In apnea in una situazione mai vissuta prima, in cui scenari antichi di epidemie si mescolano con l’iperconnessione a cui siamo saldamente aggrappati, si fa largo un nuovo modo di sentire la Resistenza. Ora più che mai sembra che la lotta consista nell’insistere nei dettagli della quotidianità per percepirsi presenti nel mondo, esistenti e resistenti. E allora perché, in questo esercizio quotidiano, non provare a individuare proprio nella Resistenza un codice per decifrare questo periodo imbevuto di dolore e assurdità?
Recuperare il significato di Resistenza in tutte le sue possibili declinazioni, oggi, significa immaginare, sì, uno scenario stravolto e scosso dalle sue fondamenta, un nuovo futuro – sempre più prossimo – in cui, probabilmente, non andrà tutto poi così bene ma, allo stesso tempo, anche il paradigma di un nuovo inizio, il germe di una rinascita necessaria e urgente.
Un percorso irto e scosceso, come di passo montano, in cui tutta l’umanità dovrà inerpicarsi: e sarà tristemente facile franare su ricorsive cacce alle streghe e ossessive ricerche di capri espiatori. Abbandonarsi mollemente a uno scenario dissestato, in cui sono stati sradicati con tenacia riti e istituzioni sociali, però, non potrà essere la risposta. Anche se non ci sarà garantito il giusto equipaggiamento, sarà prioritario andare oltre e costruire, da radici solide, il nuovo.
E sarà più “accogliente” prendere spunto da dolori antichi per far germogliare le prossime speranze. La cultura, in questo, non può che esserci di grande aiuto e, innegabilmente, supportata dalla tecnologia, potrà garantire una più efficace e capillare comprensione di dinamiche e fatti, tanto collettivi, quanto privati.
Recuperare le opere di Beppe Fenoglio e Primo Levi, ma anche i piccoli gioielli trasversalmente di Resistenza, come “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino, può accompagnarci per mano alla scoperta di una realtà inedita e alla forza intrinseca che risiede nelle pagine e negli individui.
Ma non è solo la grande letteratura ad aver contribuito a una narrazione collettiva della Resistenza: forme di paraletteratura che hanno indagato il tema se ne sono avute a partire dagli anni Cinquanta, con Il Pioniere, periodico a fumetti per ragazzi edito dal Pci, che iniziava a raccontare l’epopea partigiana, anche se in modo piuttosto didattico. Tuttavia, tolti rari esempi in controtendenza, bisogna sottolineare che la stampa di periodici per ragazzi si delineava di matrice fortemente cattolica, dunque, più incline a raccontare la Resistenza come un aspetto secondario in un più ampio panorama di liberazione.
Grazie anche ai cambiamenti culturali che videro, con il graphic novel, la progressiva nascita di una narrazione fumettistica organica e, dunque, più dignitosa e matura, negli anni Novanta si iniziò a recuperare il racconto storico partigiano, anche in contesti editoriali più cattolici come il Giornalino.
Quest’ultimo, infatti, proprio nel 1995, pubblicò la serie “Storie di Resistenza” di Renzo Calegari, in cui si raccontavano vicende piccole e taciute, senza mai discostarsi dall’attendibilità storica ma, anzi, riportando di frequente titoli dei giornali e manifesti dell’epoca.
Tra gli autori che si sono dedicati al racconto di guerra e, di conseguenza, alla narrazione della Resistenza, c’è Hugo Pratt che, con i suoi personaggi di Ernie Pike e Koinsky, cronista di guerra il primo e capitano polacco il secondo, racconta anche vicende sofferte, avvenute sul plumbeo sfondo del nazifascismo.
Sempre nell’ambito fumettistico, un’opera tra le più recenti ed emblematiche è “I solchi del destino” di Paco Roca, pubblicato nel 2013, che narra la Resistenza nell’accezione più ecumenica e transnazionale, partendo dalle vicende del battaglione spagnolo “Nueve” per superare i confini della Spagna e ribadire l’imprescindibile valenza documentale del racconto e di chi la storia l’ha vissuta e l’ha intessuta direttamente: proprio ciò che sta accadendo hic et nunc.
L’incredibile eredità politica e umana che la Resistenza ci ha lasciato può amplificarsi e riverberarsi anche attraverso media inediti, apparentemente dissonanti, ma che creano un dialogo diretto con le nuove generazioni, come i videogiochi. Infatti, con un sistema di racconto basato sull’interazione e su una grafica delicata come un cristallo di neve, “Venti mesi” non “gioca” a fare la Resistenza ma, com’è tipico della struttura immersiva dell’ambito videoludico, cala il giocatore nel contesto, trasferendo precise emozioni mai casuali, ma frutto di un transfer avviato attraverso storia e informazioni attendibili. “Venti mesi”, infatti, è quasi un racconto interattivo, per via della sua componente formativa e informativa molto consistente. Creato per il 70esimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo e realizzato da una coppia indipendente di game designer italiani – Claudia Molinari e Matteo Pozzi –, “Venti mesi” racconta il periodo intercorso tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945 avvalendosi di una narrazione vera, concreta, che racconta di ossa e carne e voci che hanno realmente attraversato quei giorni di dolore e rinascita.
Allo stesso modo, è basato sul recupero minuzioso di storie della Resistenza (romana, questa volta) l’album “Storytellers” del sassofonista Simone Alessandrini che, con un’opera jazz dal cuore molto “folk”, ripercorre strenue vicende rimaste inascoltate o quasi di opposizione al nazifascismo nella Capitale.
Parlando di musica, non si può non considerare “Breviario Partigiano”, nato dai veterani della scena rock italiana per diventare una narrazione cross-mediale, tra letteratura civile, immagine e, naturalmente, musica. In sostanza, un’opera documentaria che abbraccia la storia per porsi domande sulla percezione della Resistenza, oggi, e sull’invasione della retorica nel racconto di un periodo così determinante per la storia dell’Italia repubblicana.
Quindi, partire dalla Resistenza per seguirne i passi significa leggere il palmo della mano dell’umanità, e sapere che imbracciare le armi e partecipare è l’unico spiraglio di salvezza. Le armi sono quelle della cultura e dell’avidità di sapere che remano tenacemente contro una disinformazione pandemica tanto quanto il virus. Recuperare valori, parole e dolori di chi ci ha preceduto aiuterà a percepire una collettività, un archivio di condivisione che travalica il tempo.
E la partecipazione, invece, che al momento ci è impossibile secondo i criteri prepandemici, senza dubbio potrà incanalarsi nei social che, giorno dopo giorno, diventano un grimaldello potentissimo per scardinare gli abissi interni che la quarantena scava dentro e aderire alle iniziative online per sentirsi vicini davvero. Ma c’è – ci sarà – un’altra valenza della partecipazione, che forse vedremo quando tutto (o quasi) sarà concluso: il valore della testimonianza. Esserci ed esserci stati, presenti, vigili e dotati di spirito critico, consapevoli che, sì, questa è una situazione di proporzioni inimmaginabili e senza precedenti, ma che è necessario conoscere per capire, e capire per raccontare, in una nuova rete che annoderà esperienze, parole e legami, quando tutto questo e «il più crudele dei mesi» sarà ormai alle nostre spalle.
Letizia Annamaria Dabramo
Pubblicato venerdì 24 Aprile 2020
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