Da alcuni anni a questa parte, in Italia e in altri Paesi europei si è andata intensificando la tendenza ad affidare alla legislazione il compito di definire gli eventi dei quali si ritiene necessario perpetrare il ricordo affinché essi possano entrare a comporre il patrimonio memoriale la cui condivisione concorre a fondare il profilo identitario delle comunità e a legittimarne le istituzioni.
Le motivazioni che inducono il legislatore a codificare quello che deve essere ricordato (e di converso, anche quello che deve essere rimosso dalle narrazioni collettive) sono varie, e in molti casi encomiabili, specialmente laddove si tratta di evitare che il trascorrere del tempo e la successione delle generazioni possano attenuare, fino a cancellarlo, il ricordo degli eventi più significativi del passato, quelli che, in positivo o in negativo, hanno concorso a produrre il presente e che continuano ad agire ancora oggi, come riserva di valori e significati alla quale attingere per dare più solido fondamento e continuità alla convivenza democratica e alle istituzioni in cui essa si traduce. Sono queste le premesse che hanno condotto all’istituzione della Giornata della memoria, celebrata in diversi Paesi e introdotta in Italia con la legge 20 luglio 2000, n. 211. In forza di tale legge, da sedici anni, il 27 gennaio, anniversario dell’entrata delle truppe sovietiche nel campo di Auschwitz, vengono ricordate le vittime della Shoah (sterminio del popolo ebraico), e insieme ad esse “le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”: un monito, peraltro non sempre pienamente ascoltato, a ricordare non soltanto le vittime, ma anche a sollevare il velo di oblio, spesso giustificato con la consolatoria autorappresentazione di una naturale mitezza dell’indole italiana, che però non può coprire la realtà dell’attiva collaborazione o della connivenza prestata proprio prima e dopo l’8 settembre 1943, alla persecuzione dei propri concittadini di religione ebraica.
La legislazione sulla memoria della Shoah e l’invito a ricordare che con essa le istituzioni rivolgono alla società, costituisce anche un richiamo all’esigenza di ribadire un fermo ripudio di ogni forma di negazionismo, inteso come l’insieme delle posizioni volte a sostenere che il genocidio perpetrato dalla Germania nazista nei confronti di ebrei, zingari e altri gruppi considerati “subumani” non sia mai stato attuato e che sia frutto di menzogne e inganni: si tratta di un veleno periodicamente rimesso in circolo da pseudo storici, e al quale alcuni Paesi hanno ritenuto necessario opporre l’antidoto di una esplicita dichiarazione di antigiuridicità. La strada così intrapresa, radicata in un sentimento diffuso di rigetto collettivo nei confronti di tale fenomeno, si è quindi tradotta, in alcuni Paesi (Francia, Germania, Belgio, Spagna, Portogallo, Svizzera) in un una serie di misure legislative che, nel contesto della condanna espressa dalle istituzioni sovranazionali ed europee, hanno devoluto al giudice penale il compito di reprimere le manifestazioni pubbliche del negazionismo.
Questa scelta ha tuttavia, come è noto, suscitato forti perplessità, in particolare nella comunità degli studiosi, preoccupati di scongiurare il rischio che procedimenti e condanne penali potessero conferire visibilità e propagandare involontariamente teorie fondate su menzogne e distorsioni, ma pur sempre suscettibili di alimentare forme di razzismo e xenofobia sempre latenti, nonché di mantenere la condanna di tali aberranti teorie nell’ambito del dibattito della comunità degli studiosi, la cui indipendenza e obiettività potrebbe risultare condizionata qualora, anche con le migliori intenzioni, l’autorità pubblica intervenisse a sancire per legge una propria verità storica, distinta dalle altre e collocata in una posizione di supremazia in forza del riconoscimento istituzionale.
Si tratta di un tema estremamente complesso, poiché la giuridificazione della storia presenta indubbiamente delle ambiguità: la questione si è posta negli ultimi anni con particolare urgenza e attualità, in quanto la cesura costituita dalla caduta del Muro di Berlino ha reso evidenti le lesioni dell’edificio memoriale costituitosi immediatamente dopo la Seconda Guerra mondiale attorno alla condanna dei regimi fascisti e delle ideologie belliciste e razziste che avevano gettato l’Europa e il mondo nel lutto e nella rovina. Negli anni della Guerra fredda tale narrazione comune si è indubbiamente articolata in diverse declinazioni, a seconda della collocazione di ciascuno Stato in uno dei blocchi contrapposti, e in numerose realtà, con l’allontanarsi nel tempo degli eventi che l’avevano suscitata, si è progressivamente irrigidita in una ritualità retorica e ripetitiva.
Crollati i regimi comunisti dell’Est europeo, le varie narrazioni memoriali unilateralmente costruite dai regimi comunisti in Unione Sovietica e nei Paesi satelliti negli anni del dopoguerra si sono rapidamente disgregate, dando vita in molti casi a tentativi di rifondazione identitaria attorno a forme di nazionalismo esasperato e xenofobo, a sostegno di separatismi e irredentismi che hanno mostrato il volto più tragico e imprevisto nelle guerre tra le ex repubbliche jugoslave nella prima metà degli anni ’90 del secolo scorso. In Occidente, invece, la lunga crisi dello Stato nazionale, anche nella sua veste di produttore di memoria collettiva, alimentata dalla spinta crescente divaricazione tra istituzioni e società prodotta dall’affermazione dell’ideologia neoliberista, ha portato a una progressiva decostruzione delle politiche pubbliche della memoria in favore di narrazioni frammentate e settoriali, nelle quali largo spazio è stato dato alla dimensione della memoria individuale o collettiva e delle forti emozioni connesse ad eventi e fatti traumatici nella vita e nella memoria di ciascun paese, sostenuta da una pervasiva e spesso interessata iniziativa dei media, a partire dalla televisione.
L’esperienza italiana presenta inoltre peculiarità non trascurabili, dato che alla dissoluzione del sistema bipolare si è sovrapposta, con Tangentopoli, la fine delle famiglie politiche identificate a partire dagli anni 60 nell’“arco costituzionale” e l’affermazione di una cosiddetta Seconda Repubblica, le cui principali componenti hanno iniziato a coltivare una rappresentazione del passato ben diversa da quella che si era affermata negli anni precedenti. A destra dello schieramento politico, le formazioni sorte nel corso della crisi degli anni 90, da Forza Italia, alla Lega Nord ad Alleanza Nazionale, sono state accomunate da una forte tensione revisionista dispiegata, sia a livello della ricerca storica, sia, soprattutto, attraverso la divulgazione mediatica, al fine di liquidare il paradigma antifascista, ovvero la narrazione pubblica della nascita della democrazia repubblicana dall’opposizione al regime mussoliniano e dalla Resistenza; occorreva, soprattutto, abbandonare le contrapposizioni di valori e finalità, presentate come retaggio del passato “ideologismo”, e presentare gli eventi del triennio 1943-45 come un mero confronto armato tra due minoranze contrapposte, portatrici di valori e motivazioni sostanzialmente comparabili, svoltosi nell’indifferenza della maggior parte della popolazione, rappresentata (in primo luogo da storici autorevoli come Renzo De Felice) come una compatta “zona grigia” preoccupata soltanto di assicurare la propria sopravvivenza materiale in un Paese devastato dalla guerra. Questa lettura, messa a punto nella prima metà degli anni 90 e debolmente contrastata a sinistra, dove anzi non mancò di incontrare una qualche acquiescenza, ha trovato per molto tempo ampia cittadinanza in seno alle istituzioni, con la sola rilevante eccezione dei Presidenti della Repubblica, che, declinando ciascuno secondo la propria sensibilità, ma in modo sostanzialmente omogeneo, la funzione di rappresentanza dell’unità nazionale loro assegnata dalla Costituzione, con i loro interventi hanno efficacemente contrastato in più occasioni le tendenze a un oblio di comodo o alla voluta deformazione della storia recente.
In questo contesto sommariamente delineato, si sono inserite anche molte delle iniziative legislative che si sono succedute dopo il varo della legge istitutiva della Giornata della memoria. Queste proposte hanno tuttavia subito alcune modificazioni, nell’impostazione e nelle finalità perseguite, che vale la pena sottolineare. Mentre infatti, con la legge n. 211 del 2000, le istituzioni hanno inteso utilizzare lo strumento della norma giuridica per esortare i cittadini a ricordare eventi che hanno segnato il recente passato e che costituiscono una monito costante ad una vigilanza collettiva che scongiuri il rischio che essi possano riproporsi, molte delle iniziativa legislative presentate successivamente alle Camere nel corso delle ultime legislature si sono caratterizzate per fini e per contenuti differenti.
In gran parte di esse, a partire dalla “Giornata del ricordo” istituita con la legge 30 marzo 2004, n. 92, si è espressa la contraddizione tra un legame assai discontinuo e labile con il passato che caratterizza gran parte delle forze politiche, e l’intento di utilizzare il canale legislativo non soltanto come invito a ricordare, ma anche come strumento per prescrivere in modo quanto più possibile tassativo che cosa deve essere ricordato e con quali contenuti e modalità. In un saggio del 2011 lo storico Giovanni De Luna ha sottolineato come il progressivo ritrarsi dello Stato dall’impegno di costruire una memoria collettiva e condivisa abbia favorito la tendenza a produrre narrazioni parziali e frammentarie della storia più o meno recente, polarizzate attorno ad eventi suscettibili di produrre grandi emozioni collettive; di qui, quello che lo stesso De Luna ha definito il “paradigma vittimario”, ovvero la priorità attribuita alla celebrazione di coloro che hanno perso la vita, ovvero hanno subito persecuzioni, perdite o altri eventi traumatici in circostanze rappresentative di momenti essenziali della vita collettiva. Ora, se è vero che il ricordo di chi ha sofferto per vicende collettive di grande impatto non può non costituire una parte rilevante della memoria pubblica (si pensi, ad esempio, alle vittime del terrorismo o della criminalità organizzata), è altrettanto vero che alcune iniziative legislative hanno assunto, in modo abbastanza scoperto, il carattere di veri e propri atti di appropriazione della narrazione di eventi particolarmente drammatici, da utilizzare come strumenti di legittimazione della propria presenza sullo scenario politico e di delegittimazione degli avversari. La creazione di una memoria frammentata e ripartita a seconda delle appartenenze e delle circostanze, non può fare altro che alimentare una rissosità faziosa, orientata in una direzione diametralmente opposta agli effetti di ricomposizione e pacificazione dei conflitti pregressi, che possono derivare soltanto da una ricerca storica non subordinata a esigenze immediatamente politiche.
Senza dunque sottovalutare il ruolo essenziale che i sentimenti e le emozioni possono svolgere nei processi di costruzione pubblica di una memoria collettiva, è innegabile che molte delle iniziative legislative intraprese tendono a piegare questi ultimi ad esigenze di parte, stabilendo, come fu ad esempio nelle intenzioni dei promotori della legge istitutiva della “Giornata del ricordo”, una sorta di gerarchie tra le vittime, in funzione di vantaggi politici di breve o brevissimo termine. Uno dei corollari più evidenti di questo approccio, è costituito dal corto circuito che si viene a determinare inevitabilmente tra la memoria e storia, tra il ricordo inevitabilmente parziale e spesso impreciso, dei singoli testimoni, chiamati a narrare nel presente ciò che appartiene a un passato spesso remoto (è il caso dei testimoni della Shoah) e la ricostruzione a più ampio raggio degli eventi, rispetto ai quali la narrazione del testimone si pone come una delle fonti da interrogare e da integrare. In questo senso, il mestiere dello storico – come ha ricordato lo studioso francese Pierre Laborie – è anche quello di “guastafeste della memoria” chiamato a ricomporre “lo scarto tra la certezza dell’esperienza vissuta e gli interrogativi critici che derivano da altre fonti sul modo in cui si è svolto il passato”.
Il trascorrere del tempo e il succedersi delle generazioni pongono con urgenza l’interrogativo sui modi della comunicazione della memoria, e più in generale sulla necessità di porre rimedio al rischio di oblio implicito nell’eterno presente in cui sembra sprofondare la nostra società; in questo ambito, la legislazione, come qualsiasi altra iniziativa intrapresa a livello istituzionale, può fornire risposte importanti, laddove, mantenendosi entro un perimetro rispettoso dei compiti e delle prerogative della comunità degli studiosi, operi nel senso di ripristinare un impegno pubblico all’elaborazione di una riflessione comune sul passato, volta anche a superare l’alveo circoscritto della dimensione nazionale, e soprattutto idonea a colmare il distacco che si è venuto a creare con la società civile e a restituire a un sentimento da tempo affievolito di cittadinanza democratica, i valori, i contenuti e i simboli che gli sono propri.
Pubblicato lunedì 16 Gennaio 2017
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/giornata-della-memoria-riflessioni-in-margine/