L’Italia che emerse dalla guerra era un Paese in rovina, diviso e affamato. E afflitto da infiniti lutti, dolori e rancori, frutto di seicento giorni e seicento notti di guerra contro in tedeschi e contro i fascisti, combattuta per le strade delle città, sulle montagne, nelle pianure, mentre centinaia di velivoli sorvolavano il Paese – ogni giorno in cui il clima lo permettesse – carichi di bombe da scaricare sulle popolazioni.
La violenza dei tempi successivi all’insurrezione fu il frutto di questi traumi. La popolazione si era assuefatta allo spettacolo della morte, alla visione dei corpi dilaniati dai bombardamenti, alle vittime delle diuturne uccisioni delle truppe d’occupazione e del conflitto tra partigiani e fascisti repubblichini. Tedeschi e fascisti si erano dedicati con sadismo all’esposizione della morte come strumento d’intimidazione verso gli oppositori. L’Italia era un mondo anestetizzato di fronte alla violenza.
All’esecuzione della sentenza di morte contro il dittatore, atto che anche simbolicamente sanciva la fine della dittatura totalitaria, seguirono le esecuzioni dei più noti esponenti del regime, o almeno di quelli che non erano riusciti a rifugiarsi sotto la protezione angloamericana. E poi altre vittime ancora, fino a raggiungere un numero imprecisato, comunque elevato, di condanne capitali emanate da corti extragiudiziarie o eseguite senza formalità (le cose non andarono molto diversamente negli altri Paesi europei che avevano conosciuto l’occupazione tedesca e il collaborazionismo interno). Al confine orientale gli italiani conobbero qualcosa di simile, se pur in dimensioni minori, alla cacciata dei 13 milioni di tedeschi insediati dal Terzo Reich nei territori dell’Europa orientale: nell’Istria e in tutte le terre del confine orientale ci furono uccisioni motivate soprattutto da odio politico e dalla volontà di vendetta contro gli esponenti di una nazione che aveva occupato e oppresso con la violenza quelle terre. Dal maggio 1945 prese il via dall’Istria un esodo che negli anni successivi portò in Italia circa 300.000 persone.
Per l’Alta Italia la soggezione ai vincitori, all’Allied Military Government, si protrasse fino alla fine dell’anno, con l’eccezione dell’Emilia che fu riconsegnata al governo del Regno in agosto. Ai partigiani fu imposta la consegna delle armi entro il 7 giugno 1945: l’ordine fu in gran parte rispettato, con grande delusione di quanti si aspettavano di poterle conservare in vista di un rivolgimento totale, di una rivoluzione popolare che portasse l’Italia a un regime comunista; anche se il termine designava un sogno di eguaglianza e di libertà più che un preciso sistema politico. Non fu la sola delusione di quei mesi. Furono rapidamente esautorate le guide della lotta di Resistenza, i Comitati di Liberazione Nazionale (Cln), che il Partito d’Azione aveva auspicato divenissero i nuovi organi del potere, come espressione della mobilitazione di massa nella lotta antifascista; gli altri partiti avevano respinto la proposta, giudicandola frutto di una concezione giacobina della politica. Di fatto, tuttavia, la scomparsa dei Cln alla fine dell’anno aprì la strada alla restaurazione dei poteri tradizionali: i prefetti della Liberazione vennero sostituiti da prefetti di carriera, gran parte dei quali avevano servito sotto il fascismo e spesso anche sotto la Repubblica Sociale.
Fu il segno del fallimento dell’epurazione: l’obiettivo di allontanare chi aveva collaborato con la dittatura o addirittura con i tedeschi venne clamorosamente mancato. Non molto diversamente da quello che avvenne in Francia o in Germania, le motivazioni dello stato di necessità o di costrizione valsero come motivi d’indulgenza, con l’aggravante che furono colpiti i gradi più bassi delle gerarchie statali. Nel settore privato pochi tra i tantissimi imprenditori che avevano collaborato con i tedeschi pagarono per le loro responsabilità. Nella maggioranza si erano curati di stabilire contatti sotterranei con la Resistenza, fornendo anche finanziamenti; mentre altri poterono dimostrare di aver aiutato i propri dipendenti a sfuggire alla deportazione o di avere protetto indiziati di antifascismo. L’epurazione fu infine resa inefficace dalla scelta affidata, dopo la fase transitoria, a giudici di carriera, sulla base della legislazione vigente, dopo che fu sciolto l’Alto Commissariato per l’epurazione (8 febbraio 1946): avrebbe dovuto essere un sigillo di legalità, ma l’epurazione invece fu resa sterile dai vincoli della legge nonché dalle connivenze e dalle solidarietà istituite nel tempo tra giudici e avvocati. Intervenne anche l’iniziativa del guardasigilli Togliatti, segretario del Pci, che emanò un provvedimento di amnistia (22 giugno 1946): alcuni ancor oggi qualcuno lo definisce “un colpo di spugna sui crimini fascisti”.
Più che per la mancata applicazione di misure punitive, il fallimento dell’epurazione si manifestò soprattutto nell’oblio che rapidamente avvolse le colpe della dittatura e i misfatti dello Stato totalitario. La debole memoria degli italiani permise e incentivò lo sviluppo di un movimento, detto dell’Uomo Qualunque, mobilitato contro la “partitocrazia”; tema che era stato fin dall’800 cavallo di battaglia dei conservatori italiani nostalgici di un regime degli ottimati. Il successo del movimento fu notevole, complice la drammatica situazione economica e l’ossessione anticomunista, ampiamente incentivata dalla Rsi nonché dalla Chiesa cattolica.
Il ruolo della Chiesa fu di grande rilievo: nel corso della guerra la gerarchia ecclesiastica e il Vaticano si erano astenuti dallo schierarsi apertamente per l’una o per l’altra parte; il clero aveva per lo più svolto una funzione caritativa e di protezione, assolvendo ai suoi compiti istituzionali, mentre il papa Pio XII (Eugenio Pacelli) rivendicava al mondo cattolico un ruolo di guida morale. Nello sfacelo di ogni autorità, la Chiesa di Roma voleva ergersi come la sola istituzione in grado di reggere.
E in effetti così appariva a una parte non piccola del Paese. Nel mondo politico la nuova formazione che si richiamava agli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa fu la Democrazia Cristiana (Dc) a cui, pur con qualche diffidenza, il Vaticano guardava con approvazione, mentre furono sconfessati altri gruppi cattolici, come il Partito della Sinistra cristiana i cui maggiori dirigenti confluirono nel Pci.
I partiti politici antifascisti, dopo aver dato vita a un governo di coalizione presieduto da Ferruccio Parri (21 giugno 1945), si apprestavano al confronto elettorale che avrebbe accompagnato il referendum istituzionale, secondo l’accordo tra il Cln e la Corona (Dll n. 151/1944). Anche per regolare tale evento fu istituita un’assemblea legislativa provvisoria, la Consulta Nazionale, non elettiva (fu in carica dal 25 settembre 1945 al 2 giugno 1946), composta da personalità dell’antifascismo. Tra le sue deliberazioni quella di estendere il voto a tutti i cittadini senza distinzione di sesso, accompagnata tuttavia dalla limitazione dei poteri della Costituente che non avrebbe potuto legiferare.
La presenza di Parri (Partito d’Azione), già vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà, alla presidenza del Consiglio sembrò garantire alla Resistenza un ruolo decisivo; ma al prestigioso e integerrimo presidente del Consiglio mancò sia l’abilità tattica sia l’appoggio degli altri partiti del Cln. Accusato di scarsa incisività, ma soprattutto vittima dell’ostilità dei conservatori (Dc e liberali) e degli Alleati, che vedevano in lui solo un alleato dei comunisti, dovette dimettersi il 22 novembre; fu sostituito il 10 dicembre 1945 dal democristiano Alcide De Gasperi.
Con i primi di marzo fu sciolta una questione che aveva creato parecchie difficoltà: con la liberazione di uno dei maggiori esponenti del separatismo siciliano (Finocchiaro Aprile) fu raggiunto un accordo per concedere all’isola una sua autonomia. Con ciò iniziò la smobilitazione del movimento separatista, che era giunto a dar vita anche a un suo proprio esercito.
Nelle campagne e nella città del resto d’Italia non si allentavano le tensioni derivanti da scarsezza di beni alimentari e dall’imperversare della borsa nera, aggravate dall’inflazione, dovuta anche alla immissione di nuova carta moneta da parte degli Alleati. Nelle campagne: il Centro fu investito da agitazioni mezzadrili, mentre al Sud ripresero le occupazioni delle terre incolte; nelle città industriali furono istituiti i Consigli di Gestione e si aprì un intenso dibattito sulla loro composizione, funzione e potere; nel quadro di questo dibattito che interessava la gestione dell’economia ebbe rilievo un intervento di Togliatti al convegno del Pci (Roma, agosto 1945) che respinse l’idea di pianificazione in una società capitalista e chiamò la classe operaia a collaborare per ricostruire l’Italia.
Malgrado tali appelli, la tensione nel settore delle fabbriche permaneva forte, anche in conseguenza del ritorno dei reduci dai campi di concentramento in Germania. Nelle fabbriche erano stati assunti al loro posto, negli anni del conflitto, operai provenienti dalle campagne, e donne. I reduci reclamavano il loro allontanamento per riavere i posti di lavoro che avevano dovuto abbandonare, chiedendo con ciò un risarcimento per le loro sofferenze. L’Italia restò in buona parte sorda a queste rivendicazioni e a quelle degli Internati Militari Italiani, perché ciascuno contrapponeva le proprie sofferenze nell’Italia degli anni di guerra, a quelle di chi ritornava. Ancor più insensibile fu l’opinione pubblica verso gli ebrei, vittime del razzismo fascista prima ancora che di quello nazista. Furono necessari decenni perché a queste ferite si desse almeno il risarcimento della memoria.
In vista del referendum istituzionale le diverse parti presero nettamente posizione: per la repubblica erano ovviamente schierate le sinistre (Pci, Psi e PdA); il Pli si pronunciò per la monarchia, mentre la Dc, benché Pio XII avesse invitato a votare contro il materialismo ateo, lasciò ai suoi aderenti la libertà di scelta. Il 9 maggio 1946 lo screditato Vittorio Emanuele III si decise ad abdicare in favore del figlio Umberto, già Luogotenente del Regno. Malgrado questo estremo gesto, gli italiani scelsero la Repubblica.
Luigi Ganapini, docente all’Università di Bologna, storico
Pubblicato mercoledì 2 Dicembre 2015
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