Per uno che è nato decenni dopo un evento storico significativo, uno della generazione Z, per esempio, oppure un millennial, non è mica facile capire l’importanza di quel fatto, comprendere i risvolti sociali, politici ed economici che quell’evento ha provocato. Ma immagino che sia così per tutti gli episodi storici significativi. Quelli accadono, e quando accadono sono solo fatti, sono semplicemente il presente, la gente li vive e basta. Poi però il tempo passa, si tirano delle somme, perché si tirano sempre delle somme, anche nella storia, e viene fuori che ci sono un sacco di cose da raccontare di quel presente che era solo presente. Ed è sicuramente meglio che a raccontarle siano persone che l’hanno vissuto quel presente “solo presente”. Perché è vero che la memoria è fallace, eccetera, ma vuoi mettere ascoltare la storia di uno che l’ha vissuta quella storia, rispetto a uno che l’ha sentita da qualche parte e che te la riporta?
Per questo vado da Mario Bonifacio, vado proprio a casa sua, in una via di cui non si dice il nome, che è una laterale di un’altra strada di cui non si dice il nome. Mario Bonifacio è un uomo nato nel millenovecentoventotto, quindi deve avere più o meno novantacinque anni. Si vede, ma non si vede per niente. Si vede per via del bastone, per via di quei capelli candidi, dei timpani difettosi, le rughe e tutto il resto; non si vede per via di quegli occhi azzurri, senza un velo di cataratta, azzurri e basta, e per quello che dice, e come lo dice, e la quantità di cose che dice, e la qualità. Ci accomodiamo accanto a una scrivania della sua taverna. Gli chiedo dell’otto settembre e lui mi dice che l’otto settembre millenovecentoquarantatré c’era, era un adolescente. E che quell’otto settembre millenovecentoquarantatré era a Pirano d’Istria, dove d’altronde era anche nato, e c’era un grande clima d’attesa quel giorno, e anche i giorni precedenti.
Era dal venticinque luglio che c’era un clima d’attesa, a dire la verità, da quando Badoglio aveva detto che la guerra sarebbe continuata. Il clima d’attesa c’era perché tutti avevano capito che la guerra non era cosa da fare, che non c’erano le risorse, che l’Italia era allo stremo, lo sapevano proprio tutti, anche Mario Bonifacio. Quello che non sapevano era che l’Italia stava già preparando le trattative segrete per l’armistizio, ed era anche abbastanza ovvio che non lo sapessero, erano segrete, per l’appunto. Solo che invece qualcuno lo sapeva, e quel qualcuno erano i tedeschi. “I tedeschi che erano già in Italia, avevano già capito tutto. La nostra aviazione era ormai inesistente, gli alleati risalivano la penisola, bombardavano quello che volevano: ponti, strade, ferrovie, fabbriche e città, c’era stato il primo bombardamento di Roma. I tedeschi sapevano benissimo che dovevamo toglierci dalla guerra, ed erano già pronti per l’aggressione all’Italia molto prima dell’armistizio”.
Ma dato che gli italiani, compreso Mario Bonifacio, non sapevano nulla dell’armistizio segreto, quando l’armistizio era stato annunciato pubblicamente, e quindi non era più segreto, tanti di questi italiani, compreso Mario, avevano esultato. Eccome se avevano esultato. La pace era il loro pallino fisso, basta privazioni, basta lutti, evviva la pace. Quasi tutti avevano festeggiato, a parte qualcuno, qualche Cassandra, che aveva detto cose tipo “può darsi che ora cominci il peggio”. Saggezza popolare, sesto senso, chissà, fatto sta che queste Cassandre avevano ragione. Nemmeno il tempo di festeggiare.
“Siamo andati a dormire contenti e ci siamo svegliati con il rumore delle cannonate. Era Trieste. Il mio paese era praticamente di fronte a Trieste. Sentivamo le cannonate come se fossero in giardino. Abbiamo scoperto solo dopo che una nave era stata affondata. Stava cercando di uscire dal porto, in obbedienza a un ordine della Marina, che diceva di concentrarsi a Malta. In quella nave sono morti una sessantina di giovani marinai italiani. Che delusione. Un’enorme delusione, proprio un risveglio amaro. È stato proprio come nella canzone Bella Ciao: una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor. I tedeschi erano così preparati che nella notte tra l’otto e il nove settembre avevano già occupato Trieste”.
A questo punto chiedo a Mario Bonifacio com’è che, dopo l’armistizio, è diventato un partigiano. Il Mario dell’otto settembre millenovecentoquarantatré era un Mario sedicenne, la domanda sembra sensata, almeno a me, che ne ho più di trenta, e di identità politica ne ho poca, quasi niente. Mario non sente la mia domanda. Mi si avvicina, tenendo la mano a scodella in modo da circondare per bene il padiglione auricolare. Non dice niente, mi si avvicina solo con la mano a scodella in modo da circondare per bene il padiglione auricolare. Ripeto la domanda, gli chiedo com’è che dopo l’armistizio è diventato un partigiano, e aggiungo anche un “come ha sviluppato una sua identità politica in così giovane età, Mario?”. E lui toglie la mano dall’orecchio. “Io ero già abbastanza coinvolto da prima dell’armistizio. Tutto merito di Italo Terrazzer”. Italo Terrazzer era un ragazzo del paese di Mario che non aveva fatto il militare perché durante il servizio di naja aveva contratto la tubercolosi renale; un operaio gentile, super acculturato che militava già da nove anni nelle cellule clandestine comuniste, uno che lavorava nella biblioteca civica, uno che aveva fatto leggere a Mario la filosofia americana, e il manifesto di Marx ed Engels. E penso subito che Mario è stato davvero fortunato. Io non ho mai avuto un Italo Terrazzer nella mia vita.
“Di quel periodo ricordo anche i primi articoli che si leggevano sulla stampa. Ne ricordo uno su Il Tempo (che era una rivista illustrata) di Ernesto Nathan Rogers, architetto che dava un’idea di architettura completamente diversa da quella che ci avevano insegnato durante il fascismo, che parlava del ruolo fondamentale dell’architettura in campo sociale, delle possibilità che potevamo avere per una vita migliore, diversa. Ricordo articoli di quel tipo lì, cose che prima non avevamo mai avuto la possibilità di sentire. Noi non avevamo mai sentito voci differenti, avevamo visto solo il fascismo, che voleva dire preparazione alla guerra”.
Mario Bonifacio ha iniziato la prima elementare nel millenovecentotrentaquattro, una prima elementare fascista, dove si insegnava che gli italiani erano i più forti, i più bravi, i più preparati. Un bluff in pratica. Solo che a quel tempo non lo sapevano mica. Nel millenovecentotrentaquattro non sapevano nulla. Hanno dovuto aspettare sei anni, il millenovecentoquaranta, per avere i primi sospetti. Per via della caduta contro la Grecia. Poi c’era stata anche la Jugoslavia. E la dichiarazione di guerra all’America. Esatto, contro l’America, nel millenovecentoquarantuno. Contro l’America. Che qualunque marittimo di Pirano che ci fosse stato, in America, lo sapeva che non era mica possibile fare la guerra all’America. L’Italia, un paese agricolo, contro l’America? Per non parlare della Russia. Sicché, nel settembre millenovecentoquarantatré, finalmente “quelli educati nella scuola fascista cominciano a comprendere che il fascismo è stato un bluff, che quello che ci avevano insegnato, noi siamo i più forti, i più bravi, i più preparati, non era vero”.
A questo punto devo chiedere a Mario quali sono stati gli interventi della società civile a supporto dell’esercito italiano. Lo dico forte, ad alta voce, guardando quegli occhi azzurro-e-basta. Funziona. “Subito dopo l’otto settembre, i soldati italiani vennero a piedi dalla Croazia, attraversando l’Istria, dove c’erano già gli insorti in favore di Tito. Vennero aiutati anche dalla popolazione civile, rifocillati e via dicendo. E attraverso l’Istria vennero sulla costa, da noi. Di notte i nostri pescatori li portavano sulla costa veneta (Caorle, Grado) in modo che non dovessero passare per Trieste, perché Trieste era già occupata dai tedeschi e se li avessero presi, li avrebbero portati in Germania. Qualcuno sostiene che furono oltre ventimila quelli che passarono per il mio paese. Io me ne ricordo tantissimi e tutti aiutati e sfamati dalla popolazione civile”. Purtroppo, non tutti sono potuti tornare. Quelli in Croazia, nel Montenegro, in Albania, in Grecia non hanno avuto questa possibilità. La strada era troppo lunga. Da Mario, a Pirano e nei paesi vicini, tornavano quelli che al massimo erano nella Croazia del Nord. Quelli più lontani no. Quindi alcuni ce l’hanno fatta e altri invece non ce l’hanno fatta.
Il fratello di Mario ce l’aveva fatta, per esempio, perché era partito dalla parte opposta, da Frascati. Ci aveva messo ventidue giorni il fratello di Mario, aiutato e sfamato dalla popolazione civile, vestito dalla popolazione civile, dalle mamme, che aiutavano questi ragazzi come fossero loro figli, sperando che altre mamme si sarebbero prese cura dei loro figli, di quelli veri. I muri urlavano “non aiutate i militari”, e le mamme invece disobbedivano. Facevano già la Resistenza. “Anche io ne ho ospitato uno di soldato, uno che ha lasciato la sua pistola e che ha dormito da me. Mio fratello era a fare il militare a Frascati, perciò c’era posto per lui. È venuto mesi dopo a recuperare la pistola. Io, non conoscendo da che parte stava, gli dissi che l’avevo buttata in acqua, anche se non era vero. Ho tentato di rintracciarlo, tanti anni dopo, ma nessuno conosceva quel Giacomin lì”.
Già, il dopoguerra. Penso sia il caso di chiedere a Mario del perché tutti, a quel tempo, avessero preferito appoggiarsi agli apparati fascisti, per l’amministrazione del dopo Liberazione. Cioè, tutti quei fascisti che erano stati la rovina dell’Italia, ancora al potere? Non c’era altro modo? Bisognava proprio accettare lo status quo? Ovviamente, non è che esista una risposta giusta. Che il fascismo sia sopravvissuto negli organi decisionali di quel tempo, e che questo abbia una correlazione con l’oggi, sembra chiaro. Lo Stato allora è andato avanti come prima. Stessa magistratura di prima. Stessi giudici. Stessi docenti. Nessuna epurazione. In nome della continuità dello Stato, che indubbiamente avrebbe costituito un fattore di accelerazione della ricostruzione del nostro Paese, per carità; sicuramente, il nostro era un Paese a pezzi, distrutto ma, in nome di tutto questo, ci siamo tenuti i fascisti.
«Noi abbiamo sempre ricordato l’otto settembre come El rebaltòn, perché per noi era caduto tutto lo Stato. Ma c’è da dire che nel Sud lo Stato è rimasto integro. I ministeri, dopo la Liberazione, sono tornati a funzionare come prima. Dopo la Liberazione, lo Stato si è riformato, sono tornati i carabinieri, l’esercito si è ripopolato con i generali di prima. Si diceva che l’Italia dopo l’otto settembre non avrebbe più dovuto avere un esercito, vista la brutta figura che avevano fatto i generali. I generali avevano lasciato ai tedeschi campo libero per arrestare i nostri soldati, non avevano fatto niente per resistere. Alcuni avevano fatto la loro parte, a Cefalonia, in Corsica, ma non erano state eccezioni che avevano confermato la regola. Si diceva che l’Italia dopo l’otto settembre non avrebbe più dovuto avere un esercito. E invece. Ma d’altronde, da noi, i generali erano per la gran parte fascisti. E dai fascisti non ci si poteva aspettare nulla di buono».
L’intervista è quasi finita. Mario Bonifacio mi offre dei wafer. Sono lì che mi sbuffano il loro profumo di nocciola da quasi un’ora. Sono in una terrina da frutta, sciolti. Non posso rifiutare. Non rifiuto. Mario mi guarda. È compiaciuto. Non sembra stanco, ma ora mi aspetta una parte difficile. Devo leggere il pezzo di un brano di Ercole Ongaro, una cosa scritta proprio bene. Lo faccio e basta. L’essenza della Resistenza è il suo essere una rivolta civile, morale e politica non un fenomeno militare. L’uso delle armi dopo l’8 settembre ’43 fu strumentale, non fondativo, fu contingente, non essenziale, legato cioè al preciso momento storico, con una guerra in atto. Affermare il valore della Resistenza non armata, anche quello, ci permette di portare in primo piano il protagonismo della popolazione che fu sorprendente, imprevedibile, straordinario. Ciò che prima era considerato subalterno rispetto al ruolo delle formazioni partigiane ne acquisisce un valore in sé, un significato più profondo. Quindi anche gesti compiuti da persone comuni disobbedendo a leggi, ordinanze dei poteri nazifascisti hanno in sé un potenziale di rivolta, di contestazione dell’autorità costituita, di difesa del senso del vivere dal valore immenso. Questa è l’essenza della Resistenza. La Resistenza è anzitutto l’ascolto della propria coscienza, la scelta di restare umani in un tempo di imbarbarimento.
A Mario piace. Piace ancora di più che vedermi mangiare quei suoi wafer sciolti sulla terrina da frutta. “Condivido largamente questa impostazione. In effetti fu così. La nostra era prima di tutto una rivolta morale. E infatti c’è stato più di qualcuno che, pur convinto della necessità di prendere le armi, di dare anche questo contributo di forza, si rifiutò di farlo. Per esempio, Toni Adami che fu l’organizzatore della Brigata Mazzini, operante nella zona di Valdobbiadene. Lui era l’organizzatore della Brigata ma non toccò mai un’arma. Non se la sentiva. C’è stato anche questo nella Resistenza. Naturalmente questa coscienza apparteneva alle persone più mature, non tanto ai giovani”. La cosa mi colpisce. La sapevo già la storia della non violenza, di quelli che non usavano le armi. Ma Mario Bonifacio nel millenovecentoquarantatré aveva sedici anni, e detta da lui la storia della non violenza, da uno che nel millenovecentoquarantatré leggeva Marx ed Engels, e che c’era, mi fa tutto un altro effetto. Ovviamente tutto ciò era possibile grazie all’appoggio della popolazione, al consenso della popolazione. I fascisti potevano anche avere tutto, il vitto, l’alloggio, le caserme, i camion, le munizioni, ma non avevano l’appoggio della popolazione. E d’altronde senza l’aiuto della gente, un movimento di Resistenza non può mica esistere. Neppure nascere. Il movimento di Resistenza vive dell’aiuto della maggioranza della gente.
Ultima domanda. Dico a Mario Bonifacio che è l’ultima domanda e che questi wafer mi rovineranno la cena. Lui sorride, vago. Non mi sente. Bene. Ultima domanda, gli dico. Più forte. Ometto la cosa dei wafer. Gli chiedo della possibilità di ragionare a livello politico sulle alternative alla guerra, predisponendo – in tempi di pace i mezzi e le condizioni per realizzarle. Se la Resistenza civile si è fatta strada in tanti conflitti, in situazioni di invasione e oppressione (anche in Ucraina, per esempio), spesso anche in modo spontaneo e privo di guida, non è forse il caso di ragionare a livello politico sulle alternative alla guerra? In realtà, questo ragionamento era già stato fatto, questa cosa dell’alternativa alla guerra. Con L’Onu. L’Onu è nata per salvare le nuove generazioni dalla guerra. E all’inizio ce l’aveva anche fatta. C’erano quei due presidenti scandinavi, molto bravi, molto attivi, molto pacifici. Poi però era arrivata la Nato, il gendarme del mondo; ma tant’è. “Adesso si dovrebbe puntare a una rifondazione dell’Onu, al ritorno dell’Onu ai suoi compiti originari, che sono quelli di preservazione della pace e di attuazione del disarmo universale. Quest’anno abbiamo già superato ampiamente i duemila miliardi di spese per gli armamenti. Questi potrebbero essere soldi da spendere non solo per aiutare le società più arretrate, ma anche per supportare la difesa dell’ambiente. Con la guerra in Ucraina, l’Europa ha aumentato gli stanziamenti per gli armamenti. Una delle conseguenze maggiormente negative della disgraziata guerra di Putin è proprio questa: l’aver provocato il riarmo del resto del mondo”.
La guerra in Ucraina non è comunque paragonabile alla Resistenza secondo Mario Bonifacio. Qui abbiamo due nazionalismi. Un aggressore e un aggredito, ma pur sempre due nazionalismi. E la Resistenza non era di certo pro-nazionalismo. La Resistenza lo combatteva, il nazionalismo. “La soluzione sarebbe attuare un disarmo immediato, una tregua controllata internazionalmente che metta fine alla guerra. Iniziare serie discussioni diplomatiche per arrivare a una pace. Io mi sento molto vicino sia ai disertori ucraini (e ce ne sono parecchi) ma soprattutto ai disertori russi. Mio padre è stato disertore nella Prima guerra mondiale, per cui capisco e conosco le sue ragioni e le sue motivazioni. Una mia conoscente finlandese mi diceva che in Finlandia ci sono circa centotrentamila disertori russi rifugiati lì. Loro, secondo me, sono una promessa per il futuro della democrazia russa”.
E, in effetti, ci sono tutti questi ragazzi che si rifiutano di ammazzare i loro fratelli. Ci credo che Mario Bonifacio ha fiducia in loro, e anche nelle migliaia di pacifisti arrestati in Russia. Ci credo proprio. Mi alzo. Mario Bonifacio mi mostra la foto di un bambino con una barca alle spalle. Non capisco bene il nome di quella barca, e d’altronde non ci capisco niente di barche. Il bambino, comunque, non è un Mario bambino, è solo un bambino. Mario mi accompagna alla porta. Lo ringrazio tantissimo. Mi dice di aspettare. Urla “Ioia”, dice proprio così, Ioia. Niente. Chiama ancora. Scende una signora molto elegante, semplice, che poi è una delle più grandi forme di eleganza, la semplicità, secondo me. Mi porge un sacchetto pieno di verdure, dice che sono verdure bio, verdure del loro orto, suo e di Mario. Non posso rifiutare. Non rifiuto.
Enrico Trevisiol
Pubblicato mercoledì 13 Settembre 2023
Stampato il 22/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/el-rebalton-l8-settembre-del-partigiano-mario/