“Fuori a un metro di distanza, dentro otto in una stanza” è stato lo slogan delle proteste dei detenuti italiani a fronte del sovraffollamento, definito “condizione oggettiva di trattamento degradante” dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha già condannato l’Italia nel 2013. Ed è divenuto ancora più gravoso con la crisi pandemica in corso, minacciando gli istituti penitenziari di diventare una bomba epidemiologica.
A loro, “agli ultimi tra gli ultimi di cui si parla sempre troppo poco”, e alle problematiche del sistema carcerario nazionale che il presidente dell’Anpi di Latina, Marco Polese, ha voluto dedicare il discorso per le celebrazioni ufficiali del 25 aprile, alla presenza di diverse cariche istituzionali e religiose.
“Certo, sono reclusi perché scontano una pena, a fronte di un reato commesso – aveva detto o nel suo discorso Polese –. Ma i detenuti sono sotto la custodia dello Stato e, secondo la Costituzione, la pena deve essere finalizzata alla loro rieducazione, propedeutica a un reinserimento sociale. Purtroppo la realtà è caratterizzata spesso da istituti penitenziari sovraffollati, nei quali i detenuti subiscono forti limitazioni nei loro diritti”.
Secondo il recente rapporto Oltre il virus dell’associazione Antigone, i contagi da covid nelle carceri sono stati di gran lunga superiori alla media nazionale: dall’ultimo dato, aggiornato al febbraio 2021, risulta che su 10 mila persone il virus ha infettato 91 detenuti a fronte di 68 liberi cittadini, nonostante nel corso della pandemia la percentuale del sovraffollamento sia diminuita, passando dal 120% al 105%. Una riduzione determinata dall’uscita di chi aveva un residuo pena irrisorio, da un limitato ingresso delle custodie cautelari e anche dai detenuti in stato di semilibertà che non rientreranno in carcere fino al 30 luglio, scadenza della nuova proroga dello stato di emergenza.
Il numero dei detenuti resta tuttavia ancora superiore a quello dei posti regolamentari e per rientrare nella legalità occorrerebbe “deflazionare il sistema” di 4-8mila persone. Inoltre, “se si rapporta il numero di persone detenute per regione di nascita a quello degli abitanti delle stesse regioni – si legge ancora nel rapporto – si vede chiaramente come siano aree povere quelle da cui proviene la maggior parte dei detenuti”.
«Se l’individuo ha un lavoro – aggiunge a Patria Indipendente il presidente dell’Anpi di Latina – un diritto che, stando alla Costituzione, gli deve consentire di avere un’esistenza libera e dignitosa, probabilmente non si troverà nella condizione di dover commettere dei reati per sopravvivere o, più in generale, a vivere di espedienti. Rispetto alla mancata applicazione della Costituzione – continua Polese – le retribuzioni irrisorie di alcune professioni non sembrano consentire alle persone di avere, come recita l’articolo 36, una esistenza libera e dignitosa. Questo può rappresentare un altro esempio della perdita di centralità che sta subendo la Costituzione e alla quale si dovrebbe tornare».
Gran parte delle pene detentive sono legate alla tossicodipendenza per reati come spaccio, rapina e traffico di stupefacenti, affrontate soprattutto con gli strumenti repressivi del codice penale Rocco, sopravvissuto al passaggio istituzionale dal fascismo alla Repubblica, divenuto oggetto di riforme non organiche da parte di numerose commissioni parlamentari che si sono succedute nel tempo. «Questo ha implicato che sia stata la Corte costituzionale a intervenire per una serie di adeguamenti del Codice – spiega Marco Polese –. Il rischio è che ogni volta si metta una toppa e si perda la visione di insieme, mentre l’ideale sarebbe avere un intervento completo in grado di dare una matrice unitaria. Il codice penale parte dallo Stato e arriva alla persona – prosegue il presidente – e quindi esprime una gerarchia di valori che erano del legislatore fascista, mentre la Costituzione segue un ordine inverso. Ci sono quindi delle ed è difficile continuare solo con singoli interventi perché bisogna conciliare ogni fattispecie penale nel raccordo con le altre».
Altro aspetto spinoso del sistema carcerario è quello del ruolo della formazione culturale: l’articolo 27 della Costituzione specifica che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato in virtù delle proprietà sociali e riabilitative indotte dal pensiero e dalla scrittura, ma i dati del ministero della giustizia mostrano altro. Nel nostro Paese, il diritto allo studio è infatti garantito solo in 75 istituti di pena su 190, la maggioranza dei detenuti è provvista di licenza di scuola media inferiore, quelli con licenza di scuola elementare sono più dei reclusi con diploma di scuola superiore, mentre gli analfabeti sono in numero maggiore rispetto ai laureati. A causa delle restrizioni per arginare i contagi, in alcuni istituti al momento si continua con la didattica a distanza, ma in gran parte le attività sono tutte sospese.
Di fronte a questa deriva “è necessario invertire la rotta – aveva precisato Polese nel suo discorso del 25 aprile – e ripartire dalla Costituzione, che indica la direzione da intraprendere”. E citando Piero Calamandrei, aggiunge: «la Carta non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile»: l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, perché, conclude, «la vera Resistenza oggi è rispettare la legge, a partire proprio dai principi costituzionali».
Pubblicato martedì 25 Maggio 2021
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