Nel dibattito costituzionale che si aprì all’indomani della Liberazione, la riflessione sulla continuità della forma di Stato rispetto al precedente ordinamento prefascista assunse immediatamente il carattere di una questione prioritaria. Si trattava, in primo luogo, di affrontare il tema cruciale della scelta tra monarchia e repubblica, emblematico, per l’appunto, della tensione tra continuità e rinnovamento. Nella discussione pubblica, i sostenitori della corona cercarono di sfruttare a proprio vantaggio la stanchezza di una società profondamente provata dalla guerra e dall’occupazione straniera, per prospettare il mutamento della forma di Stato alla stregua di un salto nel buio, destinato a produrre instabilità politica e sociale. A favore dell’opzione repubblicana, tuttavia, militava la consapevolezza di larghi strati della popolazione circa la priorità da attribuire alla democratizzazione del rapporto tra il potere politico e la società e alla creazione di nuovi e più avanzati equilibri istituzionali, ritenendosi ormai irreversibili le conquiste realizzate nel corso della guerra di Liberazione ed improponibile un mero ritorno al passato.
Questo ultimo dato era particolarmente evidente per l’organizzazione della rappresentanza politica, elemento chiave nella transizione dalla dittatura alla democrazia: prima ancora della celebrazione del referendum istituzionale, essa risultava già profondamente ristrutturata nei suoi presupposti in forza dell’epocale mutamento politico e culturale derivante dal riconoscimento del diritto elettorale attivo e passivo alle donne, e appariva destinata, anche per effetto di questa conquista, a fondare in via esclusiva la propria legittimazione sul voto popolare, liquidando definitivamente i sistemi di investitura verticistica, inequivocabilmente identificati con il regime fascista e, ancor prima, con la nomina regia dei senatori.
A queste scelte fondamentali, dibattute tra i partiti e nella società, si affiancava, come spesso accade in momenti di transizione politica, l’esigenza di valutare e vagliare differenti modelli istituzionali, anche in sede di comparazione con l’esperienza costituzionale di altri Paesi, di selezionare ed esaminare le opzioni possibili in materia di assetto dei poteri pubblici, e di raggiungere, su tali questioni, un adeguato livello di approfondimento, rispetto al quale si rendeva necessario, tra l’altro, disporre di sedi più “tecniche” o “neutre”, in grado di concorrere alla messa a punto dei problemi ed alla loro definizione in termini di maggiore dettaglio, e di suggerire percorsi di riflessione lungo i quali si potesse chiarire meglio l’entità delle questioni sollevate e la fisionomia delle soluzioni suggerite.
Tra le più importanti sedi del confronto tecnico-politico di quegli anni, vanno senz’altro annoverate le Commissioni di studio istituite presso il Ministero della Costituente, creato nel luglio 1945 e posto sotto la guida di Pietro Nenni, vicepresidente del Consiglio nel governo Parri e nel successivo gabinetto presieduto da Alcide De Gasperi.
Il 21 novembre 1945 fu insediata presso il Ministero per la Costituente la Commissione per studi attinenti la riorganizzazione dello Stato, sotto la presidenza del costituzionalista Ugo Forti: la Commissione era incaricata di studiare i diversi aspetti del nuovo ordinamento democratico, ma non di redigere uno schema di testo costituzionale. Replicando ai quesiti rivoltigli in tal senso, Nenni aveva in più di una occasione sottolineato come questa materia dovesse essere considerata in via esclusiva di pertinenza dell’Assemblea Costituente, non soltanto al fine di tenere la discussione tecnica al riparo da implicazioni politiche troppo immediate, ma anche nel presupposto che il Governo dovesse astenersi da interventi diretti nella redazione del testo costituzionale.
L’organizzazione del Parlamento (tema affidato al repubblicano Giovanni Battista Boeri e a Giambattista Rizzo, giurista di formazione liberale, in qualità di relatori) fu oggetto di studio della prima delle quattro sottocommissioni in cui si suddivise la Commissione Forti, avente ad oggetto i problemi costituzionali (le altre tre Sottocommissioni erano competenti rispettivamente per i problemi dell’organizzazione dello Stato; delle autonomie locali e degli enti pubblici non territoriali). Fu esaminata in via preliminare l’alternativa tra un parlamento monocamerale e un parlamento ripartito in due rami, e si pervenne, a maggioranza, a una conclusione favorevole all’istituzione di un sistema bicamerale, motivando tale scelta con l’opportunità di evitare la concentrazione del potere legislativo in una sola Camera, nonché di attribuire ad un altro ramo del parlamento una funzione di controllo e di ripensamento, anche al fine di migliorare la qualità della legislazione. La minoranza favorevole ad un sistema monocamerale motivò la sua scelta sia con argomenti di carattere tecnico, circa l’appesantimento procedurale che la doppia lettura dei disegni di legge avrebbe potuto comportare, sia con ragioni più politiche, legate soprattutto alla considerazione che la funzione di indirizzo sarebbe stata esercitata più incisivamente da una sola Camera legislativa.
I sostenitori del bicameralismo erano peraltro convinti che la seconda Camera non dovesse essere un semplice doppione della prima: essa avrebbe dovuto distinguersi per funzioni e per composizione, e secondo alcuni anche per la diversa durata del mandato. Circa le modalità della composizione, scartata l’ipotesi di una Camera non elettiva (che avrebbe evocato il Senato di nomina regia), la Sottocommissione si orientò per un’elezione a base regionale “temperata”, intendendosi con tale termine una rappresentanza non uguale per tutte le regioni (quale invece era riscontrata, in prevalenza, nei senati degli Stati federali) ma neanche direttamente proporzionale alla popolazione, per escludere la preponderanza delle aree più popolose (e in particolare dell’Italia settentrionale su quella meridionale), bensì organizzata in base a un numero minimo e massimo di rappresentanti per ciascuna regione. Fu anche presa in considerazione l’ipotesi di fondare una seconda Camera “sulle categorie, sugli ordini, sugli enti collettivi” (così la Relazione della Commissione Forti all’Assemblea Costituente) con funzioni di “rappresentanza organica di interessi culturali ed economici”, che avrebbero trovato espressione “più particolare e diretta, pur venendosi in essi a riflettere quegli interessi politici generali che servirebbero a escludere la natura di assemblea meramente tecnica della seconda Camera”. Questa soluzione incontrò varie obiezioni, e fu sostanzialmente accantonata in considerazione della difficoltà di individuare un criterio di ripartizione dei seggi tra numerose categorie, il cui ordinamento futuro appariva peraltro incerto, a partire dall’organizzazione sindacale, e per il timore di dare vita ad un organismo eccessivamente pletorico e poco funzionale; ad obiezioni non diverse, peraltro, si prestava l’altra opzione di dare vita ad una Camera a formazione mista, rappresentativa dei corpi locali e degli interessi culturali ed economici, anch’essa presa in esame e sostanzialmente accantonata dalla Sottocommisione.
Quest’ultima si soffermò anche sulle modalità di formazione della seconda Camera, prendendo in esame in primo luogo la possibilità di un’elezione indiretta, da parte dei rappresentanti degli enti locali, secondo il modello adottato anche in altri Paesi europei. Ma anche su questo punto alcune obiezioni apparvero insuperabili, in particolare per la preoccupazione che “una Camera, uscita da elezioni di secondo grado, e quindi con minore prestigio, sarebbe ulteriormente esautorata, qualora il rinnovamento parziale o totale, attraverso le elezioni amministrative, dei componenti dei Consigli elettivi degli enti locali, portasse a una radicale variazione del corpo elettorale che ha scelto la seconda Camera”.
Non venne tralasciata infine la possibilità, ferma restando l’elezione diretta per la seconda Camera, di limitare l’elettorato passivo a determinate categorie di “persone aventi determinati requisiti, che siano cioè specificamente qualificate, nel campo economico, politico culturale”. Ma anche in questo caso, venne in luce la difficoltà di individuare le categorie degli eleggibili e di assicurare l’equilibrio della rappresentanza; tuttavia la Sottocommissione non volle scartare del tutto questo criterio e giunse a una conclusione interlocutoria, nei termini seguenti:
“La Sottocommissione, nella sua maggioranza, si è dichiarata favorevole a considerare i due tipi di seconda Camera che traggono la loro forza politica, l’uno dalla rappresentanza delle autonomie locali, l’altro dalla elezione e suffragio universale entro determinate categorie di eleggibili, con una particolare considerazione per un’Assemblea fondata su una rappresentanza regionale temperata”.
Poche, e generiche, furono infine le proposte riguardanti la posizione giuridica della seconda Camera. La maggioranza della Sottocommissione si espresse a favore di un rapporto paritario tra i due rami del Parlamento, sia nel processo legislativo, sia nell’esercizio della funzione di indirizzo politico e quindi nell’espressione del voto di fiducia al Governo, qualora la scelta dell’Assemblea Costituente fosse caduta sulla forma di governo parlamentare.
Il dibattito in seno alla Commissione Forti ebbe il merito di porre sul tappeto le principali questioni attorno alle quali ruotava all’epoca la problematica del bicameralismo; al tempo stesso, la varietà delle soluzioni prese in considerazione e l’incertezza e la genericità delle conclusioni dimostravano come dalla soluzione di quel problema dipendesse la definizione di una parte importante dell’ordinamento del nuovo Stato democratico e, al tempo stesso, come esso non potesse trovare soluzione definitiva se non nella sede politica offerta dall’Assemblea Costituente. Dietro il carattere formale e tecnico delle conclusioni della Commissione Forti si poteva leggere, in trasparenza, il punto politico di differenziazione tra le principali forze politiche sul tema del bicameralismo. La preoccupazione di “integrare” la rappresentanza politica attraverso un meccanismo elettorale della seconda Camera che la conducesse ad essere espressione degli interessi economici e culturali, oltre che territoriali, rispecchiava l’orientamento di una parte del partito cattolico, legato ad un’idea di pluralismo corporativo che, dopo l’esperienza del regime fascista, prestava il fianco alla critica di non volere segnare una netta discontinuità con il recente passato; su un altro versante, l’intento di dare espressione alle autonomie locali nella seconda Camera trovava un limite nelle riserve espresse dai partiti di sinistra sull’ipotesi di creazione di uno stato regionale, soprattutto relativamente alla possibilità che la frammentazione della funzione di governo finisse con l’attenuare, se non eludere, l’attuazione di un indirizzo politico radicalmente riformatore proveniente dal governo centrale e dalla maggioranza parlamentare ad esso collegato, favorendo invece le spinte localiste e le tendenze più conservatrici.
Con una certa approssimazione, si possono pertanto schematizzare le posizioni dei principali partiti politici nel modo che segue: un maggior favore da parte cattolica e moderata nei confronti di un sistema bicamerale, in quanto elemento di riequilibrio, di controllo e di limitazione del potere altrimenti concentrato in una sola camera legislativa; accentuazione, da parte delle sinistre, della necessità di garantire l’incisività dell’indirizzo politico, e quindi maggiore favore nei confronti di una soluzione monocamerale nell’ambito di un sistema di governo parlamentare, nel quale il rapporto tra potere esecutivo e legislativo fosse regolato sulla base dell’istituto fiduciario.
Misurandosi su questi temi, il dibattito all’Assemblea Costituente avrebbe messo in luce i principali nodi politici e la complessità di un tema, come quello del bicameralismo, che poco si prestava a soluzioni basate esclusivamente sull’ingegneria costituzionale.
Pubblicato venerdì 17 Giugno 2016
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