«La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sómogyi […]. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, perché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti. Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi» [1].
Così Primo Levi, il grande testimone e interprete della Shoah, ha rievocato ne La tregua, «il libro del ritorno», la liberazione da parte dell’Armata Rossa del campo di concentramento di Auschwitz, «la residenza della morte», «la città infernale», assurta poi a luogo simbolo del genocidio perpetrato dal nazismo a scapito degli ebrei durante il secondo conflitto mondiale.
In quella «fabbrica di disumanizzazione e di morte», in cui si realizzò una «lucida combinazione di ingegno tecnologico, di fanatismo e di crudeltà» (Primo Levi), perirono 1.100.000 persone, tra donne, uomini, bambini e anziani deportati da ogni angolo d’Europa e scaraventati in un cosmo stravolto, in un’incomprensibile, frastornante torre di babele linguistica. Epicentro dell’universo concentrazionario nazista, che arrivò nel suo momento di massima dilatazione a contare alcune migliaia di campi e sottocampi, Auschwitz è stata l’espressione di un sistema politico totalitario che si prefiggeva la «rigenerazione» della Volksgemeinschaft (la «comunità di stirpe») attraverso la «purificazione» all’interno e all’esterno, attraverso la liquidazione di tutti i «portatori di sangue straniero», degli «infetti», dei “diversi”.
Con la crescita delle sue dimensioni, soprattutto all’indomani della conferenza del Wannsee, quando il 20 gennaio 1942 fu approntata «la soluzione finale della questione ebraica», Auschwitz ha scandito – insieme con i centri di morte di Chelmno, Belzec, Sobibor, Treblinka e Majdanek – il passaggio dalla «Shoah a caldo» alla «Shoah a freddo», dai «massacri itineranti» nella Polonia occupata e nei territori occidentali dell’Urss alla gasazione nelle «fabbriche della morte». I campi di sterminio ebbero il loro precedente, più che in Dachau o Ravensbrüch, in Brandenburg, Hartheim, Hadamar, Grafeneck, Sonnenstein, cioè nei vari ospedali psichiatrici dove venivano soppressi i minorati mentali. A ragione Raoul Hilberg, uno dei maggiori storici della Shoah, ha affermato che l’Aktion T4, «l’operazione eutanasia» varata nel 1939 per eliminare tedeschi disabili, pazienti incurabili o affetti da tare ereditarie [2], è stata la «prefigurazione concettuale e nello stesso tempo tecnica e amministrativa della “soluzione finale”» [3]. Fu in quell’occasione che si formarono non pochi degli specialisti del crimine che si sarebbero poi distinti come spietati protagonisti dell’attuazione della politica biologica del nazismo, volta a sradicare la malapianta della diversità in Europa.
Lo sterminio di «sotto-uomini» e “diversi” ebbe inizio con l’omicidio “terapeutico” di un bambino disabile tedesco, che agli occhi dei nazisti rappresentava una «vita indegna di essere vissuta», una «bocca inutile», da annientare al fine di tutelare la propria «comunità etnico-popolare», fondata su vincoli di sangue. Il suo assassinio, come quello di decine di migliaia di minorati fisici e mentali e del milione e mezzo di bambini ebrei, è stato lo sbocco nefasto dell’ostilità pseudoscientifica nutrita per oltre cinquant’anni, dalla fine dell’Ottocento, nei confronti dei “diversi”. Questo fu il raccapricciante destino a cui tanti esseri inermi vennero condannati; una sorte, la loro, che rinvia, da un lato, al tema dell’«innocenza della colpa», dall’altro agli effetti esiziali del veleno inoculato da una «fede feroce» (E. Montale).
Per perseguire l’obiettivo senza precedenti dell’annientamento di interi gruppi umani, il regime nazista mise in piedi un ramificato apparato tecnico-burocratico. La gestione dello sterminio come compito ‘normale’ passò per l’efficienza e l’indifferenza morale dei «burocrati della morte» ed ebbe nei Lager, specialmente in Auschwitz, i luoghi della sua massima e agghiacciante estrinsecazione. Istituzione centrale e incarnazione delle aberranti finalità del nazismo, il Lager è stato lo spazio biopolitico dove veniva operata la totale reificazione dell’altro, il misconoscimento e la degradazione della sua dignità, funzionali al suo annichilimento: «il potere non [aveva] di fronte a sé che la pura vita senz’alcuna mediazione» [4].
Nei Lager, fossero essi campi di concentramento e/o di sterminio, una smisurata oppressione riduceva il deportato a un fascio di reazioni animali, senza più tracce di libertà. Il diverso, l’oppositore, il nemico, era bollato volta per volta come «cosa», «strumento animato», «bestia», «sotto-uomo», «insetto», «bacillo», «virus». Il disconoscimento dell’umanità dell’altro, la convinzione della sua nocività e superfluità è stata la terribile premessa per lo scatenarsi di una violenza parossistica. La nullificazione psicologica e fisica fu l’inesorabile risultato di un processo di debilitazione e di alienazione imposto da carnefici che altro non vedevano dinanzi a sé se non che degli Häftlinge [5], degli Untermenschen da schiavizzare, brutalizzare e uccidere. La spersonalizzazione delle vittime, la conseguenza più scellerata della propaganda e dell’ideologia nazista, è una delle chiavi esplicative più importanti per cercare di comprendere come sia stata possibile nel cuore della ‘civilissima’ Europa la tragedia collettiva della Shoah. Scriverà, non appena tornato a Torino, in Se questo è un uomo Primo Levi: «Häftling: ho imparato che io sono uno Häftling. Il mio nome è 174.517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro» [6].
È opportuno sottolineare ora come i campi di concentramento siano stati istituiti per la prima volta a Cuba sul finire dell’Ottocento, creati dagli spagnoli per sedare la rivolta degli isolani: da 90.000 a 200.000 persone vi morirono, prevalentemente donne, vecchi e bambini. Saranno gli inglesi nel 1901, in piena guerra anglo-boera, ad applicare su scala più vasta l’esperimento spagnolo [7]. I campi di concentramento non sono, come generalmente si crede, un’invenzione dei nazisti, quelli di sterminio sì, peraltro anch’essi frutto della fusione di due strutture già esistenti nel Terzo Reich: i Lager e le installazioni mortifere dell’Aktion T4.
Com’è ormai noto, dalle esecuzioni sistematiche delle Einsatzgruppen SS [8], con il coinvolgimento della Wehrmacht e dei battaglioni di polizia, si giunse all’utilizzo dello Zyklon B nelle camere a gas, allo sterminio messo freddamente a punto. Secondo Raul Hilberg – lo studioso che ha magistralmente ricostruito il come, i meccanismi del processo di distruzione dell’ebraismo europeo – «mai, in tutta la storia dell’umanità, si era ucciso a catena» [9]. La gasazione in «fabbriche della morte» costituisce, dunque, il tratto distintivo del genocidio attuato dal regime nazista: è il lato oscuro della modernità, è la «barbarie moderna» [10].
A ben vedere, quello messo in atto dal nazismo e dai suoi alleati e complici è stato uno sterminio caratterizzato dalla pluralità delle vittime, dei carnefici e dei metodi di eliminazione [11]. L’assassinio di massa degli ebrei e di quanti erano ritenuti una minaccia per l’integrità razziale e politica del Terzo Reich ha richiesto l’adozione di svariate tecniche di soppressione di massa sino ad arrivare alla costruzione di una complessa macchina organizzativa basata su modalità seriali di messa a morte di un numero gigantesco di esseri umani. In nome di un imperativo biologico-razziale o ideologico-politico furono liquidati, a partire dai disabili tedeschi (70.000 le vittime), non solo 6 milioni di ebrei, ma anche 200.000 (forse 500.000) sinti e rom, centinaia di migliaia di oppositori politici (in primo luogo i comunisti), 2.500 Testimoni di Geova, 10.000 omosessuali, milioni di “sotto-uomini” slavi e 3.300.000 prigionieri di guerra sovietici. Senza stilare una macabra graduatoria delle sofferenze, va rilevato come disabili, ebrei, sinti e rom siano stati braccati e perseguitati solo per la colpa di esistere. Per loro, e solo per loro, non c’era posto alcuno nell’utopia negativa del nazismo, fiancheggiato nel suo terrificante compito criminoso da fascisti italiani, dagli ustaša croati, dalle Croci Frecciate ungheresi, nonché dai collaborazionisti polacchi, francesi, lituani, ucraini e romeni.
Sterminio di immani proporzioni, quello perpetrato dal nazismo ai danni degli ebrei, e non solo, si configura come un unicum, che ha segnato una gravissima battuta d’arresto del processo di civilizzazione, che ha messo a nudo – in modo inquietante – le potenzialità distruttive della modernità tecnico-industriale. La sua tragica peculiarità è riconducibile, oltre alla vastità del programma omicida (uno sterminio su scala continentale), all’impiego di tutte le risorse proprie di uno Stato, quello tedesco, che si trovava già in una fase avanzata dello sviluppo capitalistico. Sono questi i fattori che connotano uno sterminio considerato unico, perché mai prima di allora uno Stato moderno aveva preso la decisione di annientare un intero popolo. Uno sterminio, paradigma della «barbarie civilizzata», perché rivolto “contro la diversità umana” e che occupa una sinistra centralità nella novecentesca «età degli estremi» (E. J. Hobsbawm).
Non va dimenticato – è bene aggiungerlo – che la Shoah tra Otto e Novecento è stata preceduta dai massacri coloniali, in particolare nel Congo belga, nonché dalla deliberata soppressione degli herero (la popolazione dell’Africa sud-occidentale che nel 1904 si ribellò alla Germania guglielmina); dalla catastrofe armena (tra un milione e un milione e mezzo le vittime); dalla feroce riconquista della Libia e dalla guerra d’aggressione in Etiopia portate a termine brutalmente dal fascismo italiano; dai crimini dello stalinismo (su tutti la creazione dell’esiziale «Arcipelago Gulag» e lo Holodomor in Ucraina); dallo «stupro di Nanchino», l’orgia di sangue e terrore scatenata nel dicembre 1937 dalle truppe del Giappone imperiale su donne e uomini della capitale cinese di quell’epoca. Dopo il secondo conflitto mondiale, per proseguire in questo agghiacciante elenco, ci sono state le violenze e atrocità commesse dai massacratori francesi in Algeria, dai militari americani in Vietnam, dai generali golpisti in Cile e in Argentina; senza dimenticare lo sterminio, pressoché sconosciuto, di circa un milione di comunisti in Indonesia, il genocidio dei kmer rossi in Cambogia, il «genocidio del machete» in Ruanda nel 1994.
Tuttavia, richiamare, sia pur sommariamente, esperienze storiche accomunate dal dispiegarsi della violenza politica di massa, non vuol dire relativizzare la portata e l’entità di un fenomeno storico, la Shoah, che rimane finora un unicum, in quanto drammatico compendio di tutte le tipologie della violenza novecentesca, «una sintesi unica di diversi elementi che si ritrovano in altri crimini e genocidi» [12]. Se non agevole risulta muoversi sul terreno accidentato della comparazione, in ogni caso è necessario affidarsi agli strumenti della storia, nonché a quelli di altri saperi, per cercare di spiegare ciò che a tanti appare ancora come «un no man’s land della comprensione»: il «buco nero» della Shoah. Lo studio e la messa a fuoco della nuova barbarie del ventesimo secolo passa per il superamento di questi ostacoli epistemologici e in ciò la ricostruzione e l’analisi del contesto storico svolge un ruolo certamente rilevante. È, perciò, indispensabile adoperare con grande consapevolezza cognitiva ed etica la categoria di genocidio – termine nuovo, coniato nel 1944 dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin – adottata dall’Onu nel dicembre 1948, il cui testo tende ad assimilare genocidio, etnocidio, epurazione etnica, accomunando l’annientamento di un gruppo umano, la cancellazione della sua identità culturale e la sua deportazione.
Ora che «l’era del testimone» (Annette Wieviorka) è agli sgoccioli per il venire meno degli ultimi sopravvissuti alla Shoah, occorre dispiegare un notevole sforzo – come meritoriamente tante scuole, associazioni e centri di ricerca stanno facendo dall’istituzione del Giorno della memoria in Italia – per far sì che quella pagina cruciale di un comune passato doloroso, che ancora continua a interrogarci, sia conosciuta sempre più nella sua complessità e nelle sue implicazioni. È vero, per usare le parole di una preoccupatissima Liliana Segre, che si corre il «rischio concretissimo» che essa cada nell’oblio. È altresì vero, per dirlo con Gad Lerner, che oggi «il Giorno della Memoria esercita una funzione scomoda», evocando inevitabilmente il confronto fra lo «sterminio pianificato nei Lager» e la durissima «punizione collettiva» israeliana nei confronti dei palestinesi, costellata da immani devastazioni e decine di migliaia di vittime tra i civili inermi, dopo lo spaventoso massacro del 7 ottobre 2023 caratterizzato da uccisioni e stupri.
Si sta assistendo, in quel lembo di terra del Medioriente, al riproporsi sconcertante di crimini contro l’umanità. Da questo dramma muovono le amare riflessioni di Anna Foa, ebrea della diaspora, nel suo denso libro, Il suicidio d’Israele. Riflessioni che «nascono dal dolore per l’eccidio del 7 ottobre e da quello per i morti e le distruzioni della guerra di Gaza. È lo stesso dolore per gli uni e per gli altri. E ancora, nascono dalla preoccupazione per il crescente antisemitismo che si estende nel mondo. Una soglia è stata varcata, dagli uni come dagli altri. Quando e se le armi smetteranno infine di sparare, dovremo rivedere molti dei nostri schemi interpretativi, ripensare il nostro rapporto con la nostra storia. Rileggere i percorsi di una memoria che non è bastata a mettere in salvo né i civili ebrei il 7 ottobre né i civili palestinesi nei mesi della guerra» [13].
Francesco Soverina, storico
NOTE
[1] P. Levi, La tregua, Einaudi, Torino 1963, p. 10.
[2] Sull’Aktion T4 si vedano H. Friedlander, Le origini del genocidio nazista. Dall’eutanasia alla soluzione finale, Editori Riuniti, Roma 1997, e M. Tregenza, Purificare e distruggere. I. Il programma «Eutanasia». Le prime camere a gas naziste e lo sterminio dei disabili (1939-1941), Ombre corte, Verona 2006.
[3] R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, Einaudi, Torino 1995, p. 950.
[4] G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 191. Si legga anche il fondamentale resoconto, apparso nel 1945, di D. Rousset, L’universo concentrazionario 1943-1945. La prima testimonianza della tragedia dei Lager, Baldini & Castoldi, Milano 1997.
[5] Letteralmente in tedesco prigionieri.
[6] P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1982 [1947], p. 30.
[7] A. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 a oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri, Torino 1997.
[8] Letteralmente unità operative.
[9] R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, cit., p. 941.
[10] Sui nessi tra modernità e genocidio nazista cfr. Z. Bauman, Modernità e Olocausto, il Mulino, Bologna 1992; nonché E. Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, il Mulino, Bologna 2002.
[11] F. Soverina, Pluralità e unità degli olocausti: gli ebrei e le altre vittime, in Idem (a cura di) Olocausto/Olocausti. Lo sterminio e la memoria, Odradek, Roma 2003.
[12] E. Traverso, Comparare la Shoah: questioni aperte, in M. Cattaruzza et alii (a cura di), Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, vol. III, Utet, Torino 2006, p. 179.
[13] A. Foa, Il suicidio d’Israele, Laterza, Bari-Roma 2024, p. VII.
Pubblicato lunedì 27 Gennaio 2025
Stampato il 29/01/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/il-buco-nero-della-shoah-nel-cuore-di-tenebra-del-mondo-contemporaneo/