Ci sono ancora i fascisti? Costituiscono un pericolo reale per la democrazia italiana? E che fare per contrastarli adeguatamente? Nell’editoriale di “Patria Indipendente” Carlo Smuraglia, Presidente dell’ANPI nazionale, apre una riflessione sull’argomento. Rispondono in questo numero Aldo Tortorella, Michele Prospero e Daniele Marantelli.
Per cogliere il senso della domanda posta da Carlo Smuraglia, sulla esistenza e sulle forme attuali della insidia fascista, bisogna andare oltre la ricognizione delle espressioni organizzate di una destra radicale che ovunque mostra una certa vitalità e anche una capacità di mobilitazione tra i giovani. Una radiografia quantitativa delle formazioni, spesso ultraminoritarie, che sono diffuse in tutti i Paesi europei, e si presentano nelle piazze con i simboli del nazismo o del fascismo, non basta a cogliere l’ampiezza del fenomeno del sovversivismo di destra, che, in certe condizioni di emergenza, può sbriciolare le democrazie. Bisogna quindi sondare alcune questioni storico-politiche per valutare l’ampiezza dei pericoli effettivi che insidiano le costituzioni novecentesche. La stessa Corte costituzionale tedesca, nel pronunciarsi sul destino delle associazioni neonaziste ramificate in Germania, ha menzionato il modesto dato quantitativo dei movimenti estremistici per escludere che tali gruppi possano costituire la fonte di una consistente opera di sovversione. Con questa rassicurante dichiarazione che l’ordine pubblico non è minacciato dalla violenza squadristica non è però risolta la riflessione sulle opportunità di sviluppo della destra più radicale nel mondo odierno.
Marx suggeriva, nella rilevazione dei fenomeni politici, di tener presente che “il vecchio cerca di ristabilirsi e riaffermarsi nella forma nuova”. Se le tentazioni autoritarie hanno la possibilità di raggiungere una consistenza di massa, per la crescita numerica i sovversivismi devono esibire una attitudine camaleontica per ramificarsi nelle emergenze come una opportunità nuova e non apparire come una semplice operazione di nostalgia incapace di dare senso ad una rabbia che si espande. Le candidature del radicalismo di destra sono impensabili senza una frattura storica profonda che infrange la capacità delle democrazie di rispondere alla crisi sociale, culturale, politica. Entro una giuntura critica, che sospende la capacità di rappresentanza dei vecchi attori politici, le soluzioni carismatiche, caldeggiate da movimenti irrituali di eversione, appaiono come le più attrezzate per risolvere la vacanza di un potere che si mostra acefalo e per raccogliere i sentimenti di delusione di una massa che avverte la paura di scendere repentinamente nella piramide sociale e l’impossibilità di salire nelle opportunità di integrazione e sicurezza occupazionale. Una crisi sociale come quella attuale, che dura ormai da oltre dieci anni e non trova soluzioni innovative, costituisce l’occasione per la proliferazione di formazioni distruttive che indossano una maschera nuova.
Se l’analogia corre troppo in fretta verso le specifiche e irripetibili forze del Novecento è difficile misurare l’entità di una emergenza perché, anche nei gruppuscoli più reazionari e xenofobi odierni, manca quella composizione militare e armata che fiancheggiava i movimenti della destra estrema tra le due guerre, quando si era consolidata la banalità della violenza e della morte del nemico non solo nelle trincee. Allora erano in questione le capacità di resistenza delle democrazie più fragili dell’Europa nelle quali il fascismo si configurava come una risposta reazionaria delle vecchie élite del capitale e del potere per troncare la minaccia della avanzata di una massa catturata dal socialismo. Erano gli anelli deboli a spezzarsi per l’incapacità del vecchio mondo liberale di competere con le forze del movimento operaio sul piano del consenso. Oggi accade un fenomeno allarmante perché è nelle più solide democrazie d’occidente che si possono scrutare i segnali di de-democratizzazione, come lo definisce Charles Tilly, che potrebbero rigonfiare le forze di attori antisistema che ora risultano ancora marginali.
La malattia, che ormai da alcuni decenni affligge i regimi democratici, è quella della strapotenza delle formazioni del capitale che annichiliscono le manifestazioni dell’autonomia della politica dai centri privati di influenza e accrescono le esclusioni, la diseguaglianza, la precarietà. La privatizzazione del politico è la nuova versione dell’attacco alla democrazia che prevede il passaggio alla conquista del potere attraverso le vie interne, non con il ricorso ad aggressioni manu militari. L’Italia, con il fenomeno Berlusconi, è stato il primo laboratorio politico rilevante di una occupazione privata-imprenditoriale del potere che ora si ripete in America con il presidente miliardario che cattura il voto dei ricchi e degli esclusi, dei marginali e della classe media in decomposizione. La capacità camaleontica e adattiva della destra liberal-conservatrice è sorprendente. Con Reagan e Thatcher essa ha imposto una rivoluzione conservatrice nel segno della deregolamentazione, dell’attacco alle rigidità pubbliche che imbrigliano la concorrenza dei mercati e la sovranità del consumatore razionale. Dopo la catastrofe della globalizzazione senza argini e istituti pubblici di regolazione e orientamento della ricchezza secondo scopi sociali, è sempre la destra più radicale a proporsi ai perdenti della mondializzazione dei mercati con le ricette del protezionismo e della deviazione semantica. Con queste alchimie la destra indirizza il risentimento contro il nemico culturale-etnico-religioso da respingere alzando muri, divieti nella circolazione dei rifugiati con credenze e fedi sospette.
Anche la destra più radicale europea, come il Fronte Nazionale di Le Pen, compie una completa metamorfosi ideologica. E, dal vangelo reaganiano e liberista degli esordi, passa alla protesta contro i tagli alla spesa sociale, alla denuncia demagogica contro il tradimento delle élite della finanza, del potere, della tecnica, che calpestano i bisogni della gente. Il vuoto del movimento socialista, come portatore di una cultura politica alternativa a quella dominante, rende meno calda la contesa per la conservazione del potere e ridimensiona una delle cause storiche che ha richiesto nei terreni più friabili la comparsa delle formazioni politiche di ispirazione fascista: la difesa dell’ordine proprietario contro il sovversivismo dei rossi.
La fabbrica del nemico è però un cantiere inesauribile e dal nemico interno, che si riconosce con le bandiere rosse e i simboli dell’internazionalismo, si passa al nemico esterno che viene da luoghi altri, ha una fede e un colore diverso. Con la mobilitazione del risentimento contro gli intrusi che rubano l’occupazione, portano il degrado urbano, si accaparrano i pochi spazi rimasti per i servizi pubblici, la destra evita di politicizzare la grande questione sociale e dirotta il disagio degli esclusi su capri espiatori che lasciano indisturbato il controllo del capitale.
C’è in atto, nelle grandi democrazie, un evidente spostamento a destra delle culture che vede la celebrazione del politico senza qualità, il disprezzo delle mediazioni istituzionali e la rincorsa dei simboli del nemico identificato su una base identitaria. L’asse Londra-New York, le tendenze francesi o austriache, il risveglio di un populismo teutonico, i fenomeni dell’est europeo mostrano che le diseguaglianze che il capitalismo ha accresciuto non trovano un efficace contrasto nelle sinistre post-materialiste e i ceti periferici delle città infinite o dei piccoli centri arroccati o delle aree rurali cedono facilmente al richiamo neoromantico della ruspa, del muro, del velo.
La mancanza di una sinistra di classe, da contenere e disperdere con misure d’eccezione, rende non urgente la manovalanza armata del fascismo. Le risorse del populismo riescono con indubbia efficacia a deviare le sensibilità popolari contro nemici immaginari e tenerle lontane dal ritorno al conflitto di classe. A spingere la destra radicale ad uscire dal ghetto non è oggi la radicalizzazione dello scontro di classe. Potrebbe premere, a favore di una ripresa di qualche caricatura della guerra civile europea, l’impatto degli effetti imprevedibili su scala mondiale del rigurgito nazional-protezionista. Si tratta di fenomeni di ricchezza delle nazioni e di controllo dei mercati che in altri tempi hanno alimentato i venti di guerra e di totale inimicizia. Che dai non-luoghi della globalizzazione si possa precipitare d’un colpo al recupero del mito del sangue e della terra non è una eventualità che appartiene al campo dell’assolutamente impossibile.
Michele Prospero, professore associato di Filosofia del Diritto presso la facoltà di Scienza Politica, Sociologia e Scienze della Comunicazione della Sapienza. Autore di numerosi saggi, collabora con diverse riviste scientifiche e quotidiani
Pubblicato giovedì 2 Febbraio 2017
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