Nell’approssimarsi del 25 aprile e del successivo congresso nazionale dell’Anpi a Rimini, credo sia fondamentale ricordare (e ricordarci) che la Liberazione del nostro Paese non è ancora conclusa e che nuovi fronti ci chiamano a nuove resistenze.
Certo, la minaccia non è più rappresentata da un esercito invasore o da ideologie contrarie alla democrazia, ma da mali che si chiamano corruzione, alta evasione fiscale, monopoli e abusi di potere, mafie presenti da decenni o da secoli, in certi casi. Mali che hanno svuotato la democrazia da dentro e corrotto il senso della libertà, che non è un possesso individuale, ma il più importante dei beni comuni, un bene che diventa tale solo se moltiplicato e condiviso. Non è libero infatti chi è povero, non è libero chi è senza lavoro e senza casa. Non è libero chi è costretto a vivere schiacciato dai suoi stessi bisogni.
Questa nuova resistenza comporta dunque molto più che iniziative di opposizione politica e la richiesta di misure capaci di contrastare gli abusi di potere. Ben vengano, ovviamente, per quanto l’attuale scenario (non solo nazionale) non lasci spazio a grandi aspettative (pensiamo solo all’inaccettabile esitare dell’Unione Europea di fronte alla tragedia dei profughi e degli immigrati). Una nuova resistenza comporta un cambiamento che nasca dal basso e prima ancora “da dentro”, dalla vita e dalla coscienza di ciascuno di noi. Comporta il ricostruire, con scelte e condotte coerenti, una cultura della corresponsabilità e della condivisione. Comporta il dovere della verità nei verso i giovani, ai quali non si può più chiedere di avere fiducia nel futuro se il presente è fatto di scelte che, salvo eccezioni – e qui l’Anpi dà un buon esempio affidando alle nuove generazioni la responsabilità dell’impegno e della testimonianza – li penalizzano o persino li escludono.
Comporta, come ci chiede papa Francesco nell’enciclica Laudato sì, una conversione ecologica, la consapevolezza di essere legati alla terra in un rapporto organico e che dunque lo sfruttarla, avvelenarla, piegarla a mire di profitto significa mettere a repentaglio la nostra stessa vita. Ciò che fa l’economia del cosiddetto libero mercato, causa di disuguaglianze e povertà crescenti e dunque di conflitti e migrazioni forzate, perché non può essere pacifico un mondo ingiusto, dove milioni di persone sono private dei diritti fondamentali e la distribuzione delle risorse non viene decisa in base agli interessi della comunità ma delle multinazionali.
È su questi fronti che deve muovere una resistenza, sulla base di un impegno capace di globalizzarsi, di cogliere le connessioni e i molteplici volti dell’ingiustizia, ma anche di vigilare su quello che accade sotto i nostri occhi, magari in forme apparentemente innocue, nell’indifferenza o nella sottovalutazione dei più.
Mi riferisco in particolare ai temi delle modifiche costituzionali e del nuovo sistema elettorale, per i quali saremo chiamati a votare nel referendum che si terrà con ogni probabilità in ottobre. Beninteso, siamo concordi sull’urgenza di un rinnovamento del sistema politico, di una riduzione dei costi, di un alleggerimento di una serie di procedure e del superamento di alcuni anacronismi. Ma le modifiche proposte non vanno solo in quella direzione. Mirano anche a cambiare gli equilibri stabiliti dalla Costituzione proprio per scongiurare gli abusi di potere e il ritorno, magari sotto mentite spoglie, di forme di autoritarismo. Il tutto giustificato dall’urgenza di “governabilità”, in sostanza del poter decidere senza o con meno ostacoli possibili, chiedendo ai cittadini di fare pieno (e cieco) affidamento sulle capacità del leader e del suo governo di agire nel loro interesse. Cosa che – al di là di alcuni recenti episodi sotto l’esame della magistratura – confligge con lo spirito della Costituzione e l’idea di cittadinanza che esprime.
Chi ha scritto la Costituzione – e chi si è sacrificato per farla nascere – ce l’ha consegnata non come un bene di cui vivere di rendita, ma come «un patto di amicizia e fraternità» di cui essere insieme «custodi severi e disciplinati realizzatori» per usare le parole di Umberto Terracini.
Ci ha insegnato, cioè, il significato dell’essere cittadini: assumersi la responsabilità del bene comune, rifiutare le scorciatoie e i compromessi, amare, più della verità, la ricerca di verità.
Sono certo che l’Anpi – che della nostra Carta è il più autorevole custode – non farà mancare la sua voce e il suo impegno in questa sfida cruciale per la democrazia.
Don Luigi Ciotti, associazione Libera
Pubblicato venerdì 22 Aprile 2016
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