“Segui i soldi e troverai la mafia”: la lezione di Giovanni Falcone i sindacalisti della Flai-Cgil la considerano un lascito importante. Quelle parole del magistrato ucciso a Capaci rappresentano uno strumento di analisi validissimo per leggere le mafie e le loro mutevoli strategie nel settore agroalimentare. Dove forme antiche di sfruttamento – il caporalato – incontrano la modernità del liberismo selvaggio e le scatole cinesi delle società impiantate nei paradisi fiscali. C’è questo e tanto altro ancora nel terzo rapporto “Agromafie e caporalato” realizzato dall’Osservatorio Placido Rizzotto-Flai-Cgil che ricostruisce un quadro approfondito sulla condizione dei lavoratori in agricoltura, delle variegate forme di illegalità e infiltrazione mafiosa nella filiera agroalimentare.
I numeri della criminalità economica nel settore primario sono il segno di una penetrazione forte della mafia nei campi e in tutto ciò che si muove intorno all’agricoltura. Basti pensare che gli epicentri nei quali sono stati riscontrati fenomeni di grave sfruttamento sono ben 80; che sono 100mila i lavoratori in Italia in condizioni di sfruttamento e grave vulnerabilità. L’economia sommersa e informale in agricoltura muove tra i 2 e i 5 miliardi di euro, dato, quest’ultimo, – avverte il rapporto – da confrontare con i dati forniti dalla Direzione Nazionale Antimafia, che quantifica in 12,5 miliardi di euro il fatturato delle agromafie.
Schiacciati da questa montagna di soldi ci sono uomini, spesso senza volto, braccianti che hanno pagato con la vita gli sforzi di ritmi di lavoro barbari e schiavili. Uomini e donne cui il rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto dà finalmente voce raccontando le loro storie.
Le ispezioni effettuate nel 2015 hanno registrato 6.153 lavoratori irregolari e 713 episodi di caporalato. Un caporalato che va oltre gli stereotipi del passato; essi ce lo presentano come “semplice” intermediario che si limita a organizzare le squadre di lavoratori e a gestire il loro trasporto su pulmini scassati che attraversano le campagne. Scopriamo invece che dietro la parola caporale ci sono diversi soggetti dello sfruttamento: il caporale aguzzino che utilizza violenza sistematica; il caporale venditore, che organizza le squadre e impone la vendita di beni di prima necessità; il caporale “amministratore delegato”, che gestisce per conto dell’imprenditore l’intera campagna di raccolta con l’obiettivo di massimizzare i profitti attraverso pratiche illecite; il caporale mafioso, colluso con la criminalità organizzata, il cui campo di azione va ben oltre le campagne e investe la tratta di esseri umani, la truffa per documenti falsi e all’Inps, estorsioni, riciclaggio o, ancora, il caporale collettivo (o nuovo caporalato) che utilizza forme apparentemente legali (cooperative senza terra e agenzie interinali) per mascherare l’intermediazione illecita di manodopera. Una piramide gerarchica con i suoi guadagni sporchi: si va dai 95mila euro che incassa il capo negoziatore, ai 10mila ai suoi vicecapo di nazionalità italiana per finire ai 2mila euro per il caporale autista.
Lo sfruttamento in agricoltura viaggia di pari passo con il fenomeno della tratta degli esseri umani. Ad essere vittime del caporalato sono indistintamente italiani e stranieri, circa 430.000 unità, circa 30/50.000 in più rispetto a quanto stimato nel rapporto precedente, con più di 100.000 lavoratori in condizione di grave sfruttamento e vulnerabilità alloggiativa. Seppur il caporalato vive una trasformazione in linea con la metamorfosi del mercato del lavoro sempre più flessibile e precario, le pratiche di sfruttamento dei caporali nei confronti dei lavorati rimangono più o meno le stesse: mancata applicazione dei contratti, un salario tra i 22 e i 30 euro al giorno, inferiore del 50% di quanto previsto dai Contratti collettivi, orari tra le 8 e le 12 ore di lavoro, lavoro a cottimo (esplicitamente escluso dalle norme di settore), fino ad alcune pratiche criminali quali la violenza, il ricatto, la sottrazione dei documenti, l’imposizione di un alloggio e forniture di beni di prima necessità, oltre all’imposizione del trasporto effettuato dai caporali stessi.
Quello che emerge è, insomma, un quadro di forte vulnerabilità dei lavoratori dei campi che andrebbe contrastato con maggiore incisività.
Alcuni passi in avanti sono stati fatti. Il Governo ha recentemente redatto un disegno di legge (Ddl 2217) per disciplinare le forme di contrasto anticaporalato e inasprire le pene dei reati che vengono commessi nel reclutamento di manodopera straniera da occupare nel settore agricolo. Pur tuttavia, a fianco di misure innovative – come la possibilità di sequestrare beni e strumenti di produzione in caso di impiego di manodopera straniera da sottoporre a pratiche di sfruttamento – non si è voluto introdurre il principio della piena corresponsabilità penale tra il caporale e l’imprenditore che lo ingaggia per reclutare manodopera da occupare nella sua impresa. Infatti, tra l’imprenditore e il caporale vige un rapporto stretto, poiché il secondo senza il primo non svolgerebbe nessun reclutamento di manodopera. Il ddl poi è ancora in fase di discussione nei due rami del parlamento. «Tali ritardi – spiega Ivana Galli, segretario generale della Flai-Cgil – ci allarmano non poco, infatti si corre il rischio di cominciare la nuova stagione di raccolta con le stesse “regole” del 2015 e che, nonostante le denunce e l’azione della Flai, anche questa campagna possa essere caratterizzata da sfruttamento ed illegalità che si consumano sulla pelle di lavoratori e lavoratrici».
Lavoratrici e lavoratori che vivono nella paura, timorosi di avvicinarsi al sindacato per reclamare i loro diritti e la loro dignità. La soluzione trovata dalla Flai è stata tanto semplice quanto geniale: andare a cercare i lavoratori là dove vivono e lavorano. Nato nelle campagne pugliesi negli ultimi sette anni quello che è stato poi chiamato “Sindacato di strada”, è una esperienza innovativa che ha permesso, spiega il rapporto, di raggiungere gruppi di lavoratori agricoli occupati in aree decentrate, in porzioni di campo dislocati lontano dai centri abitati, in situazioni territoriali che producono isolamento e dunque incapacità a difendersi dai caporali o dagli imprenditori disonesti. L’approccio e le modalità di avvicinamento sono pro-attive, ovvero ricercare lo scambio comunicazionale con i lavoratori stranieri quando lo scambio stesso non avviene o avviene con palesi difficoltà (localizzazione dei lavoratori, isolamento dei luoghi di lavoro, non conoscenza della funzione sindacale).
Altro capitolo interessante è quello della contraffazione, fenomeno che si sovrappone spesso a quello dell’infiltrazione mafiosa. Secondo l’Ocse dal 2000 al 2007 il commercio di prodotti contraffatti e il relativo fatturato, è aumentato del 150%. E nell’ambito di tutti i settori produttivi quello agroalimentare costituisce il 16% del totale con un business, dice il Censis, di circa un miliardo di euro. Pane, vino, macellazione e pesca sono i settori più esposti. Da nord a sud si rilevano fenomeni di sofisticazione legati all’Italian sounding, così come il nuovo intreccio tra agromafie ed energie rinnovabili. Una spia dell’interesse delle mafie rispetto al settore agricolo è testimoniata dal fatto che quasi il 50% dei beni sequestrati o confiscati alle mafie sono proprio terreni agricoli (30.526 su 68.194). E qui bisogna aprire una parentesi sul bilancio dei venti anni della legge 109/1996 sul riuso sociale dei beni. Perché se è vero che dai beni confiscati sono nate esperienze straordinarie e virtuose, è anche vero che le aziende sequestrate sono destinate nella stragrande maggioranza dei casi al fallimento: dal 1982 ad oggi sono circa 100mila i lavoratori che hanno perso il posto di lavoro a causa di una scarsa tutela durante un provvedimento di confisca e di sequestro. Una situazione che ha spinto in questi anni Cgil, Libera e Arci a presentare una proposta di legge di iniziativa popolare sul tema dell’emersione alla legalità delle aziende confiscate, proposta che prevede una serie di strumenti tesi ad evitare proprio che le aziende falliscano, con un particolare riguardo alla questione dell’accesso al credito bancario e al percorso di rilancio nei mercati in cui operano.
Attenzione, infine, a pensare che agromafie e caporalato siano fenomeni locali. Perché non solo lo sfruttamento attraversa l’Italia dal Nord al Sud, ma addirittura il modello ha attecchito ben oltre i confini nazionali. Il rapporto contiene tre studi che guardano al mondo: la Francia con il fenomeno dell’immigrazione nei contesti rurali; la Spagna con lo sfruttamento bracciantile nella raccolta delle fragole nella provincia di Huelva e la California, nelle cui piantagioni lavorano bambini clandestini, sfruttati e sotto ricatto.
Giampiero Cazzato, giornalista professionista, ha lavorato a Liberazione e alla Rinascita della Sinistra; oggi collabora col Venerdì di Repubblica
Pubblicato venerdì 17 Giugno 2016
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