Quando il 30 ottobre 1922 Benito Mussolini arriva a Roma gli squadristi non sono ancora entrati nella capitale, aspettano sotto la pioggia un ordine e una legittimazione ad entrare e ‘occupare’ la capitale dal capo del fascismo, che li fa attendere. La legittimazione a dimostrare la forza e la presenza sul territorio della capitale arriva, insieme alla nomina di Mussolini alla presidenza del Consiglio dal Re, cui la dimostrazione degli squadristi, con anche la rivista da parte del sovrano, viene messa come condizione per la pacificazione fascista del Paese.
A quel punto, il 30 ottobre, la marcia è già successa, anche se la sfilata delle squadre nella capitale avverrà solo il giorno successivo. A partire infatti dalla sera del 27 ottobre, e poi con più forza dalla notte e dalla mattina del 28, comincia infatti il piano d’azione più volte rimaneggiato e poi definito dai capi fascisti alcuni giorni prima al congresso nazionale di Napoli.
Il piano prevede un doppio movimento: in un primo tempo l’occupazione con la forza di quei territori che non siano già sotto il controllo dei fascisti o di forze governative che ai fascisti non pongano problemi, e in un secondo momento la conquista del potere nazionale, con l’attacco alla capitale. Se il secondo punto cambia parzialmente, ma non completamente, come vedremo, d’indirizzo, il primo invece viene realizzato non senza conflitti anche letali con le forze dell’ordine. Tutto questo malgrado, come è noto, il sovrano rifiuti di firmare lo stato d’assedio decretato dal dimissionario governo liberale di Luigi Facta nella notte tre il 27 e il 28 ottobre. Le squadre attaccano e cercano il controllo delle stazioni e degli uffici postali, per controllare le comunicazioni tra centro e periferia, laddove sanno di poter contare sull’acquiescenza del governo locale, e occupano e costringono alla dimissioni i sindaci e i consigli comunali laddove non godano di questa compiacenza.
Nella mattina del 28 ottobre le cose sono più complicate, perché lo Stato d’assedio introduce un elemento di incertezza nelle forze dell’ordine spesso portate alla collaborazione del fascismo, tutto questo crolla con la dichiarazione del re, ma in questo momento i fascisti alzano la posta in gioco, talvolta cercano di occupare le caserme o di allargare i loro spazi d’azione, e non sempre le forze dell’ordine reagiscono favorevolmente. E’ il caso di Bologna, dove il generale Sani non accetta l’insubordinazione fascista e muoiono alcuni fascisti. L’occupazione di quanto rimaneva dei comuni non filo fascisti o comunque non antifascisti, fa sì che, nel momento in cui Mussolini guadagna il governo, egli abbia nelle proprie mani sostanzialmente anche il potere locale in gran parte del Paese: un potere locale che gli può essere alternativamente favorevole, o che può essere benignamente neutrale, a prescindere da quale sia stato il democratico esito delle elezioni locali.
La marcia dei fascisti nella città di Roma il 31 ottobre 1922, comunque, non è solo coreografica, anche se non è un’occupazione militare della città, ma una rassegna delle squadre da parte del sovrano e dal neo presidente del consiglio (seguita da scontri anche letali tra fascisti e antifascisti nelle ore successive). La marcia è infatti una dimostrazione di forza del fascismo, che riesce a far sfilare molti meno uomini di quanto affermato, ma comunque circa 50.000, alcuni arrivati all’ultimo momento, quando la vittoria è già sicura. Uomini armati, malgrado non abbiano nessun diritto formale ad esserlo, che si sono macchiati di insubordinazione nei confronti delle autorità civili e militari e che spesso sono anche responsabili di violenze private e politiche contro avversari di vario grado, e fino all’omicidio.
La marcia è quindi una dimostrazione di forza ma è anche un momento di legittimazione di quegli uomini, delle loro azioni e della loro organizzazione paramilitare da parte della più alta autorità del Paese, il sovrano, che è il principale responsabile dell’evoluzione politica del Paese. Il peso dell’azione è dimostrato poi anche con la forza con la quale Mussolini può imporre le sue minacce ai suoi alleati di governo, un governo che com’è noto, è un governo di coalizione, e allo stesso Parlamento. Senza la marcia su Roma, Mussolini non avrebbe mai potuto pronunciare frasi come quelle che effettivamente pronunciò il 16 novembre 1922 nel corso del discorso noto come il ‘discorso del bivacco’ e che sono oggi ampiamente note:
“Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.”
La marcia legittimava quindi la minaccia e l’uso della forza, due strumenti che resero immediata la forza extralegale di quel governo che, grazie anche a questi strumenti riuscì a far votare leggi liberticide, come la censura della stampa; a porre le basi per la stabilizzazione del potere fascista, come la legge Acerbo (che dava la maggioranza assoluta di voti alla lista che avesse ottenuto il 25% dei voti) e ad attuare una rottura dell’ordine dello Statuto albertino stabilendo, per legge, che la Milizia volontaria della sicurezza nazionale, ossia la forma istituzionalizzata delle squadre fasciste, dovesse giurare fedeltà solo al presidente del consiglio e non al re, come invece era dovuto a tutte le forze armate dello Stato.
È per questo che oggi si può dire che con la marcia su Roma finì lo Stato liberale italiano, malgrado ulteriori passaggi avrebbero rafforzato e peggiorato la dittatura fascista negli anni successivi, e che la marcia su Roma, che pure nella sua parte finale ebbe un valore soprattutto simbolico, non fu né una manifestazione come tutte le altre, né una pagliacciata.
Giulia Albanese, professore associato di Storia contemporanea presso l’Università di Padova
Pubblicato martedì 3 Ottobre 2017
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