si ritrova in cella a scontare quindici giorni di consegna di rigore per aver distribuito alle reclute Il lavoratore di Trieste, rischiando il carcere militare a Gaeta, con l’accusa di propaganda sovversiva nel Regio esercito. Congedato in anticipo per malattia, si trasferisce a Roma in cerca di lavoro.
Ha ventuno anni e vive con i parenti al Quirinale, entrando nel palazzo reale, sotto gli occhi della polizia, con in tasca l’Unità acquistata alla galleria Colonna. Un giorno, nella centrale via Condotti, nota sei-sette facinorosi che al canto di Allarmi siam fascisti stanno picchiando tutti i passanti che osano non togliersi il cappello: Falaschi esercita la forza delle sue robuste braccia contro di loro.
Rimane nella capitale fino al 1926, poi, per evitare problemi ai parenti, si trasferisce a Milano, dove trova lavoro nell’Azienda tranviaria municipale, mentre nel frattempo il partito comunista è messo fuori legge. Insieme ad altri colleghi di Parma e Milano forma una cellula comunista clandestina che stampa e distribuisce L’Unità. Di notte il gruppo traccia sui muri scritte inneggianti al partito e contro il fascismo: imprese pericolose. Il tribunale speciale fascista aveva già condannato dei compagni trovati in possesso di materiale clandestino. Le perquisizioni eseguite dalla polizia a casa di Osvaldo hanno però esito negativo; chiamato al commissariato di Porta Garibaldi, e sottoposto a un lungo interrogatorio, riesce a farsi rilasciare. Ma ormai la sua figura di antifascista è nota.
Decide di tornare a Roma dove ritrova i vecchi compagni e riprende l’attività clandestina con nuove cellule, riunioni a lume di candela nei cantieri edili e altri scontri con i fascisti.
Nel 1926 Osvaldo Falaschi lascia di nuovo la capitale: aveva trovato un buon lavoro presso una ditta automobilistica a Civitanova del Sannio, un centro dell’alto Molise. Qui proseguono le sue avventure quasi incredibili: non nasconde le sue idee, anzi a volte appare temerario nonostante, per ironia della sorte, i suoi datori di lavoro sono il locale segretario del fascio e il podestà. Osvaldo nota che i carabinieri prendono riservatamente informazioni sul suo comportamento, ma il maresciallo, un marchigiano di Fabriano, lo rispetta, così come i suoi datori che lo hanno accolto in famiglia.
Dopo quattro anni di impegno e duro lavoro, richiamato dal padre, dove ritornare a Camerino, lasciando a malincuore la cittadina dove aveva ricevuto molte dimostrazioni d’affetto e trascorso gli anni migliori della sua vita. Inizia a lavorare insieme a un fratello come meccanico, ma le cose non vanno come spera e riparte alla volta di Milano, dove è assunto dalla compagnia trasporti internazionali Gondrand e nel 1936 inviato ad Asmara, in Africa orientale. Qui lavora in una officina di riparazione camion e auto, percependo un buon compenso e facendosi volere bene dall’ingegner De Fornari, capo del personale. A bordo dei mezzi della Gondrand frères, Osvaldo può girare l’Africa orientale spingendosi fino a Cassala (attuale Sudan), Addis Abeba e Gibuti, nella Somalia francese, per acquisti di autocarri, ricambi e lubrificanti. Gibuti era il più importante scalo portuale dell’intero Corno d’Africa. Uomo sensibile ai diritti umani, Osvaldo avrebbe poi paragonato quelle colonie italiane al Vietnam degli anni Sessanta: soprusi, razzie, impiccagioni e fucilazioni. Quando viene a sapere della strage del monastero di Debre Libanòs inorridisce per gli oltre 2mila morti, anche se i numeri ufficiali comunicati in Italia dal viceré riferiscono di “sole” 452 vittime.
I sentimenti e gli ideali di Falaschi non passano inosservati e i tentacoli dell’Ovra arrivano fin sulle sponde del mar Rosso. Nel 1938, mentre si trova in un ristorante di Asmara, viene ammanettato quale “elemento non adatto per le colonie”, quindi rimpatriato a Brindisi e consegnato alla questura di Macerata. Questo episodio lo colpisce molto, lasciandolo avvilito (oltre che disoccupato e sorvegliato) per un paio d’anni, ma a Camerino Osvaldo non può avere ampi spazi di manovra. Continua però a distribuire stampa clandestina in tutta la provincia, insieme a Italo Tamburi di Civitanova Marche, Vincenzo Gavasci di Macerata e Aldo Buscalferri di Caldarola.
In ogni comunità, oltre ai delatori e chi preferisce subire per inerzia o indifferenza, c’è sempre chi disapprova l’impegno di qualcuno in difesa della libertà e dei diritti umani. Falaschi trova finalmente lavoro alle cartiere Miliani di Castelraimondo, dove nel maggio 1942 è arrestato di nuovo con l’accusa di “disfattismo politico in tempo di guerra” per diffusione di volantini antifascisti e denunciato al Tribunale speciale di Roma. Nella storica IV aula, l’11 luglio 1942 con sentenza nr. 397, è condannato a otto anni di reclusione e più 4.000 lire di multa. Dapprima viene recluso nelle carceri di Regina Coeli poi a Civitavecchia e Forte Urbano di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena (poi bombardato il 19 settembre 1944), sottoposto a regime duro, riservato ai detenuti politici. Il galeotto nr. 8356 è coperto di stracci e malaticcio: in parecchi tra i prigionieri muoiono di tubercolosi o per il pessimo trattamento riservato ai condannati politici, come Varodello di Cesena, compagno di cella a Civitavecchia.
Il 25 luglio 1943, con la caduta del fascismo, Falaschi torna libero, rientra a Camerino e riabbraccia la moglie Antonia e i tre bambini Tommaso, Rosanna e Catia. Il suo corpo è molto provato dalla prigionia e il desiderio di rifarsi una vita deve fare i conti con la Repubblica di Salò. A Camerino arrivano ai vertici del partito repubblichino, personaggi quali il sottoprefetto Umberto Cruciani e il tenente della Gnr Togo Taccari. Osvaldo teme di tornare i in carcere e così raggiunge sugli Appennini le formazioni delle Garibaldi. Verrà riconosciuto partigiano combattente in elenco 46, n.o. 51, distaccamento Mancini, dal 1° gennaio al 15 luglio 1944. Il Partito comunista decora Falaschi con una medaglia d’argento e una di bronzo. Le aspettative in un futuro migliore nel dopoguerra sono presto deluse: il partigiano Osvaldo non riesce a trovare occupazione e, nel 1948, decide di emigrare in Venezuela. A Caracas lavora in una azienda milanese, per essere poi raggiunto dalla famiglia poco tempo dopo.
Si reca spesso in Colombia, nel viaggio di ritorno passa vicino ai confini col Brasile: si sentiva libero, nonostante il lavoro pesante e a volte il dover dormire nella cabina del camion, su un’amaca o sui sacchi di cemento. Le memorie stilate da Falaschi, sulle quali si basa in parte questo racconto storico, non hanno la corretta collocazione temporale suo periodo trascorso in Venezuela . È necessaria un po’ di chiarezza sulla situazione governativa dell’epoca nel Paese latinoamericano. Il 23 novembre 1948 il socialista Romulo A. Bétancourt è deposto ed esiliato dai conservatori alleatisi con l’esercito, e il potere è assunto da una giunta militare che scioglie il parlamento. Agli inizi degli anni Cinquanta la situazione è molto incerta. Il 2 dicembre 1952 il colonnello Marcos Pérez Jiménez impone una dittatura con l’appoggio delle compagnie petrolifere internazionali. Il 23 gennaio 1958 Jiménez è destituito e dopo le regolari elezioni del 7 dicembre 1958 torna al potere Bétancourt, ma le forze politiche estremiste ed eversive sia di destra sia di sinistra (influenzate dall’esperienza cubana) attuano una durissima opposizione.
A Caracas, vicino di casa di Falaschi è Pedro Ortega Díaz (1914-2006), giovane avvocato, segretario del partito comunista venezuelano, i due diventano ottimi amici. Osvaldo collabora con il giornale Tribuna Popular, organo d’informazione del partito comunista venezuelano per far sì che gli immigrati italiani fossero visti di buon occhio. Invia relazioni al Partito comunista italiano, e anche all’onorevole Giancarlo Pajetta che era stato detenuto a Regina Coeli nello stesso suo periodo.
Nel 1958 apre una raccolta fondi tra gli italiani in aiuto di Fidel Castro, che a Cuba sta combattendo contro il dittatore Batista. Dopo la vittoria, Castro giunge a Caracas per tenere una conferenza. In quella occasione Osvaldo viene presentato dall’avvocato Ortega a Fidel Castro e tra l’entusiasmo del pubblico lo saluta anche a nome dei comunisti italiani. Nel 1960 Falaschi compie un breve viaggio in Italia per cure e riposo, poi torna in Venezuela dalla famiglia. Ben presto però, ha la percezione che la polizia politica sta sorvegliando la sua casa. Ripensa alla durissima esperienza carceraria, teme seriamente per la sua incolumità: senza meditare troppo, una sera si reca all’aeroporto e torna in Italia.
Nella patria di Simón Bolívar, Falaschi era rimasto circa dodici anni. Aveva sperato che la situazione politica in quel Paese cambiasse per poter riabbracciare figli e nipoti, come anche in Cile e Bolivia. In Italia Falaschi ha condotto per anni l’attività di esportatore e si è iscritto all’Anpi. Nel 1973 non rinnova la tessera del Pci a causa di contrasti con la direzione per il suo riconoscimento di perseguitato politico. L’amante delle libertà Osvaldo Falaschi, che mai aveva fatto compromessi sugli ideali politici, scompare il 26 ottobre 1992.
Eno Santecchia
Pubblicato sabato 12 Giugno 2021
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