La politica si nutre di scadenze: conclusa la partita referendaria, ora l’attenzione di tutti gli osservatori si rivolge al 24 gennaio del prossimo anno, quando la Corte costituzionale si riunirà per esaminare i rilievi di incostituzionalità sollevati nei confronti della legge elettorale per la Camera, più nota come Italicum. La pronuncia della Corte avrà certamente un ruolo di rilievo nella ridefinizione, ormai ineludibile, delle regole per l’elezione di entrambi i rami del Parlamento, ma al tempo stesso, nel contesto post referendario, richiama anche l’attenzione sull’importanza delle funzioni di garanzia, che la riforma costituzionale bocciata il 4 dicembre tendeva, nel suo complesso, a ridimensionare, in nome di un decisionismo insofferente verso qualsiasi forma di limitazione, anche se contemplata dall’ordinamento. È appena il caso di ricordare, in proposito, la piccata reazione del Presidente del Consiglio allora in carica di fronte alla pronuncia di incostituzionalità di una parte consistente della riforma della pubblica amministrazione, per comprendere come, in una concezione della governance che appare sempre più trasversale tra i vari schieramenti politici, i circuiti della decisione e delle garanzie vengano considerati come parti in conflitto e non invece, come effettivamente furono concepiti dal legislatore costituente, elementi necessari di un unico sistema, connessi tra loro in una dialettica che non esclude il conflitto, ma ne assicura lo svolgimento fisiologico nel quadro di regole formulate non al fine di ostacolare la decisione politica (come recentemente da più parti si è imprudentemente affermato) ma per assicurarne il regolare svolgimento nel contesto istituzionale entro il quale essa si viene a formare.
La Corte costituzionale, organo difficilmente definibile, collocato, come scriveva Giovanni Leone nella sua relazione per l’Assemblea Costituente, “al di fuori di ciascuno dei tre tradizionali poteri”, si pone al centro di una funzione di garanzia che ha per oggetto il carattere rigido della nostra Costituzione, ossia la sua sovraordinazione alle leggi ordinarie approvate dalle Camere, che pertanto, non possono modificarla né derogarla. La scelta in favore di una costituzione “rigida” segnò una profonda discontinuità rispetto allo Statuto Albertino, che poteva essere modificato anche ampiamente con legge ordinaria, tanto è vero che durante il regime fascista esso rimase formalmente in vigore, ridotto a un simulacro dell’ordinamento liberale orami dissolto.
Il riferimento allo Statuto Albertino, peraltro, non è casuale: il costituzionalismo ottocentesco, che affidava alla legge il compito di assicurare la libertà dei cittadini, ponendola al vertice della gerarchia delle fonti, ignorava il concetto di giustizia costituzionale, che implica una limitazione al potere legislativo, nel presupposto che esso debba comunque esercitarsi entro i limiti posti dalla Costituzione. Gli organi di giustizia costituzionale vennero introdotti in alcune costituzioni europee del primo dopoguerra e si diffusero nel secondo dopoguerra, secondo il modello, teorizzato soprattutto dal giurista austriaco Hans Kelsen, del controllo di costituzionalità centralizzato, cioè affidato ad un unico organismo, distinto dal potere giudiziario. Si trattava di un modello diverso da quello vigente negli Stati Uniti, sin dai tempi della sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti nel caso Marbury v/s Madison (1803), che aveva attribuito a ogni giudice il potere di dichiarare l’incostituzionalità di una disposizione di legge, disapplicandola soltanto in riferimento al caso concreto (cd. controllo diffuso di costituzionalità). La pronuncia di un organo centrale di giustizia costituzionale, invece, ha effetti di carattere generale (erga omnes), che determinano la soppressione della disposizione dichiarata in contrasto con la Costituzione.
Nel nostro ordinamento la Corte costituzionale è disciplinata agli articoli da 134 a 137 del Titolo VI della Seconda parte della Costituzione, dedicato, appunto, alle Garanzie costituzionali. Le sue funzioni sono indicate dall’art. 134, a partire da quella, più nota, ma non unica, di giudicare “sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni”. Tutte le altre funzioni che l’ordinamento assegna alla Consulta (dal nome del palazzo che ospita la Corte) sono coerenti con la sua funzione di garanzia, anche per quanto attiene all’altro compito di giudicare “sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni”, così da assicurare una corretta attuazione del principio della separazione dei poteri e il rispetto delle rispettive competenze. La norma costituzionale muove dal presupposto della maggiore complessità dell’assetto dei poteri delineato dalle costituzioni del dopoguerra, e in particolare dalla Costituzione italiana, considerato anche il ruolo assunto dalle Regioni; essa, inoltre, sottoponendo al diritto le controversie relative all’esercizio delle rispettive funzioni, conferisce al giudizio un’obiettività sconosciuta negli ordinamenti precedenti la Seconda guerra mondiale, nei quali la regolazione dei conflitti di competenza tra i vertici dello Stato veniva affidata a soluzioni di carattere politico, ponendo in alcuni casi a rischio la stabilità e la continuità dell’intero sistema.
Completano il quadro due altre funzioni: il giudizio sulle accuse proposte contro il Presidente della Repubblica e il giudizio di ammissibilità dei quesiti referendari.
Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre ricordare che la materia del giudizio costituzionale penale è stata profondamente modificata dalla legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, che ha rimesso alla giurisdizione della magistratura ordinaria i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni dal Presidente del Consiglio dei ministri e dai Ministri, precedentemente attribuiti alla competenza della Corte costituzionale. Resta a quest’ultima il potere di giudicare sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica per alto tradimento e per attentato alla Costituzione, caso fino ad oggi mai verificatosi, mentre un giudizio sui reati ministeriali si svolse nel 1978-79 (Processo Lockheed). Quando opera come giudice penale, la Corte è integrata nella sua composizione, ai sensi dell’art. 135 Cost., da “16 membri tratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti per l’eleggibilità a senatore che il Parlamento compila ogni nove anni mediante elezione con le stesse modalità stabilite per i giudici ordinari”. Il Regolamento parlamentare per i procedimenti di accusa ha poi fissato in quarantacinque il numero dei componenti di tale lista.
Il giudizio di ammissibilità sui quesiti referendari non è esplicitamente indicato nella Costituzione, bensì all’articolo 2 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, recante appunto “Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte costituzionale”, ed è stata poi definita, nelle modalità di attuazione, dagli articoli 33 e 34 della legge 25 maggio 1970, n. 352. Occorreva in particolare accertare che i quesiti referendari non contrastassero con il divieto costituzionale di sottoporre al voto popolare le leggi tributarie e di bilancio, quelle di amnistia e indulto e quelle di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali; tuttavia la Corte non si è limitata ad accertare l’osservanza di tale norma, ma, in sede interpretativa, ha aggiunto altre fattispecie di inammissibilità, pur non avendo mai perseguito un orientamento restrittivo in questa materia.
Come si è detto, la Corte costituzionale è un organismo difficilmente inquadrabile nella tradizionale tripartizione dei poteri, poiché, pur presentandosi nella forma di un organo giurisdizionale, non può essere del tutto assimilato alla magistratura, né per quello che riguarda le sue funzioni né per i modi di composizione, nei quali la derivazione giurisdizionale si combina con quella politica. La Consulta, recita l’art. 135 Cost., è composta di quindici giudici, che durano in carica per nove anni non rinnovabili, nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative e “scelti tra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di esercizio”. I giudici eleggono nel loro seno il Presidente della Corte, che dura in carica tre anni, rinnovabili.
La legge costituzionale n. 2 del 1967, modificando la disciplina previgente, ha previsto un quorum piuttosto elevato per l’elezione parlamentare dei giudici costituzionali: due terzi dei componenti dell’Assemblea e, per gli scrutini successivi al terzo, tre quinti. In questo modo si è inteso sottrarre al controllo della maggioranza politica l’elezione di giudici, per sottolineare la natura super partes della funzione che sono chiamati a svolgere. Anche la nomina da parte del Presidente della Repubblica si ispira a questi principi, ed essa di regola segue le scelte effettuate dalle magistrature e dal Parlamento, in quanto le si attribuisce anche il compito di armonizzare, ove necessario, le diverse sensibilità politiche e tecniche nell’ambito del collegio, onde assicurarne il necessario pluralismo. Anche per questo motivo, la scelta presidenziale è caratterizzata da un elevato grado di discrezionalità, e in tale senso è stata intesa dal legislatore, che, nei dibattiti su tale materia, ha sempre scartato le proposte miranti a far precedere la decisione del Presidente della Repubblica dalla proposta del Guardasigilli.
La Costituzione ha disposto altresì l’incompatibilità della carica di giudice costituzionale con l’appartenenza a una delle Camere, a un Consiglio regionale, nonché con l’esercizio della professione di avvocato, rinviando alle leggi attuative l’indicazione di altri casi di incompatibilità. La posizione di giudice è altresì assistita da immunità e garanzie analoghe a quelle previste per i parlamentari, in particolare per quanto concerne l’insindacabilità delle posizioni e dei voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni.
La pluralità delle funzioni attribuite alla Corte comporta anche una pluralità dei modi mediante i quali vengono introdotti i diversi procedimenti. Nel corso della discussione all’Assemblea Costituente questo problema si pose soprattutto in relazione ai giudizi di costituzionalità delle leggi: chi poteva adire la Corte? Evidentemente tale prerogativa non poteva essere attribuita a tutti i cittadini, poiché ciò avrebbe prodotto una proliferazione incontrollabile del contenzioso e portato ben presto la Consulta alla paralisi.
L’art. 137 della Costituzione, con una disposizione che non aveva mancato di destare un certo malcontento in seno all’Assemblea Costituente, aveva rinviato a una legge costituzionale il compito di definire “le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale”, nonché “le garanzie d’indipendenza dei giudici della Corte”. La stessa Assemblea, peraltro, provvide a colmare questa incertezza con il varo della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, con la quale, riprendendo formulazioni già elaborate nel corso della discussione sul progetto di Costituzione, definì il sistema di controllo di costituzionalità “incidentale”. Secondo questo sistema, la questione di costituzionalità di una legge o di un atto avente forza di legge può essere sollevata “incidentalmente” nel corso di qualsiasi procedimento giudiziario, dalle parti, dal pubblico ministero o d’ufficio dallo stesso giudice, il quale, avendola ritenuta non manifestamente infondata, la rimette alla Corte costituzionale, con conseguente sospensione del giudizio. Questo procedimento veniva ad affiancarsi al giudizio di costituzionalità in via principale, già regolato dall’art. 127 della Costituzione, che abilita il Governo a promuovere l’azione di legittimità costituzionale davanti alla Corte ove ritenga che una legge regionale sia invasiva della sua sfera di competenza e, specularmente, abilita la Regione a promuovere la medesima azione e per le medesime ragioni nei confronti di una legge della Repubblica (o di altra Regione). Anche il giudizio sui conflitti di attribuzione segue un procedimento per molti aspetti simile a quello in via principale, integrato da un giudizio preliminare di ammissibilità da parte della Corte stessa, e la decisione consiste nell’individuare il potere o il soggetto al quale compete l’esercizio delle attribuzioni contestate, con annullamento degli atti eventualmente adottati, se viziati per incompetenza.
Le sentenze della Corte costituzionale, che delibera di regola in seduta pubblica, non sono impugnabili e, una volta che sia stata dichiarata l’incostituzionalità di una norma di legge, quest’ultima cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (art. 136 Cost.). La dottrina costituzionalista ha molto discusso sia sugli effetti di caducazione delle norme dichiarate incostituzionali sia sulle caratteristiche delle sentenze di accoglimento delle questioni di costituzionalità. Infatti, se in taluni casi la Corte ha dichiarato l’illegittimità della disposizione impugnata, in altri, anche al fine di non creare un vuoto legislativo eccessivo, ha limitato la propria pronuncia di accoglimento a singole disposizioni o parti di esse, con il risultato di riformulare le norme di legge oggetto del giudizio in modo spesso innovativo rispetto alle intenzioni originarie del legislatore; in altri casi ancora, la sentenza stessa ha introdotto elementi di interpretazione tali che, pur non agendo direttamente sulla lettera della disposizione, ne ha però fortemente modificato il significato (c.d. sentenze manipolative e/o additive).
A prescindere da queste considerazioni, che attengono più allo specifico del dibattito degli addetti ai lavori, non si può concludere queste note senza considerare come l’introduzione della Corte Costituzionale, originariamente avversata da alcuni settori della Assemblea Costituente (in particolare dal Pci, diffidente verso una istituzione percepita come un limite indesiderato al pieno dispiegarsi della sovranità popolare attraverso la sua rappresentanza parlamentare), costituì invece uno dei fattori propulsivi più rilevanti per lo sviluppo della nostra democrazia. In una non inusuale inversione delle posizioni, la Democrazia Cristiana, che pure ne aveva sollecitato l’istituzione insieme alle correnti di democrazia laica, una volta al governo ne rallentò l’insediamento, contro l’orientamento dell’opposizione di sinistra, e solo a metà della seconda legislatura, la Corte Costituzionale, sotto la presidenza di Enrico De Nicola, poté avviare la sua attività, con la storica sentenza n. 1 del 5 giugno 1956, nella quale si dichiarava competente a pronunciarsi anche sulla legislazione precedente all’entrata in vigore della Costituzione.
Da allora, la Corte ha rappresentato una presenza essenziale, anche se discreta, nella vita istituzionale del nostro Paese, al quale ha restituito, con un’opera di interpretazione giuridica, anche controversa, ma mai asettica o tecnicista, l’immagine di una Costituzione che, nell’evoluzione del costume, nelle trasformazioni culturali e nella mutevolezza degli indirizzi politici, ha continuato ad offrire all’insieme dei cittadini un elemento di certezza e di stabilità e un richiamo costante e solido alle regole fondamentali della convivenza democratica.
Pubblicato lunedì 19 Dicembre 2016
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