La storia della “ricostruzione” della classe operaia durante la Resistenza da parte degli operai stessi e da parte del partito che sempre più la stava rappresentando, il Partito comunista, si manifesta attraverso una varietà di momenti di lotta: non solo il classico sciopero, ma anche l’assenteismo, la bassa produttività e il sabotaggio nelle aziende che lavoravano per i tedeschi. In questo articolo privilegerò il momento dello sciopero aperto, quello di maggiore impatto nel contesto, assai difficile, della repressione fascista, dell’occupazione tedesca e della guerra, e mi soffermerò sul 1944, da gennaio a marzo.
Analizzerò i casi di due città industriali della Liguria, La Spezia e Genova. La composizione degli operai delle due città era abbastanza simile – metalmeccanici impegnati in buona parte nell’industria bellica – così la fisionomia dei gruppi dirigenti del Partito comunista: ma, in quei mesi, l’esito delle lotte fu diverso. La “ricostruzione” della classe operaia dopo il ventennio fascista avvenne per tentativi ed errori, e si caratterizzò in modo diverso da città a città, e anche da fabbrica a fabbrica: le variabili da considerare sono molte.
Su alcune vicende della classe operaia in Italia e in particolare in Liguria nel corso del 1943 rimando ad alcuni miei articoli recenti [1], in modo tale da poter dedicare questa riflessione soprattutto allo sciopero del marzo 1944 e sui fatti che lo precedettero, che contribuiscono in gran parte a spiegare il suo esito diverso – positivo alla Spezia, negativo a Genova.
LA SPEZIA, GENNAIO E FEBBRAIO 1944
Dopo l’8 settembre 1943 gli operai spezzini non scioperarono né a novembre né a dicembre. Ma la loro situazione peggiorava sempre più.
Il 18 dicembre 1943 i carabinieri ritrovarono, nella sala degli orologi marcatempo dell’OTO Melara, un manifesto “dove si lamenta che l’aumento del 30% non basta e che occorre togliere il mercato nero e concludeva ‘Vogliamo più pane – Vogliamo più grassi’” [2].
Il 23 dicembre, nello stesso luogo, i carabinieri ritrovarono un altro manifesto, “contenente argomenti antifascisti, antitedeschi e comunisti incitanti le maestranze a sabotare l’opera governativa e a danneggiare l’alleato”. Il manifesto, firmato Comitato di agitazione di fabbrica, denunciava il pericolo della deportazione dei lavoratori in Germania per lavorare nelle fabbriche tedesche, non faceva cenno al comunismo e concludeva: “è necessaria una illimitata unità” [3].
Si stavano creando le condizioni per il grande sciopero del gennaio 1944.
La protesta aveva all’origine una situazione sociale insopportabile: a dominare era la fame. I negozi e i mercati erano vuoti, il mercato nero regnava incontrastato. I prezzi erano saliti vertiginosamente, le paghe non riuscivano a reggere il passo. A tutto questo si aggiungevano la disoccupazione, la minaccia di essere deportati in Germania e la mancanza di case, distrutte dai bombardamenti: 20mila, secondo il Prefetto e Capo della Provincia Franz Turchi.
In un promemoria della Corporazione fascista dei lavoratori dell’industria a Turchi del 24 novembre 1943 è scritto che gli occupati alla Spezia erano 4mila, i disoccupati 6mila: ma molti lavoratori – scrivevano gli stessi fascisti – non si erano “iscritti alle liste per tema di essere precettati ed avviati in Germania o di essere richiamati alle armi” [4]. I disoccupati erano quindi molti di più. Secondo il Consiglio provinciale dell’economia, nello stesso mese di novembre, erano 8mila [5].
Il 3 dicembre fu firmato un accordo tra industriali e sindacati fascisti per un aumento salariale del 30%. Ma agli operai non bastava per sopravvivere. Il 20 dicembre il generale tedesco Paul Zimmermann, delle SS, insediato da novembre a Torino quale “incaricato della repressione degli scioperi” ordinò, per evitare altri scioperi, di “estendere i miglioramenti, sia nella paga che nel campo alimentare, già stabiliti per gli operai di Milano e di Torino” agli operai di Genova. Nel manifesto il generale accennava anche alle “zone industriali liguri” [6]. I fascisti spezzini erano preoccupatissimi. Franz Turchi scrisse il 24 dicembre al ministro dell’Interno e personalmente al duce per essere certo di introdurre i miglioramenti anche nella nostra provincia. Ma gli animi non si placarono. Già in un promemoria a Turchi del 20 novembre la Corporazione fascista dei lavoratori dell’industria era stata costretta ad ammettere: “gli operai […] non sono orientati verso il Partito Fascista Repubblicano per mancanza di fiducia” [7].
La lotta iniziò all’OTO Melara il 5 gennaio, si allargò il 7 al Cantiere Muggiano – l’altra grande fabbrica del gruppo OTO – e ad altri stabilimenti: Termomeccanica anch’essa del gruppo OTO, Jutificio Montecatini, Pertusola e piccole fabbriche. Il 10 il Prefetto si recò all’OTO Melara e al Muggiano, alternando lusinghe e minacce. Alla fine, il pomeriggio dell’11, cedette su buona parte delle richieste, e lo sciopero cessò.
Negli scioperi del novembre e dicembre 1943 nelle altre città il ruolo politico e organizzativo del PCI fu più accentuato rispetto agli scioperi del marzo e dell’agosto di quell’anno, ma le agitazioni ebbero quasi sempre un avvio spontaneo. Fu così anche nello sciopero del gennaio 1944 alla Spezia.
Sullo sciopero del 5 all’OTO Melara ecco il ricordo-riflessione di Anelito Barontini, allora il più importante dirigente del PCI spezzino:
“[…] fu una iniziativa che venne fuori improvvisamente e che determinò anche la prima polemica ed una vivace discussione in seno al nostro Comitato di Liberazione Nazionale. Si poneva la domanda: chi aveva preso tale decisione? Chi aveva o non aveva deciso? Mah! La risposta era, se volete, semplice: dal momento che era in corso lo sciopero, l’avevano presa certamente gli operai e il Comitato sindacale di fabbrica” [8].
Barontini così proseguiva:
“La OTO […] non poteva e non doveva rimanere isolata e sottoposta alla reazione dei nazifascisti. Così, dopo una rapida riunione con i responsabili dei partiti e del CLN che ebbe […] momenti un po’ vivaci, fu deciso […] di sottoporre ai Comitati sindacali delle altre fabbriche l’esigenza di una estensione dello sciopero” [9].
Un volantino del Comitato di agitazione provinciale, senza data ma del 7 gennaio, metteva l’accento sulla gravità della situazione alimentare – “Siamo a gennaio e non ci hanno dato né olio né burro” – e concludeva così:
“Gli operai di La Spezia da due giorni in sciopero lottano per tutto ciò che è necessario alla vita. La loro lotta è pure la nostra, solidarizziamo con loro” [10].
Anche la giornata del 7, tuttavia, fu all’insegna della spontaneità operaia.
Lo rivela il documento Materiali sullo sciopero di Spezia – Gennaio 1944, steso nello stesso mese dalla Federazione spezzina del PCI, in cui la Relazione di un membro del Com. Federale descriveva ogni fase dello sciopero al Muggiano e spiegava:
“[La] rivendicazione dei generi alimentari […] fu proprio una leva che rimosse quell’incrostazione che da vent’anni aveva assorbito la classe operaia. […] si è giunti a una maturazione politica che bastò posticipare di tre giorni la paga per far esplodere in un sol colpo lo sciopero che noi compagni ci eravamo promessi di raggiungerlo [sic] solo una decina di giorni dopo. Questo precipitare degli avvenimenti in fabbrica ci ha sorpresi tutti e non nascondiamo che noi stessi ne siamo stati così sorpresi di tale fulmineo colpo, che alcuni operai comunisti uscirono dal cantiere a chiedere istruzioni di come dovevano contenersi e quali rivendicazioni loro si proponevano di chiedere in merito allo sciopero» [11]”.
Il partito fu “spiazzato”. Ma al contempo si lamentò sulla conclusione dello sciopero. In quella fase era ispettore regionale del PCI in Liguria Raffaele Pieragostini, esponente di quello che Giaime Pintor aveva definito il “partito di Ventotene”, cioè il gruppo di dirigenti e quadri comunisti che stava scontando il confino nell’isola e si preparava, dopo essere liberato, ad assumere la guida del partito in Italia. Il suo nome in clandestinità era “Lorenzo”. Ecco cosa scrisse “Lorenzo” subito dopo lo sciopero di gennaio:
“Non si era formato un Comitato Sindacale Segr. Vi fu, e forse vi è ancora una certa corrente favorevole alle Comm. Interne. Resta il fatto che durante lo sciopero i compagni, malgrado le istruzioni contrarie che a suo tempo erano state impartite, hanno dato il loro consenso alla formazione delle Commissioni che andarono a parlamentare e a trattare con il prefetto”.
Si può dire che gli operai avessero sbagliato? Ma che altro avrebbero potuto fare in quel contesto? Emergeva, piuttosto, una loro capacità di adoperare tutti gli strumenti organizzativi che le condizioni di lotta potevano offrire. Tant’è che nel febbraio successivo quegli stessi operai fecero fallire le elezioni delle Commissioni Interne, organizzate dai fascisti. L’indicazione data dalle forze antifasciste fu quella del sabotaggio attraverso l’astensionismo o la dispersione del voto.
Il risultato fu eclatante ovunque. Questo, per esempio, il dato del Muggiano:
“Totale votanti per i candidati 91. In bianco 429. Reclamo tre mesi 166. Generi alimentari 337. Stalin 16. Per la pace 14. Totale complessivo 753 votanti, circa 1347 astenuti” [12].
Il 16 febbraio i sindacati fascisti scrissero al Prefetto una lettera desolata: le elezioni “non hanno sortito esito favorevole” [13].
LA SPEZIA, MARZO 1944
Dopo lo sciopero di gennaio la situazione alimentare ed economica degli operai spezzini continuava ad essere grave, nonostante le conquiste strappate.
Il CLN, composto inizialmente – a ottobre – da comunisti, socialisti e liberali, a gennaio si rafforzò con l’ingresso dei rappresentanti del Partito d’Azione e della Democrazia Cristiana. In una riunione successiva allo sciopero di gennaio stabilì di “lanciare un manifesto alla cittadinanza e alla classe operaia per incitarla allo sciopero” [14].
L’intenzione dei comunisti era di organizzare il nuovo sciopero “per i primi giorni di febbraio”. “Lorenzo” scrisse dei “timori” e dei “dubbi” dei suoi compagni spezzini – il Prefetto aveva minacciato, in caso di nuovi scioperi, la chiusura degli stabilimenti e la riammissione al lavoro dopo domanda, il che significava il licenziamento degli organizzatori degli scioperi – che furono poi superati [15].
Lo sciopero era parte integrante di un’iniziativa ben più ampia. Il teatro di guerra era cambiato, in senso sempre più favorevole agli alleati. Si parlava sempre più spesso di loro sbarchi sulle coste dell’Italia occupata, Liguria compresa. La liberazione di Roma sembrava vicina. Occorreva dunque sostenere lo sforzo degli alleati sviluppando tutto il potenziale espresso dalle lotte operaie.
Lo sciopero del primo marzo fu organizzato dal Comitato segreto di agitazione per Piemonte, Liguria e Lombardia (creatura del Partito comunista) e fu sostenuto dal CLN, quindi da tutti i partiti antifascisti. In una prima fase si era pensato a uno sciopero insurrezionale, ma la prospettiva di liberazione in tempi brevi di Roma e dell’Italia cadde. Gli obiettivi furono modificati. Nell’ultima versione erano obiettivi economici e alimentari, ma puntavano anche alla salvezza degli impianti e della manodopera dal saccheggio tedesco – il Muggiano, per esempio, era stato minato [16] e forte, anche alla Spezia, era la spinta a deportare gli operai – e alla cessazione della produzione bellica per il Reich: “pane e libertà”, com’era scritto nel volantino del Comitato segreto di agitazione della Spezia del primo marzo [17].
Alla Spezia l’adesione fu compatta: OTO Melara, Muggiano, Termomeccanica, Jutificio, Pertusola, le piccole fabbriche, perfino l’officina congegnatori dell’Arsenale Militare, allora sotto il comando tedesco. “Man mano arrivavano gli operai degli altri reparti – raccontarono gli operai dell’OTO – andavano a mettersi in tuta di lavoro, raggiungevano il loro posto e lì rimanevano con le braccia incrociate. Una cosa entusiasmante e solenne nel medesimo tempo” [18]. Gli scioperanti, secondo i fascisti, furono 5mila. In realtà furono forse il doppio: una vera e propria sfida al sistema, che scatenò una terribile macchina repressiva.
Il primo marzo il federale Augusto Bertozzi fece affiggere un manifesto a sua firma in cui era scritto: lo sciopero “sarà decisamente stroncato” [19]. Bertozzi andò all’OTO, ordinando a tutti di recarsi nel piazzale. Questa la testimonianza degli operai: “Bertozzi, affiancato da un ufficiale tedesco, cominciò a strillare […] ad un tratto qualcuno, senza concordare l’iniziativa, urlò: ‘Via tutti! Via tutti!”. In due minuti il piazzale rimase deserto con sopra il palco il federale fascista che urlava come un ossesso” [20].
La GNR, in un rapporto al Prefetto inviato lo stesso giorno, lo confermò: “Il Commissario Federale che ha tentato di dissuadere gli operai dell’OTO non è stato ascoltato dalle maestranze che si sono allontanate”. Il rapporto era impietoso: un “grave malcontento si rileva fra i tranvieri e i bancari” e “la popolazione civile lamenta per la deficienza della razione di olio ridotta ad un decilitro” [21].
Ai fascisti non andò meglio al Muggiano. Ecco il racconto di un operaio:
“Era venuto un rappresentante del sindacato fascista a fare un’assemblea nel piazzale più importante del Muggiano. C’eravamo perché la convocazione era obbligatoria. C’eravamo tutti i dipendenti del Muggiano, allora eravamo oltre 3mila persone. Mi ricordo che tutti questi ragazzi che eravamo tra gli elettricisti, quando questo signore aveva posto una domanda che mi pare fosse se siamo contenti dell’attuale trattamento che ci viene riservato come dipendenti di una grossa fabbrica, tutti quanti in coro abbiamo gridato: ‘no!’. Tutti i ragazzi – gli uomini dovevano tenersi più coperti perché poi c’era pericolo di rastrellamenti – però noi ragazzi abbiamo detto spontaneamente ‘no!’” [22].
Il citato rapporto della GNR conteneva una frase significativa: “Sono confermati i nominativi dei sobillatori segnalati nel foglio 1705/B.1/9” [23]. I fascisti conoscevano gli organizzatori ed erano pronti a colpire senza pietà. Nella notte del primo marzo il prefetto fece stampare un manifesto, affisso all’alba del 2: se lo sciopero non fosse cessato il Prefetto avrebbe chiuso gli stabilimenti, licenziato gli operai e sorteggiato chi inviare in “campi italiani di concentramento, come elementi sediziosi e nemici della Patria” [24]. In realtà il campo fu Mauthausen. Nella stessa notte iniziò una catena di arresti presso le abitazioni. I primi ad essere incarcerati furono tre operai e un tecnico dell’OTO Melara e nove operaie dello Jutificio.
Il primo marzo il Questore aveva emanato le disposizioni per il giorno successivo: decine di militi della Xª Mas furono inviati in tutte le fabbriche, il nucleo di marinai del Varignano all’OTO Melara, la GNR e tutte le altre forze dell’ordine a presidiare la città.
Ma il 2 marzo, nonostante tutto, lo sciopero continuò.
All’OTO Melara si rinunciò a formare una delegazione per andare a trattare la liberazione dei compagni incarcerati: l’arresto dei componenti sarebbe stato certo. Si scioperò anche il giorno dopo, fino alle 14,30. Alla direzione, che si disse pronta a discutere sui motivi dello sciopero, i lavoratori risposero che, in ogni caso, dovevano diventare operanti gli accordi stipulati dopo lo sciopero di gennaio.
Anche al Muggiano lo scioperò continuò il 2. La Xª Mas sguinzagliò i suoi militi armati di mitra in ogni reparto e officina, per prelevare gli operai e interrogarli. Tre organizzatori dello sciopero furono arrestati quel giorno, altri riuscirono a fuggire. Gli arresti proseguirono nella notte del 2 presso le abitazioni e la mattinata del 3 in cantiere.
Alle officine Bargiacchi lo sciopero durò fino al 2. Gli arresti furono effettuati in fabbrica la mattina del 3. Alcuni tra gli organizzatori si salvarono perché non si erano presentati al lavoro.
Due documenti della Prefettura senza data – ma dei giorni immediatamente successivi – senza intestazione e senza firma custoditi nell’Archivio di Stato della Spezia spiegano quanto accadde: i lavoratori fermati e tradotti in carcere furono 23, quelli arrestati e “messi a disposizione del comando germanico” furono 15 [25]. Tre furono rilasciati, 12 deportati a Mauthausen. Solo in tre riuscirono a tornare: Dora Fidolfi dello Jutificio, Ioriche Natali dell’OTO Melara, Mario Pistelli del Muggiano.
Questi i nomi dei caduti: Oreste Buzzolino (Bargiacchi), Michele Castagnaro (OTO Melara), Armando Cialdini (Muggiano), Umberto Colotto (Muggiano), Filippo Dondoglio (Muggiano), Elvira Fidolfi (Jutificio), Pietro Milone (OTO Melara), Giuseppe Sanvenero (OTO Melara), Giuseppe Tonelli (Muggiano).
In un testo inedito – una sorta di “diario” a posteriori del periodo che va dal primo marzo all’8 aprile 1944 – Mario Pistelli racconta lo sciopero, “clandestinamente preparato da un Comitato di agitazione […] di cui era responsabile l’indimenticabile compagno Giuseppe Tonelli” [26], e in ogni dettaglio l’arresto e il trattamento ricevuto nella caserma Fiastri sede della Xª Mas:
“Per cinque giornate e altrettante notti io e Tonelli fummo sottoposti a estenuanti interrogatori fatti con pugni e calci e non ottenendo alcun risultato passarono alle torture, con spille ficcate nelle unghie delle mani e dei piedi; il cerchio che stringe la testa finché sembra che scoppi e anche con il fuoco sotto i piedi” [27].
Tonelli e Pistelli furono condannati a morte tramite fucilazione, ma poi portati insieme agli altri nel carcere della Spezia, quindi in quello di Genova, poi nel campo di Fossoli e infine a Bergamo per il viaggio in treno verso la Germania. Tonelli riuscì a prendere contatti con il CLN di Bergamo per un attacco partigiano al treno, ma purtroppo l’azione non andò a buon fine. Il diario di Pistelli si conclude così:
“Nella mattina dell’8 aprile, vigilia di Pasqua, arrivammo al famigerato campo di Mauthausen e a toglierci ogni illusione, appena varcata la soglia del campo, vedemmo per anteprima un deportato russo vestito a zebre, impiccato alla porta del Lager e la brezza mattutina lo dondolava dolcemente” [28].
Un altro testo inedito – di Ioriche Natali, operaio dell’OTO Melara, anch’egli deportato, intitolato I quindici mesi a Mauthausen-Gusen di dieci compagni di La Spezia – contiene anch’esso pagine di grande intensità narrativa. Così Natali ricordava Giuseppe Tonelli:
“In questo triste periodo di permanenza a Gusen la figura di Tonelli Giuseppe di Carrara fu grande per la sua viva fede, per un largo contributo dato all’organizzazione clandestina del PCI, per la sua instancabile propaganda di unione proletaria della massa Italiana del campo. Fu anche il promotore di un’associazione a carattere mutualista comprendente tutti gli italiani, contribuendo con la sua tenacia di organizzatore, con il suo amore per il prossimo, ad alleviare molti dolori sia fisici che morali. Il Tonelli, che tutti i compagni stimavano e amavano, decedeva il primo maggio 1945 all’infermeria di Gusen, per sfinimento fisico che provocò la inesorabile dissenteria, terrore di tutti i prigionieri [29].
La fine dello sciopero fu decisa la mattina del 3 marzo. “Lo sciopero generale è stato un’affermazione e una vittoria dei lavoratori italiani”, recitava il comunicato rivolto alla cittadinanza dal Comitato segreto di agitazione in quella stessa mattina [30].
Il colpo che i nazisti e fascisti avevano subito era davvero pesante. La repressione antioperaia era stata drammatica: ma quella classe che resisteva aveva ormai assunto, nella società e nella politica italiane, una funzione “nazionale”. Come vedremo meglio nella seconda parte dell’articolo, ciò che emerge da questa storia – anche di sconfitte, come quella di Genova – è certamente il ruolo dei gruppi dirigenti, in primo luogo del Partito comunista, ma anche e forse soprattutto dei singoli operai che tornarono a riconoscersi in classe. Persone semplici, “fatte” dal partito, ma che pure “fecero” il partito.
Seconda parte
ANCHE A GENOVA ARRIVA IL “PARTITO DI VENTOTENE”
La vicenda della “ricostruzione” della classe operaia genovese nel corso della Resistenza fu contrassegnata, all’inizio, dallo scontro profondo che scosse il principale partito operaio, il Partito comunista. Dopo l’8 settembre il “partito di Ventotene” rientrò nelle strutture del PCI, guidato dal suo maggiore esponente, Raffaele Pieragostini “Lorenzo”. Nato a Sampierdarena, aveva fatto l’operaio alla San Giorgio. Poi il confino, l’Università leninista a Mosca, la guerra di Spagna, il carcere fino all’agosto 1943. “Lorenzo” e i suoi compagni misero radicalmente in discussione il gruppo dirigente precedente, diretto da Arturo Dellepiane, che dopo il 25 luglio era diventato il capo delle Commissioni Interne. Il gruppo fu accusato di collaborazionismo e legalitarismo e di non saper comprendere la nuova fase politica, che richiedeva il passaggio alla clandestinità e alla lotta armata. Agli inizi di novembre arrivò da Torino l’empolese Remo Scappini, che tenne da quel momento la direzione del partito genovese sostituendo Pieragostini, che rimase comunque al suo fianco in altri ruoli. Scappini, ricercato ed espatriato prima a Parigi e poi a Mosca, rientrato in Italia nel 1933, era stato arrestato e incarcerato ed era uscito nel 1942 grazie all’amnistia del ventennale. Per ciò che riguarda l’organizzazione nelle fabbriche, il nuovo gruppo dirigente impose la scelta delle dimissioni dalle Commissioni Interne e del loro sabotaggio, della rottura di ogni rapporto con le direzioni aziendali e della costituzione del Comitato di agitazione clandestino. Dellepiane fu sospeso dal partito a ottobre ed espulso a novembre; “L’Unità” ne diede notizia a dicembre.
GENOVA, GLI SCIOPERI DEL 19 E DEL 24 NOVEMBRE 1943
Anche a Genova, nell’autunno 1943, vi fu un grave peggioramento delle condizioni vita. La protesta operaia non tardò a manifestarsi. Il primo sciopero vide protagonisti, il 19 novembre, gli operai di Voltri. Un secondo sciopero fu indetto il 24 novembre, questa volta non solo a Voltri: anche a Sampierdarena, Sestri, Rivarolo. Il Prefetto e Capo della Provincia Carlo Emanuele Basile trattò con una commissione di operai e concesse gli aumenti salariali che erano stati alla base dell’agitazione. Fu l’ultimo atto della politica di “collaborazione”. Il PCI esaltò lo sciopero ma criticò la sostanza dell’iniziativa operaia:
“Mai, in nessun caso, in nessun momento si deve accettare di formare o nominare commissioni per andare a trattare con le autorità fasciste vendute all’invasore tedesco. Bisogna reagire al gioco delle lusinghe e della demagogia fascista e tedesca […] si deve evitare ogni contatto con il nemico del popolo” [1].
PERCHÈ GLI OPERAI SPEZZINI NON SCIOPERARONO NEL NOVEMBRE E DICEMBRE 1943
La stessa critica – come abbiamo visto – Pieragostini la fece agli operai spezzini dopo lo sciopero del gennaio 1944. La classe operaia spezzina era più “indietro” rispetto a quella genovese: non scioperò infatti né a novembre né a dicembre. Quali furono i motivi? Pesò la debolezza del locale Partito comunista, ma non solo. Incise anche, e forse soprattutto, il fatto che la preoccupazione più grande degli operai spezzini era per il posto di lavoro: 8mila non l’avevano più, gli altri temevano di perderlo. Il primo volantino di un Comitato di officina segnalato dalle forze dell’ordine alle autorità fasciste risale all’ottobre 1943 ed è significativamente intitolato Prossimi licenziamenti negli stabilimenti OTO: la lotta era indirizzata contro “l’oppressore tedesco” e contro “le manovre di affamamento dei plutocrati italiani” [2]. Non a caso il prefetto spezzino Franz Turchi, dopo lo sciopero di gennaio, fece preparare una serie di volantini dattilografati, “nei quali si faceva balenare che l’incitamento allo sciopero fosse una manovra capitalistica allo scopo di giungere alla chiusura degli stabilimenti desiderata dagli industriali” [3]. Un volantino firmato “Un gruppo di anarchici” sostenne con forte vigore polemico la tesi di non scioperare per impedire di “chiudere gli stabilimenti” e per non “fare il gioco delle autorità e dei capitalisti”. Il nemico era “l’oro inglese che paga abbondantemente qualcuno di noi infiltratosi nelle nostre file” [4]. Il termine “oro inglese” era assai frequente nei testi scritti da Turchi. La contromossa fallì miseramente, come dimostrò il successo dello sciopero di marzo.
GENOVA, LO SCIOPERO DEI TRANVIERI DEL 27 NOVEMBRE E LO SCIOPERO GENERALE DEL 16-20 DICEMBRE 1943
Ma torniamo a Genova. La situazione cambiò nel giro di pochi giorni grazie allo sciopero dei tranvieri il 27 novembre, contro l’arresto di molti sindacalisti dell’azienda tranviaria, accusati di propaganda antifascista. Basile reagì il pomeriggio stesso con un comunicato in cui annunciava rappresaglie durissime. Lo sciopero cessò in giornata, altri lavoratori furono arrestati. Fu un’azione importante: perché era uno sciopero politico, perché coinvolgeva una categoria diversa dai metalmeccanici addetti alla produzione bellica, e perché la città bloccata, improvvisamente ferma, rendeva oltremodo visibile la lotta antifascista. In questa azione, inoltre, intervennero per la prima volta, sia pure in modo modesto, i GAP per sabotare gli scambi delle linee [5].
Gli scioperi degli operai genovesi ripresero a dicembre. Fu un movimento ancora in gran parte spontaneo, nel quale via via si innestò l’iniziativa organizzata del Comitato di agitazione guidato dal Partito comunista. Le richieste erano di natura salariale e alimentare, ma il significato politico antifascista era sempre più chiaro. Lo sciopero iniziò il 6 dicembre: alla sua origine fu l’annuncio della riduzione di un terzo della razione mensile dell’olio per persona. Da qui la definizione, invero limitativa, di “scioperi dell’olio”. L’agitazione si sviluppò nei giorni successivi, fino al grande sciopero del 16 dicembre, quando quasi 50mila operai, a partire da quelli dell’Ansaldo, incrociarono le braccia.
L’agitazione di dicembre si intrecciò con l’iniziativa di massa e con l’azione gappistica contro i militi repubblichini e tedeschi. Ci furono cortei nei quartieri popolari, scontri di piazza e attentati. Già il 7 dicembre era stato ucciso un militare tedesco, l’11 dicembre toccò a un fascista. Il 17 dicembre lo sciopero proseguì. Al pomeriggio un gruppo di operai tentò di rovesciare una vettura ferroviaria, un operaio fu ucciso. Nella notte tra il 17 e il 18 due operai vennero arrestati e fucilati all’alba nel forte di San Martino. L’esecuzione fu resa nota il 19 e provocò un’ondata di sdegno e l’aumento della protesta. Fu dichiarata una giornata di sciopero politico e di lutto, negozi e ritrovi rimasero chiusi. Un milite venne ucciso.
Il 20 dicembre il generale Zimmermann annunciò la concessione dei miglioramenti salariali e alimentari richiesti. Il 21 dicembre il Comitato di agitazione decise di far cessare lo sciopero, anche se molti operai non erano d’accordo. Fu una vittoria civile e sociale: la pagina più alta e più forte scritta dagli operai genovesi nel duro inverno 1943-1944, grazie a uno spirito di combattività e di solidarietà molto forte.
Basile scrisse, nei giorni successivi, una relazione ai tedeschi assai preoccupata:
“Mentre la classe borghese, nella famiglia come nella scuola, dà segno di un collasso morale, la classe operaia, e in essa includiamo la categoria degli impiegati, manovra evidentemente diretta da agitatori che conoscono a fondo il loro mestiere per averlo imparato dai maestri russi” [6].
In realtà i comunisti non avevano proclamato lo sciopero ed erano stati costretti ancora una volta a rincorrere il movimento di protesta. Da qui la loro spinta per una più marcata politicizzazione:
“Per i dirigenti comunisti le rivendicazioni salariali e il miglioramento delle condizioni di vita non potevano esaurire la valenza delle agitazioni operaie, che dovevano essere orientate ad obiettivi politici più generali e divenire propedeutiche alla finale sollevazione generale. Lo spontaneismo delle masse rischiava di precedere coloro che si ritenevano investiti della missione di guidarle. Una sfasatura temporale cui il PCI genovese avrebbe cercato di ovviare con la proclamazione di un nuovo sciopero nel mese successivo. Una decisione […] rivelatasi per molti aspetti improvvida” [7].
GENOVA, LO SCIOPERO DEL 13-20 GENNAIO 1944
Lo sciopero successivo, quello del 13-20 gennaio 1944, ebbe un tratto assai minore di spontaneità: fu voluto e diretto dal Partito comunista.
La reazione fu feroce.
Il 13 gennaio una squadra gappista di cui faceva parte lo studente Giacomo Buranello uccise due ufficiali tedeschi. Nella notte otto prigionieri, protagonisti delle lotte di dicembre, furono giudicati e fucilati all’alba del 14 al forte di San Martino. Il tenente dei carabinieri comandato a eseguire la sentenza si rifiutò di ordinare la fucilazione e fu arrestato. Il suo plotone sparò in aria. L’eccidio fu compiuto dai tedeschi e dai fascisti.
Lo sciopero fu sospeso il 20 gennaio. Nulla era stato conquistato, mentre il prezzo pagato era stato terribile. Tra il 14 e il 15 gennaio i tedeschi arrestarono 26 persone, che insieme ad altri detenuti antifascisti vennero deportati nel campo di Dachau. In tutto furono 42 uomini, solo 21 avrebbero fatto ritorno.
A dicembre gli operai si erano sentiti vincitori. Lo sciopero di gennaio, nonostante il suo indubbio valore politico, fu invece vissuto come una sconfitta. Il Partito comunista ne uscì lacerato: “era stato toccato il punto più basso da quando la direzione ventotenista era tornata in città” [8].
In una riflessione successiva Remo Scappini scrisse che “la deficienza più grave del C. F. [Comitato Federale] fu quella di farsi sorprendere per non aver valutato esattamente tutti gli aspetti della situazione”[9].
A gennaio il partito fece una forzatura, tipica di un partito dirigista. I suoi dirigenti, esemplari per spirito di sacrificio, erano “settari e ideologicamente tetragoni, poco propensi a un reale ascolto delle istanze, dei problemi, delle inquietudini della base” [10].
GENOVA, L’INAZIONE DEL PRIMO MARZO
La sconfitta di gennaio spiega l’inazione di marzo. Appena si diffuse la notizia del nuovo sciopero generale, cominciò una campagna minacciosa. Basile fu chiaro: chi sciopererà andrà in Germania, non nei campi di lavoro, ma in quelli di concentramento. Il PCI decise comunque di tentare lo sciopero. Ma all’appello del Comitato di agitazione risposero, il primo marzo, solo poche fabbriche. Scappini ammise: “lo sciopero non è riuscito […] la massa non ha risposto” [11]. Le cause, secondo lui, erano state la repressione del nemico e il fatto che “la massa” non aveva marciato. Il gappista Buranello, riparato in montagna dopo lo sciopero di gennaio, fu inutilmente fatto scendere in appoggio allo sciopero. Riconosciuto, fu catturato dopo uno scontro a fuoco e fucilato il 3 marzo al forte San Giuliano.
GENOVA, LA MORTE DI BURANELLO IL 3 MARZO
Giacomo Buranello era un giovane di famiglia operaia. Inizialmente mazziniano, intriso di spirito risorgimentale, approdò al marxismo e al leninismo. Amava la cultura, aveva letto i testi dei classici ed era diventato comunista, fautore di un’organizzazione armata, militare, bolscevica. Diede vita a una piccola rete di studenti universitari. A vent’anni scrisse: “ci sono dei comunisti ma non c’è il Partito comunista” [12]. Non a caso ruppe con il gruppo di Dellepiane.
Il ritratto che ne ha fatto Manlio Calegari è molto efficace. Il progetto cospirativo di Buranello “era maturato come espressione morale e politica di un piccolo gruppo, come amore per la ‘realtà’, per la bellezza, per la cultura e come ripudio totale, fisico, del fascismo. Per questo si erano mossi alla ricerca dei comunisti e del comunismo che di quei sentimenti apparivano, sia pure confusamente, la forma più alta. Avevano trovato entrambi. I primi erano uomini disinformati, confusi, avviliti dalla sconfitta che li avevano accolti con umanità, a volte con ingenuo entusiasmo a volte con sospetto e ostilità. Il comunismo l’avevano trovato sui libri sia pur con le difficoltà che il regime frapponeva al loro desiderio di sapere. A Giacomo in particolare era piaciuto proprio per la forma che a esso era stata data dal leninismo. Il volontarismo, il soggettivismo rivoluzionario che si incarnava nel ‘partito’ si saldavano perfettamente col suo moralismo; lo rafforzavano” [13].
Buranello e l’amico Walter Fillak furono utilizzati da Pieragostini nei GAP fin dal mese di ottobre. Erano stati incarcerati nel 1942. Rientrati a Genova il primo settembre 1943, avevano ricostituito la rete degli studenti. Il gruppo era senz’altro vicino, dal punto di vista teorico, alle posizioni del “partito di Ventotene”, nel frattempo diventate egemoni. Pieragostini propose a Buranello la responsabilità dei GAP. Giacomo, inizialmente riluttante, accettò.
Che Pieragostini utilizzasse giovani intellettuali di valore – in un partito che con il mondo intellettuale non aveva rapporti – non per migliorare la direzione politica ma per fare attentati oggi stupisce. Ma certamente per il Partito comunista i GAP, in una fase in cui la guerriglia in montagna non esisteva ancora, rispondevano al “bisogno di un detonatore” [14] per “creare l’atmosfera di guerra” [15].
Nella veste di comandante gappista, Buranello ebbe come vice Andrea Scano “Elio”, ex marittimo sardo. Un ribelle che aveva fatto la guerra di Spagna e poi era stato a Ventotene. Scano ha lasciato alcuni documenti inediti, resi noti da Piero Ferrazza e Luca Sansone nel libro Giacomo Buranello Rivoluzionario e partigiano. Su questa base i due autori hanno ricostruito un quadro sommario delle azioni svolte dai Buranello e Scano [16]: l’uccisione di un fascista a Sampierdarena il 28 ottobre 1943; le bombe alla Casa del Fascio di Genova il 7 novembre; l’appoggio allo sciopero dei tranvieri il 27 novembre; le tre azioni a dicembre. Ferrazza e Sansone aggiungono altre due azioni, non citate da Scano ma risultanti da altre fonti, svolte da Buranello con altri gappisti: l’11 novembre e il 18 dicembre. Scano ricorda inoltre l’attentato del 13 gennaio 1944 e, due giorni dopo, il lancio di bombe a mano alla Casa del Fascio di Sampierdarena. Nella sentenza di condanna a morte è scritto che, nello scontro a fuoco prima della cattura, Buranello uccise un brigadiere.
I giudizi dei dirigenti comunisti del tempo furono molto critici verso Buranello. Si può condividere l’opinione di Santo Peli, secondo cui essi “suonano particolarmente impietosi, quasi dimentichi delle enormi difficoltà del contesto dove si sta cercando di impiantare la lotta armata” [17].
Non possiamo sapere che ruolo avrebbe potuto svolgere Buranello nella Resistenza e dopo se non fosse Caduto. Del resto, nel suo Diario, a soli diciassette anni, si era dato una sorta di appuntamento con il sacrificio:
“Se Dio m’assisterà un giorno potrò sacrificarmi per la libertà, per la giustizia, per la fratellanza. Per questa stessa fede per cui voglio morire, desidero che rimanga un documento sui sentimenti e i pensieri che mi avranno spinto all’azione” [18].
Manlio Calegari fa intuire che avrebbe potuto diventare un comunista non stalinista, perché “aveva inteso come, nel movimento comunista, ‘libertà’ fosse questione insoluta” [19].
OPERAI E COMUNISTI
Nel PCI genovese iniziò una difficile discussione sulla giustezza o meno di aver proclamato lo sciopero di gennaio e sulla sua gestione politica e organizzativa. Vi fu una difficoltà a capire sia gli operai che la classe, anche perché erano entrambi, a volte, sfuggenti. Una identificazione piena tra operai, classe e partito si realizzò in pochi momenti della storia: nel marzo 1944 accadde in molte realtà del Nord, a Genova si verificò dopo. Ma l’identificazione non è mai data una volta per tutte. Gli operai non sono tout court i comunisti. Così come, sfiorando un altro tema, i partigiani non sono tout court i comunisti.
Se leggiamo, negli archivi del Partito comunista, alcuni giudizi di Remo Scappini sulla classe operaia genovese e di Antonio Borgatti “Silvio”, segretario della Federazione del PCI della Spezia dalla metà del 1944 alla Liberazione, sulla classe operaia spezzina ci accorgiamo che anche in due dirigenti di grande intelligenza politica emergono schemi interpretativi poco duttili, incapaci di capire fino in fondo i vissuti e le culture degli operai e della classe. La cura del libro di Dino Grassi Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista – un operaio che fece gli scioperi del gennaio e del marzo 1944 nel Cantiere Muggiano della Spezia – mi ha spinto a pensare alle “interrelazioni, alle connessioni e agli interscambi tra militanti e dirigenti, tra idee e azioni provenienti dal basso e indotte dall’alto. A cercare la complessità della costruzione di un modo di ricomporre gli umili con i sapienti, il sentire con il comprendere” [20].
Le storie che ho raccontato spingono a questa riflessione, storica e politica, che parla anche all’oggi. Non tutto può nascere da rigidi assiomi, da un ordine pianificato: dal caos possono trarre origine comunità di lotta e nuove esperienze cariche di potenzialità, da ascoltare, interpretare e coordinare. Gli operai vanno educati ma anche capiti nelle loro esigenze personali di libertà. A pensarci bene, pur tra limiti ed errori, al 25 aprile 1945 ci si arrivò anche così.
Giorgio Pagano, storico, sindaco della Spezia dal ’97 al 2007, copresidente del Comitato provinciale Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi
NOTE prima parte
[1] Marzo 1943. Gli scioperi che scossero il fascismo, “Il Secolo XIX”, 19 marzo 2023, anche in www.associazioneculturalemediterraneo.com; Gli scioperi del marzo-aprile 1943, come il malcontento divenne politico, www.patriaindipendente.it, 20 marzo 2023; 25 luglio 1943, non fu solo un’illusione, www.cittadellaspezia.com, 25 luglio 2023; 25 luglio 1943. Cade il fascismo stremato, ma la tragedia non è finita, 25 luglio 2023, “Il Secolo XIX”, anche in www.associazioneculturalemediterraneo.com; In quei quarantacinque giorni di Badoglio cominciò il riscatto. E partì dal basso, www.patriaindipendente.it, 20 agosto 2023; Lo sciopero degli operai dell’OTO Melara, i calzolai e una lezione contro l’odio, www.cittadellaspezia.com, 26 agosto 2023.
[2] Fonogramma della Legione territoriale dei Carabinieri di Genova, Tenenza di La Spezia, alla Prefettura di La Spezia, alla Questura di La Spezia, al Comando Gruppo Carabinieri e al Comando Compagnia Carabinieri di La Spezia, 18 dicembre 1943, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Ordine pubblico, b. 84, ASSP
[3] Volantino del Comitato di agitazione di officina dell’OTO Melara, 23 dicembre 1943, ivi.
[4] Promemoria della Corporazione fascista dei lavoratori dell’industria al Capo della Provincia, 24 novembre 1943, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, b. 165, ASSP.
[5] Consiglio provinciale dell’economia, Novembre 1943, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Ordine pubblico, cit.
[6] Un manifesto del Gen. Zimmermann ai lavoratori di Genova, ivi.
[7] Promemoria della Corporazione fascista dei lavoratori dell’industria al Capo della Provincia, 20 novembre 1943, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, cit.
[8] Anelito Barontini, Relazione politica generale per il Convegno sugli scioperi del marzo 1944 alla Spezia, in Mario Farina (a cura di), La Spezia Marzo 1944. Classe operaia e resistenza. Atti della conferenza “Scioperi del marzo 1944” tenuta nella sala del Consiglio Provinciale della Spezia il 1° marzo 1974, Istituto Storico della Resistenza, La Spezia, 1976, p. 40.
[9] Ivi, pp. 40-41.
[10] Volantino del Comitato di agitazione provinciale, s. d. ma del 7 gennaio 1944, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, cit.
[11] Materiali sullo sciopero di Spezia – gennaio 1944, Relazione di un membro del Com. Federale, Fondazione Gramsci, Archivi del Partito comunista italiano, Direzione Nord, La Spezia, 16 gennaio 1944-13 dicembre 1944, b. 25.
[12] Elezioni del 10-2-44 alla Oto Muggiano, Fondazione Gramsci, Archivi del Partito comunista italiano, cit.
[13] Il Commissario dell’Unione Francesco Mannucci al Capo della Provincia, 16 febbraio 1944, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, cit.
[14] Relazione del rappresentante del PCI nel CLN della Spezia, Fondazione Gramsci, Archivi del Partito comunista italiano, cit.
[15] Materiali sullo sciopero di Spezia – gennaio 1944, Relazione di un membro del Com. Federale, cit.
[16] Il 16 febbraio 1944 “Lorenzo” scriveva: “Al cantiere di Muggiano gli operai sono in agitazione per la posa di mine ad opera dei tedeschi. Una commissione è andata o andrà alla direzione dello stabilimento perché questa intervenga per impedire la minaccia che pesa sul cantiere”, in Testo dattiloscritto di sei pagine datato 16 febbraio 1944 firmato Lorenzo, Fondazione Gramsci, Archivi del Partito comunista italiano, cit.
[17] Volantino del Comitato segreto di agitazione, primo marzo 1944, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, cit.
[18] Memoria di Dario Bertone, Remo Garbati, Francesco Giannetti, Otello Giovannelli, Ioriche Natali, Artemio Spinosa, Cesare Storietti, Dalla caduta del regime fascista allo sciopero insurrezionale del 1° marzo 1944. Stabilimento meccanico OTO Melara, in Mario Farina (a cura di), La Spezia Marzo 1944. Classe operaia e resistenza. Atti della conferenza “Scioperi del marzo 1944” tenuta nella sala del Consiglio Provinciale della Spezia il 1° marzo 1974, cit., p. 68.
[19] P. F. R. Federazione Lunense La Spezia, Operai!, primo marzo 1944, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, cit.
[20] Memoria di Dario Bertone, Remo Garbati, Francesco Giannetti, Otello Giovannelli, Ioriche Natali, Artemio Spinosa, Cesare Storietti, Dalla caduta del regime fascista allo sciopero insurrezionale del 1° marzo 1944. Stabilimento meccanico OTO Melara, cit., p. 69.
[21] Guardia Nazionale Repubblicana, Ufficio Investigativo, al Capo della Provincia, primo marzo 1944, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, cit.
[22] Testimonianza di Bruno Scattina, in archivio Vasco Sensoni.
[23] Guardia Nazionale Repubblicana, Ufficio Investigativo, al Capo della Provincia, cit.
[24] Prefettura di La Spezia, Franz Turchi ai lavoratori, 2 marzo 1944, ivi.
[25] Prefettura di La Spezia, Elenchi dei fermati e degli arrestati in occasione dello sciopero del primo marzo 1944, s. d. ma del marzo 1944, ivi.
[26] Testo inedito senza titolo di Mario Pistelli, in archivio famiglia Pistelli, p. 1. Il diario – che i familiari hanno messo a disposizione di una mia ricerca – fu scritto alla fine degli anni Quaranta.
[27] Ivi, pp. 2-3.
[28] Ivi, p. 4.
[29] Testo inedito di Ioriche Natali, I quindici mesi a Mauthausen-Gusen di dieci compagni di La Spezia, in archivio famiglia Natali, pp. 2-3. Il testo – anch’esso messo a disposizione di una mia ricerca dai familiari – fu scritto negli anni immediatamente successivi al ritorno alla Spezia.
[30] Volantino del Comitato segreto di agitazione di La Spezia, 3 marzo 1944, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, cit.
NOTE seconda parte
[1]“L’Unità”, 30 novembre 1943, AILSREC, Fondo AP, b. 6.
[2] Comitato di officina, Prossimi licenziamenti negli stabilimenti OTO, s.d. ma dell’ottobre 1943, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, b. 165, ASSP.
[3] Relazione del Capo della Provincia n. 458, 15 gennaio 1943, ivi.
[4] Volantino firmato “Un gruppo di anarchici”, s. d. ma del gennaio 1944, ivi.
[5] Augusto Miroglio, Venti mesi contro venti anni. Pagine della Resistenza in Liguria, Istituto Storico della Resistenza in Liguria, Genova, 1968, p. 94. Un’uccisione di un milite fascista da parte dei GAP c’era già stata a Sampierdarena il 28 ottobre 1943 (si veda più avanti).
[6] Relazione del Prefetto al Comando delle SS, 4 gennaio 1944, Prefettura Gabinetto, b. 167, ASG.
[7] Claudio Dellavalle (a cura di), Operai, fabbrica, Resistenza. Conflitto e potere nel triangolo industriale (1943-1945), Ediesse, Roma, 2017, p. 345.
[8] Manlio Calegari, Comunisti e partigiani Genova 1942-1945, Selene, Milano, 2001, p. 171.
[9] Remo Scappini, Da Empoli a Genova (1945), La Pietra, Milano, 1988, p. 169.
[10] Claudio Dellavalle (a cura di), Operai, fabbrica, Resistenza. Conflitto e potere nel triangolo industriale (1943-1945), cit., p. 355.
[11] Lettera di Remo Scappini alla Direzione del PCI, 8 marzo 1944, in Pietro Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 1973, pp. 303-304.
[12] Circolare sull’organizzazione (riservata ai comunisti militanti), ASCG, Fondo Gaetano Perillo, sc. II, b. 36, fasc. 2.
[13] Manlio Calegari, Comunisti e partigiani Genova 1942-1945, cit., p. 67.
[14] Santo Peli, Storie di GAP. Terrorismo urbano e Resistenza, Einaudi, Torino, 2017, p. 15.
[15] Ivi, p. 22.
[16] Piero Ferrazza, Luca Sansone, Giacomo Buranello Rivoluzionario e partigiano, Pantarei, Sesto San Giovanni (MI), 2021, pp. 257-305. I documenti inediti citati sono una lettera inviata da Andrea Scano a Domenica Bondi, madre di Buranello, nel febbraio 1946, conservata presso il Gabinetto Scientifico Letterario Viesseux di Firenze, e una breve memoria di Scano custodita presso l’archivio dell’Isral di Alessandria. L’altra fonte usata da Ferrazza e Sansone è Relazione sulla Liguria, 20 dicembre 1943, in Giampiero Carocci, Gaetano Grassi (a cura di), Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, vol. I, Feltrinelli, Milano, 1979, p. 173.
[17] Santo Peli, Storie di GAP. Terrorismo urbano e Resistenza, cit., p. 59.
[18] Il Diario di Giacomo Buranello, “Storia e Memoria”, anno 3, n. 2, 1994, pp. 61-102.
[19] Manlio Calegari, Comunisti e partigiani Genova 1942-1945, cit., p. 47.
[20] Giorgio Pagano, Postfazione a Dino Grassi, Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista, ETS, Pisa, 2023, p. 166.
Pubblicato venerdì 1 Marzo 2024
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/gli-scioperi-del-1-marzo-1944-quando-la-storia-cambio-per-sempre/