La legge sulle unioni civili è un provvedimento che s’inserisce pienamente nell’attuazione degli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione: riconoscere infatti pari diritti e dignità a tutti i cittadini, combattendo inaccettabili discriminazioni, è un obiettivo fondamentale per la democrazia. Bisogna riconoscere che, da diversi anni ormai, nel nostro Paese si sono affermati nuovi modelli familiari, che non possono più essere ignorati e attendono da tempo una doverosa assunzione di responsabilità da parte dello Stato per il loro riconoscimento e le loro tutele. Come in più occasioni è stato affermato dalla giurisprudenza – penso in particolare alle sentenze n. 138 del 2010 della Corte Costituzionale e n. 601 del 2013 della Corte di Cassazione – le coppie dello stesso sesso hanno diritto di poter realizzare al meglio il proprio progetto di vita, contribuendo così allo sviluppo di una società più giusta e solidale.
Analoghi richiami ci sono giunti in più occasioni dall’Europa, in particolare con l’ultima condanna all’Italia, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, per non aver ancora previsto un riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali. I giudici italiani ed europei continuano a supplire l’inerzia del legislatore, trovandosi quasi quotidianamente a dover decidere sulla vita di tante coppie e famiglie che, proprio in assenza di una legge, sono considerate “fantasmi” dallo Stato, costrette a ricorrere alla magistratura per vedersi riconosciuti frammenti di diritti che possano permettere loro una quotidianità più stabile.
Quando si parla di unioni civili, del resto, ne va, oltre che del benessere di molte coppie lesbiche e gay, soprattutto del sereno sviluppo di tanti bambini cresciuti da queste coppie; bambini che attualmente sono discriminati rispetto agli altri, non essendo riconosciuta l’unione dei loro genitori. Si tratta di figli esposti a una continua precarietà affettiva: in caso di separazione o di morte del genitore biologico, infatti, il secondo genitore non avrebbe più potestà, responsabilità e obblighi sul figlio del compagno o della compagna e il bambino si ritroverebbe crudelmente privato di chi fino al giorno prima ha contribuito a crescerlo con amore, educandolo e provvedendo ai suoi bisogni essenziali. Il nuovo testo unificato che sarà presto discusso e votato in Aula al Senato, fortemente voluto dal partito democratico, prevede al riguardo la “stepchild adoption”, un istituto giuridico di origine anglosassone già presente nel nostro ordinamento – all’interno della legge sulle adozioni – ma al momento riservato alle sole coppie eterosessuali sposate, che permette a uno dei due partner di adottare il figlio biologico o adottivo dell’altro. La stepchild è uno dei punti più dibattuti del ddl, e ahimè oggetto di molta disinformazione: va detto, infatti, che non si sta parlando di adozione tout court, ma di regolamentare il rapporto tra il genitore cosiddetto “sociale” e i figli naturali del partner che vivono già all’interno della coppia formata da persone dello stesso sesso.
Alcuni, anziché riconoscere pienamente il secondo genitore come prevede il ddl sin dalla sua impostazione iniziale, preferirebbero optare per una tutela più blanda, ovvero una sorta di “affido rafforzato”; un istituto che risulta però del tutto inadeguato, poiché a tempo determinato – in teoria non potrebbe superare i 24 mesi, salvo proroga del giudice – e pensato peraltro per ovviare al disagio che i bambini vivono in alcune famiglie. Ne nascerebbe un mostro giuridico non contemplato in nessun ordinamento, che avrebbe come unica conseguenza quella di discriminare i bambini negando l’uguaglianza tra i loro genitori. Qui si tratta di riconoscere finalmente la responsabilità genitoriale di un compagno o di una compagna, guardando prima di tutto al miglior interesse del minore: concedere l’affido anziché l’adozione significa senza mezzi termini privare il bambino della qualifica di figlio legittimo rispetto al genitore non biologico; sarebbe infatti sempre un giudice a dover decidere sul futuro di quel bambino in caso della prematura scomparsa del genitore naturale, con il rischio di instaurare un iter giudiziario non scevro da difficoltà e ostacoli ed esporre il minore a traumi o, peggio, renderlo vittima di possibili contese, almeno fino al compimento della maggiore età. Perché, dunque, costringere un ragazzino, solo a causa dell’orientamento sessuale dei genitori, a continue trafile giudiziarie, quando il legislatore può dare nell’immediato una soluzione al problema senza mortificare il suo diritto a una vita familiare stabile con chi lo ama e vuole il meglio per lui? Peraltro, il diritto alla genitorialità dei figli delle coppie gay e lesbiche è garantito in tutti i Paesi dell’Europa occidentale: anche laddove non vi è il matrimonio, entrambi i genitori dello stesso sesso sono riconosciuti come tali. E l’obiettivo di questa legge è anche quello di allinearci all’Europa, dove di fatto siamo considerati il fanalino di coda in materia di diritti civili.
Certo, le unioni civili costituiscono un compromesso tra chi è favorevole all’estensione del matrimonio per le coppie gay e lesbiche e chi, pur riconoscendo l’urgenza di legiferare sul tema, opta per una tutela meno efficace e duratura. Un compromesso che costituisce però una mediazione verso l’alto, portata avanti con impegno, dedizione e molta fatica da molti gruppi parlamentari sia alla Camera che al Senato, che stanno concentrando i loro sforzi per arrivare a facilitare l’iter parlamentare di questa legge. Ricordiamo ancora la brutta esperienza dei cosiddetti DiCo, dove si partiva da un testo iniziale ben strutturato svuotandolo via via, diluendolo sempre più per accontentare tutti e alla fine per arrivare a un testo del tutto inadeguato fino a farlo, poi, affossare.
Le grandi riforme che hanno portato a costruire l’architrave civile di questo Paese si sono sempre fatte con la discussione e con il confronto allargato: la sensazione che arriva dalla maggioranza del Parlamento è di grande apertura, a testimonianza che è giunta, seppur con un ritardo inaccettabile, una consapevolezza che la strada intrapresa è quella giusta. Dobbiamo cercare di mantenere la stessa determinazione che ci ha permesso di incardinare il ddl al Senato per difendere i valori costituzionali di fronte all’ostruzionismo delle destre: impedire che l’affettività venga riconosciuta e tutelata dallo Stato, del resto, configura una grave e perpetrata violazione dei diritti umani fondamentali. Ed è nostro compito garantire che questa violazione abbia fine, per vedere finalmente estesi eguali diritti a tanti uomini, donne e bambini che attendono un segnale chiaro dalla politica e far sì che le loro vite, oggi spezzate da pregiudizi, disparità di trattamento e discriminazioni, tornino a essere valorizzate dal nostro Paese come una risorsa fondamentale per il progresso sociale.
Alessandro Zan, deputato Pd
Pubblicato giovedì 5 Novembre 2015
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