È il 19 agosto quando il presidente nazionale dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, prende carta e penna per scrivere un appello al presidente del Consiglio: «Egregio Presidente Draghi sono passati troppi giorni dalla vicenda Durigon e continua una larghissima indignazione popolare, democratica e antifascista. È ora di dare un segnale. Di porre un rimedio deciso a questo vulnus istituzionale che sta portando anche ombre e sfiducia». Pagliarulo non fa giri di parole. Va dritto al punto e afferma che l’Associazione dei partigiani «confida in una positiva e radicale assunzione di responsabilità da parte del Governo che non può che tradursi nella rimozione del sottosegretario dal suo incarico».
Il presidente dell’Anpi ha aspettato diversi giorni prima di intervenire nuovamente sulla vicenda del sottosegretario leghista – lo aveva già fatto quando Durigon, durante una iniziativa leghista a Latina, aveva chiesto di revocare l’intitolazione del parco cittadino ai due magistrati antimafia, Falcone e Borsellino, per tornare a dedicarlo (lo era stato, peraltro, per pochissimo tempo e fino al 1943) al fratello minore di Benito Mussolini, Arnaldo. Ma di fronte all’assordante silenzio di palazzo Chigi, l’Associazione dei partigiani ha fatto sentire ancora la sua voce, facendosi interprete dell’indignazione dell’Italia democratica e antifascista che non può tollerare certi miserevoli esercizi di mistificazione della storia e della memoria, a maggior ragione se provengono da un rappresentante delle istituzioni.
Una petizione promossa da Il Fatto Quotidiano su change.org chiede a Draghi l’immediata revoca delle deleghe a Durigon: in pochi giorni le firme sfiorano quota 160mila.
Rappresentante del governo che non disdegna i selfie con i dirigenti di CasaPound, en passant Durigon si vanta pure della presunta intoccabilità giudiziaria della Lega rispetto all’inchiesta sui 49 milioni di rimborsi elettorali trasferiti all’estero e fatti sparire dal Carroccio. I microfoni di Fanpage dopo la sua nomina a sottosegretario lo colgono in fallo mentre asserisce tronfio: «quello che indaga, il generale (della guardia di Finanza, ndr) lo abbiamo messo noi». Dopo quell’inchiesta giornalistica, nel maggio 2021, Sinistra italiana con il leader Nicola Fratoianni presenta una interrogazione parlamentare al presidente del Consiglio, e al ministro dell’Economia, Daniele Franco, per chiedere cosa intendano fare dopo quelle rivelazioni e la frase pronunciata dal sottosegretario della Lega. Fratoianni ricorda nella sua interrogazione «gli intrecci societari, le commistioni affaristiche tra Lega e società private, l’anomalo rapporto tra la Lega e il sindacato Ugl, di cui Durigon è stato vicesegretario generale, nonché i rapporti ambigui con mondi legati alla criminalità organizzata a Latina».
Ed ecco chi è l’uomo a cui Salvini ha consegnato una fetta importante di potere nella Lega. E di conseguenza nel governo.
Un diploma di ragioniere alle spalle, ex operaio alla Pfzier, Claudio Durigon è dal 1° marzo 2021 sottosegretario all’Economia del governo Draghi (ancora prima era stato sottosegretario al Lavoro nel governo Conte I). Al Mef si occupa di giochi. Con innegabile fiuto politico il parlamentare di Latina (ma di origine veneta: i suoi nonni era venuti al sud durante le bonifiche sbandierate dal fascismo) ha prima fatto carriera nell’Ugl, guidata allora da Renata Polverini (pentita, pare, di averlo favorito), arrivando a ricoprire il ruolo di vicesegretario generale. Ma è con la discesa al Sud del Carroccio debossizzato, che per Durigon si aprono le porte della politica nazionale.
Sul finire del 2017 il nostro capisce al volo l’aria che tira e lega i suoi destini a quelli di Matteo Salvini. In dote porta, oltre all’Ugl, contatti, conoscenze (alcune non propriamente cristalline) e consistenti pacchetti di voti. Tanto gli basta per essere ripagato nel 2018 con un bel collegio nella circoscrizione Lazio 2 e, a seguire, con prestigiosi incarichi di governo.
E lui si dà da fare per riempire di voti ex missini il paniere della Lega. Raschiando il fondo del barile e chiamando a raccolta i vecchi arnesi della destra pontina. Come Vincenzo Zaccheo, un passato nel Msi e in An, imposto alla coalizione come candidato sindaco. Gli alleati di centrodestra hanno masticato amaro ma hanno abbozzato. Zaccheo è uscito da poco da una vicenda giudiziaria che lo vedeva accusato di truffa aggravata allo Stato, abuso d’ufficio e falso, per il progetto (sconclusionato) di una metropolitana di superficie a Latina. A tirarlo fuori dai guai con la giustizia è intervenuta non l’assoluzione ma più banalmente la prescrizione. Insomma, Zaccheo è politicamente parlando un’anatra zoppa. Perché allora la scelta è caduta su di lui? L’obiettivo di Durigon è quello di mettere sotto l’ombrello della Lega i fascisti vecchi e nuovi del basso litorale laziale. Zaccheo gli serve a questo, poi al momento opportuno potrà pure essere scaricato.
Il leghista ha iniziato da tempo a blandire e titillare la destra dalle maniere spicce, quella attratta più dai “boia chi molla” che dal doppiopetto. Quella destra, per capirci, che 36 anni fa a Sezze, al comando dell’ex parà Sandro Saccucci, ammazzava un giovane militante del Pci, Luigi Di Rosa.
Quella che in tempi più recenti, nel luglio 2017, quando il sindaco Damiano Coletta alla presenza dell’allora presidente della Camera Laura Boldini dedicava il parco comunale a Falcone e Borsellino, si lasciava andare a urla scomposte e saluti romani, inondando i social di insulti pesantissimi contro la terza carica dello Stato.
A distanza di quattro anni Durigon è tornato nello stesso parco, solleticando gli stessi istinti di allora. Una uscita per nulla estemporanea la sua, bensì una sorta di chiamata per i fascisti in cerca di una nuova casa.
Durigon, il 4 agosto scorso, sale sul palco insieme a Zaccheo, al capogruppo in Regione Lazio, Angelo Tripodi, ex Forza nuova, e a Matteo Salvini. Torna sul nome del parco: «Questo è un popolo che nasce con una storia di coloni, i miei avi erano veneti, questa è la storia di Latina che qualcuno ha voluto cancellare con quel cambio di nome a quel nostro parco che deve tornare a essere il parco Mussolini che è sempre stato».
Parole che scatenano subito una ridda di polemiche, con richiesta di dimissioni. Durigon finge di rimediare, in realtà peggiora la situazione: «Polemica sterile. Mai e poi mai penserei di mettere in discussione il grande valore del servizio prestato allo stato dai giudici Falcone e Borsellino: ciò non toglie che è nostro dovere considerare anche le radici della città». Quelle “radici nere” che lui si incarica di portare in casa leghista, in una guerra sotterranea e senza esclusione di colpi con Fratelli d’Italia per chi riuscirà a esercitare l’egemonia su quel mondo.
Salvini il 4 agosto era Latina, accanto al fido sottosegretario. Ma nulla ha detto e nulla ha fatto allora e nulla ha detto e fatto dopo. Se non esercitarsi in quel gioco stantio che tende a mettere assieme fascismo e comunismo. «Fascismo e comunismo sono stati sconfitti dalla storia fortunatamente, siamo in democrazia e continueremo a viverci. Quel parco a Latina è stato per decenni intitolato al fratello di Mussolini, quindi non è nulla di nuovo ma non ci interessa il ritorno al passato. Siamo nel 2021, diritti e libertà non si toccano», scolpisce per le agenzie di stampa l’uomo che da settimane si esercita in arditi e cinici accostamenti tra i migranti in cerca di una vita migliore, in fuga dalla fame e dalle guerre, e i frequentatori di discoteche e ristoranti allergici al green pass.
L’affaire Durigon ha surriscaldato la politica italiana in questo torrido agosto. Perché a leggerla bene non è affatto una vicenda minore, ma segna, al contrario, l’ennesimo attacco alla Repubblica nata dalla Resistenza. Basti pensare che negli stessi giorni in cui Durigon conciona da Latina il candidato sindaco del centrodestra a Milano Luca Bernardo sostiene di non distinguere le persone tra fascisti e antifascisti. Se andiamo poco più indietro troviamo il caso del Festival del libro di Todi promosso da CasaPound col patrocinio del Comune e dell’Assemblea legislativa della Regione Umbria. Prima dell’estate poi c’è stata la nomina di un fascista non pentito come Mario Vattani, in arte Katanga, ad ambasciatore italiano a Singapore. Tutte vicende che ci parlano di una penetrazione dei fascisti nelle istituzioni dello Stato e che in qualche misura manifestano la volontà di spostare a destra il baricentro del governo Draghi.
La presenza del sottosegretario leghista Durigon, incalza Pagliarulo, mina «il nostro sistema democratico». Per il segretario del Pd, Enrico Letta Durigon ha «dimostrato la sua totale incompatibilità con il ruolo che sta avendo che è quello di rappresentante delle istituzioni che ha giurato sulla Costituzione. Credo che sia talmente evidente questa incompatibilità che starebbe a lui fare un passo indietro. Per quanto ci riguarda faremo il possibile perché questo avvenga». Il leader del M5S, Giuseppe Conte, ha chiesto pubblicamente le dimissioni del sottosegretario dopo le parole «aberranti» volte a cancellare «anni di lotta alla mafia per restaurare il ricordo del regime littorio. Ha tradito la nostra storia violando il fondamento antifascista della Costituzione». E alla riapertura del Parlamento, a settembre, andrà in discussione la mozione di sfiducia presentata dal M5S e su cui hanno già annunciato la convergenza Pd e Leu.
Anche il forzista Elio Vito annuncia che voterà la mozione di sfiducia del M5S, perché «l’antifascismo è un valore fondante la Repubblica e perché non possiamo pubblicare ogni anno foto di Falcone e Borsellino e poi restare indifferenti. Spero di non essere il solo in FI».
Sulle parole di Durigon da segnalare pure la presa di posizione di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso dalla mafia il 19 luglio 1992. «Finché Salvini non farà dimettere Durigon, gli chiedo di non parlare più di mio fratello e non partecipare a cerimonie in via d’Amelio» ha detto in una intervista a Repubblica.
Le dichiarazioni che stigmatizzano le parole di Durigon sono decine e decine. Arrivano dai partiti democratici, dall’associazionismo, dalla società civile, dal mondo della cultura. Riportarle tutte richiederebbe molto inchiostro.
Vale però la pena ricordare al leghista sottosegretario chi fu Arnaldo Mussolini. L’uomo cui vorrebbe dedicare nuovamente il parco di Latina, non rappresentò affatto, come qualche interessato “storico della domenica” va dicendo, il volto moderato del fascismo. Primo perché un volto moderato del fascismo non vi fu mai. Secondo, perché Arnaldo fu complice delle peggiori efferatezze della dittatura fino al 1931, anno in cui morì. Direttore del Popolo d’Italia e ferro esecutore delle direttive del regime sul controllo della stampa, fu infatti coinvolto assieme a Benito nell’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti.
Il 10 giugno del 1924 Matteotti era atteso alla Camera per un discorso nel quale avrebbe rivelato alcune indiscrezioni proprio sul fratello del duce. Documenti alla mano il deputato socialista era pronto a smascherare la corruzione del regime e dei suoi vertici nella vicenda della compagnia petrolifera americana Sinclair Oil. Dopo lunghe trattative, nel 1924 Sinclair Oil si era infatti assicurata il monopolio di ricerche petrolifere sul territorio italiano pagando tangenti a membri del governo fascista ma anche ad Arnaldo Mussolini. Matteotti era riuscito a ottenere le prove di quei finanziamenti occulti. Era pronto a denunciarli di fronte al Paese. Non ne ebbe il tempo. Fu rapito ed ucciso.
È possibile che il ragionier Durigon non conosca il ruolo svolto da Arnaldo Mussolini nella morte di Matteotti? Che non sappia che il fratello del Duce fosse in realtà un corruttore, un tangentaro ante litteram? È possibile, ma ciò non lo assolverebbe dalle sue gravi responsabilità nell’aver acceso la miccia della toponomastica fascista. Anzi.
E viene perfidamente da pensare che il sottosegretario che sa far di conto ma non conosce la storia, difenda oggi la falsa memoria su Arnaldo Mussolini allo stesso modo con cui difende la memoria corta della Lega sui 49 milioni di euro.
Pubblicato domenica 22 Agosto 2021
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