Cristo quest’anno non è andato in processione. Il lutto ha investito il mondo intero, ricordandoci la caducità di ogni cosa. E ci racconta la morte. Migliaia di sudari non hanno avuto il sollievo di una mano amata, chiusi in stanze d’ospedale in compagnia dei loro respiratori, doloranti, come i colpi inferti all’Ecce homo. La loro sepoltura in solitaria è un lutto mutilato.
Il decreto varato dal governo l’8 marzo proibisce tutte le cerimonie civili e religiose, inclusi i funerali, per limitare la diffusione del Covid-19. Una disposizione che ha portato a un triste paradosso: chi muore (e purtroppo continuerà a morire) con il Coronavirus non potrà avere l’ultimo saluto da parte dei propri familiari. Le misure infatti impediscono gli assembramenti e un funerale – laico o religioso – in una sala o in una chiesa rientra in questa categoria.
Per i malati ospedalizzati non è previsto alcun contatto con l’esterno. Solo un telefono o un tablet sopperiscono al calore di cui si ha bisogno in momenti di sofferenza, quando il corpo non ce la fa. Molte persone muoiono in compagnia del personale medico, che in questa fase di emergenza sanitaria diventa l’ultimo contatto umano nella vita di chi muore infetto.
Sono di fatto congelati due momenti fondamentali che costituiscono la nostra umanità: l’accompagnamento del morente negli ultimi giorni della sua vita e la celebrazione comunitaria del rituale funebre.
«Una situazione drammatica che rafforza l’importanza che ancor oggi riveste la dimensione rituale nelle nostre vite, benché la nostra sia una società all’apparenza sempre più incline alla privatizzazione del dolore» spiega l’antropologa dell’università di Trento Marta Villa a Radio Popolare.
Andare nella casa del defunto, recarsi nella cappella mortuaria di un ospedale, raggiungere il cimitero al momento della sepoltura. Sono tutte azioni vietate. Per gli esseri umani accompagnare in modo collettivo qualcuno alla fine della sua vita è un momento che rafforza il senso di comunità.
«Il rito funerario comprende la singola esperienza della perdita, del lutto, della sofferenza all’interno di una cornice di senso condiviso, collettivo. Permette, a chi resta, il commiato e rinnova i valori della collettività, collocando la perdita individuale all’interno di un ordine naturale e sociale, conferendole un senso e rafforzando i legami comunitari. Si collettivizza un dolore che nasce come individuale» scrive lo storico delle religioni e antropologo Ernesto De Martino in “Morte e pianto rituale nel mondo antico” (1975). Il rituale funebre è quindi un momento fondamentale per l’elaborazione individuale del lutto, che rassicura anche l’intera comunità: nonostante i singoli muoiano, la vita della società può continuare.
«Per la comunità è un lutto mutilato: il fatto che venga meno il culto dei morti segna una frattura eccezionale con il passato poiché la relazione con la morte e la devozione dei defunti sono una delle cosiddette costanti antropologiche di tutte le culture, di tutte le epoche. Con il coronavirus la morte è solitaria e si rompe, pertanto, questo momento culturale: poter accompagnare il momento della morte, alleviare con la presenza del gruppo il momento del distacco da questa vita. Il funerale – che altro non è che uno dei tanti riti con cui il genere umano saluta i propri cari – ha a che fare con la gestione collettiva del dolore. Ci sono dei riti che servono ai vivi per poter capire quello che è successo. Si pensi alla tradizione di vestizione del morto. Sono azioni rituali, presenti in tutte le culture, che aiutano ad accettare e ad addomesticare la morte – continua l’antropologa Villa –. Un rito è sempre qualcosa che facciamo per ragioni culturali, una necessità insita all’essere umano evoluto che non rientra necessariamente nella sfera religiosa. È una questione umana».
Solo in pochi momenti della storia le persone sono state lasciate morire da sole: nei campi di concentramento, dove l’uomo ha reso inumano un altro uomo e, prima ancora, durante le pestilenze dove non si potevano trattare i cadaveri perché contagiosi.
«Due cavalli che, allungando il collo, e puntando le zampe, venivano avanti a fatica e strascinato da quelli, un carro di morti, e dopo quello un altro, e poi un altro e un altro; e di qua e di là, monatti alle costole de’ cavalli, spingendoli, a frustate, a punzoni, a bestemmie» racconta Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi”, dandoci uno spaccato di Milano colpita dall’epidemia di peste nel 1630.
Una colonna di carri che ci riporta immediatamente a quella composta da una trentina di mezzi pesanti dell’esercito con a bordo i 71 feretri che il 18 marzo ha attraversato Bergamo. Un’immagine che ha evocato tempi di guerra: una presenza così massiva dell’esercito nelle nostre strade non si vedeva dalla Seconda guerra mondiale. Una guerra che in realtà non viviamo perché “l’insanabile offesa” di cui parlava Primo Levi dell’uomo contro uomo qui non avviene. È anche un’immagine simbolo di un lutto collettivo che verrà elaborato a lungo proprio per l’impossibilità da parte di moltissime persone di avere un ultimo contatto con il proprio familiare malato. Atti, come detto, importanti nell’elaborazione della perdita. “Quando i morti non si possono piangere, tornano ad agitare i viventi” è un antico detto che esprime in modo figurato l’impotenza di elaborare il distacco.
Lo scorso 31 marzo sono state commemorate le vittime del coronavirus di tutto il Paese. Sono state esposte le bandiere a mezz’asta davanti a tutti i palazzi istituzionali – dal Quirinale a Palazzo Chigi, dal Senato al Consiglio superiore della magistratura – e ogni sindaco, vestito con la fascia tricolore, ha osservato un minuto di silenzio davanti al proprio Municipio, a rappresentanza di tutti i cittadini costretti, come è noto, a rimanere nelle loro abitazioni a causa delle norme restrittive.
Un punto di ritrovo virtuale per darsi reciproco sostegno e una preziosa testimonianza di quanto sta accadendo nelle strutture sanitarie nazionali è il gruppo facebook Noi Denunceremo, in cui i parenti delle vittime lombarde del Covid-19 raccontano le loro storie.
I deceduti perdono così la freddezza del segno numerico e acquistano una dimensione umana: un ordito di anni e una trama di fatti, amicizie e amori che è stata la loro vita. Il gruppo di circa 35mila persone continua a crescere di giorno in giorno, e «nasce per un bisogno di giustizia e di verità per dare pace ai nostri morti che non hanno potuto avere nemmeno una degna sepoltura. Quando tutto sarà finito, chi ha sbagliato e girato la testa dall’altra parte dovrà pagare» scrive l’amministratore Luca Fusco, figlio di una delle vittime della provincia di Bergamo, dove la Procura della Repubblica ha aperto un’indagine per epidemia colposa nei confronti di ignoti. Il gruppo sta inoltre per costituirsi in comitato nel supporto alla magistratura per il reperimento di prove e testimonianze attraverso foto, tag, registrazioni di video-chiamate rese pubbliche sulla pagina social.
Un’altra caratteristica specifica del tempo che stiamo vivendo è la perdita di una generazione e della sua memoria. «Qui, in numerosi territori, con tante vittime, viene decimata la generazione più anziana, composta da persone che costituiscono per i più giovani punto di riferimento non soltanto negli affetti ma anche nella vita quotidiana» scrive il presidente della Repubblica Mattarella in una lettera destinata al presidente tedesco Steinmer, racchiudendo in queste parole il ruolo di chi, nato tra gli anni Trenta e Quaranta dello scorso secolo, ha avuto anche nel tramandare la storia. Oltre il 70% dei decessi hanno infatti tra i 75 e gli 89 anni. «Su questo occorrerà lavorare – dice la storica Gabriella Gribaudi, promotrice dell’Archivio multimediale delle memorie che raccoglie le testimonianze del territorio campano sulla Seconda guerra mondiale, le stragi e gli eccidi di civili, i bombardamenti, i terremoti e il bradisismo –. E ci potrà servire il modello “dal basso” emerso dopo la Seconda guerra mondiale: la memoria non solo degli eroi, ma di tutte le vittime senza distinzione: donne, bambini, vecchi, gente comune.
È la formula adottata dai musei della memoria contemporanei, dallo Yad Vashem di Gerusalemme al Memorial del genocidio ruandese: i nomi scanditi uno per uno, le storie individuali sottratte al discorso massificato. È l’unico modo per far rivivere i vecchi in ciascuna comunità». Molti anziani sono morti nelle residenze sanitarie assistenziali per omesse tutele, malasanità, privatizzazione della salute, mancanza di etica e professionalità di chi non ha protetto il personale e gli ospiti delle strutture.
Tutti i giorni, dall’inizio della pandemia – come l’ha definita l’Organizzazione mondiale della sanità, precisando che “non è parola da usare con leggerezza o disattenzione – abbiamo il consueto appuntamento con i dati della Protezione Civile che forniscono l’andamento dei contagi e dei decessi. In Italia un rapporto così quotidiano con la morte si è vissuto – nella storia recente – solo durante la Seconda guerra mondiale. «Una situazione anomala della nostra società non abituata a pensare alla morte, legata al presente, alla dimensione del qui ed ora. Invece nelle società antiche era inserita in una dimensione più vitale nel senso che è parte del disegno della nostra partecipazione al pianeta. Una consapevolezza che ci distingue come esseri umani e che si presenta adesso in maniera brutale» chiosa Villa.
Pensiamo al memento mori medievale il cui fulcro furono le danze macabre, un monito per ricordare la caducità della vita, l’incertezza dell’ora della morte e l’uguaglianza degli uomini di fronte ad essa. L’iconografia del tempo ne è ricchissima. «La Morte vien’ da fuori, eppure sta nella vita» canta Vinicio Capossela.
In questa cornice, l’arrivo della Settimana Santa è stato emblematico, la passione della morte per antonomasia, il rito collettivo religioso che impregna la nostra cultura. Da Nord a Sud della penisola tutto ha taciuto durante il venerdì santo che da secoli è teatro di grandi atti collettivi. Non c’è stata la processione delle Macchine – imponenti statue di legno che rappresentano le stazioni della via Crucis, custodite all’interno delle chiese di diverse confraternite – di Vercelli. Anche qui, per il grandissimo numero di anziani morti nelle residenze di assistenza sanitaria la magistratura ha aperto, un’indagine per epidemia colposa contro ignoti. E sempre dalla città piemontese ci è giunta un’altra immagine che ha scosso l’opinione pubblica: quella di numerose salme lasciate nella cappella mortuaria di una casa di cura, diventando il simbolo di quanto sta accadendo a questa generazione, bersaglio privilegiato dell’agente patogeno.
Non c’è stato il pellegrinaggio dei Perdoni di Taranto, una processione composta da confratelli che a piedi nudi e incappucciati di bianco percorrono le vie cittadine, avanzando con un lento dondolio e facendo sosta in ogni sepolcro lungo il loro tragitto.
L’Italia è ricchissima di questi rituali suggestivi. Molti drammatizzano la morte di Cristo che si fa rito, recita, ma anche momento di memoria collettiva, aggregazione, e allo stesso tempo evocazione di grandi flagelli, epidemie, portando in sé anche una funzione taumaturgica. «Può apparire come una regressione all’arcaico, ma non bisogna neanche avere un atteggiamento neo illuministico, perché siamo di fronte al bisogno di protezione e rassicurazione – commenta dalla sua pagina social l’antropologo dell’università della Calabria Vito Teti –. Accade quando l’uomo si sente solo di fronte all’inspiegabile, alla morte, che la scienza o la politica non riescono a frenare. C’è bisogno di sacro, che non va né enfatizzato, né ridotto a superstizione o credulità, ma è con la fine del sacro, in fondo, che siamo arrivati fin qui».
Mariangela Di Marco
Pubblicato mercoledì 15 Aprile 2020
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