Kobane dopo la cacciata dell’Isis. Foto di Giorgio Barbarini

In soli dieci giorni in Siria è accaduto quello che molti siriani attendevano da cinquant’anni. Con la presa di Damasco di domenica 8 dicembre la famiglia Assad, che ha governato il Paese per tutto questo tempo, prima con Hafez e poi con il figlio Bashar, è stata spazzata via dall’avanzata delle forze jihadiste siriane, in particolare quelle di Hay’at Tharir al-Sham (Hts), che dal 2017 governavano buona parte della provincia di Idlib, nel nord-ovest della Siria, e del Syrian National Army (Sna), entrambi supportati dalla Turchia, soprattutto quest’ultimo. Tutti o quasi colti di sorpresa, si dice, ma l’impressione che non sia proprio così è più che mai legittima.

Il presidente della Turchia, Recep Tayyp Erdogan (Imagoeconomica, Alexander Ka Zakov)

Certamente era al corrente dell’operazione la Turchia, che ha dato il supporto sia al Hts sia al Sna. L’avanzata rapida verso Damasco, dopo la conquista di Aleppo, di Hama e poi della strategica città di Homs, che ha aperto la via verso la capitale, senza incontrare sostanziale resistenza, se non qualche bombardamento russo, ha fatto immaginare a molti che sotto sotto ci fossero degli accordi tra la Turchia e la Russia. Mosca si è lamentata con Ankara quando ha visto i gruppi del Hts e del Sna occupare le città sotto il controllo di Damasco, ma ha invitato il presidente turco a un dialogo a tre, includendo Teheran. Da tempo Putin sollecitava Assad a un’apertura con il presidente turco Erdogan ma di risultati non se ne erano visti e il presidente russo sembrava spazientito, sapendo l’utilità che la Turchia può avere nel conflitto in Ucraina. L’Iran, che è potenzialmente lo Stato che pagherà il prezzo più alto derivante dalla disfatta di Assad, ha accusato la Turchia di “essere caduta nella trappola degli Stati Uniti e dei sionisti”.

Donald Trump entrerà in carica come presidente Usa il 20 gennaio 2025 (imagoeconomica, via Trump)

Senza dubbio Israele festeggia perché è riuscito a portare su un piano più vasto la sua guerra a Gaza, con l’aggressione al Libano e con il pressante bombardamento, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, alle postazioni militari iraniane in Siria, oltre la decapitazione dei vertici di Hezbollah e di alcuni di quelli iraniani che ha indebolito in modo significativo l’efficacia della presenza di Teheran in Siria e degli alleati Hezbollah libanesi, favorendo così i piani degli jihadisti di penetrazione nei territori sotto il controllo del governo siriano. Gli Stati Uniti, che al fianco di Israele conducono da più dì un anno bombardamenti sulle postazioni delle milizie sciite in Iraq, hanno dichiarato di non voler lasciare la Siria per evitare che l’Isis torni a colpire. Il passaggio di testimone da Biden a Trump il prossimo 20 di gennaio potrebbe però rimescolare le carte. Trump è il presidente che nel 2019, ritenendo l’Isis sconfitto in Siria, ha ritirato i suoi soldati sapendo perfettamente che così avrebbe consentito alla Turchia di attaccare gli alleati curdi.

Raqqa

Rimane tuttavia ancora complicato decifrare il significato più vasto di quanto è accaduto in queste ultime due settimane. In Siria infatti le potenze regionali e internazionali sono posizionate con basi militari e soldati a difesa dei propri interessi. Basi e soldati statunitensi si trovano verso il confine iracheno nella regione autonoma del Rojava, governata dall’Amministrazione autonoma del nord est della Siria (Aanes), la cui leadership è curda. Anche la Russia è presente a Rojava, ma nella parte settentrionale e ha due grandi basi, di cui una sulla costa, a Tartus. L’Iran ha diverse postazioni militari sul corridoio che porta dal centro della Siria fino alla costa a Latakia, dove in questo momento ci sono degli scontri, e verso il Libano, dove rifornisce di armi gli Hezbollah. La Turchia invece occupa alcune zone di confine, nel nord della Siria, dove ha costruito la sua zona cuscinetto che vuole estendere a danno dei curdi.

Bashar Al Assad con Silvio Berlusconi nel 2002 (Imagoeconomica, Carlo Carino)

La comunità araba sunnita siriana festeggia in Siria e in tutto il mondo. Abbatte le statue degli Assad nelle città conquistate dagli jihadisti e dal Sna. Si sente finalmente liberata dalla presenza di una famiglia che ha incarcerato anche il più innocuo dei dissidenti. Il desiderio dei profughi di tornare a casa è forte ma la situazione ancora non lo consiglia perché il territorio resta molto pericoloso. Le scene di gioia non fanno percepire la preoccupazione che alberga in alcuni di loro per il futuro molto incerto, tra potenze straniere che non vogliono togliere le mani dalla Siria e questi gruppi che hanno cacciato Bashar al Assad, definite candidamente da molta stampa e da leader di governo come “ribelli”.

La combattente dell’YPJ Viyan Antar, uccisa nel 2016, durante u attacco dell’Isis

Tuttavia il gruppo jihadista Hts, appartenente all’ala sunnita salafista, ossia la stessa dell’Isis, compare nella blacklist delle Nazioni Unite, degli Usa, dell’Unione Europea e persino della Turchia. La Gran Bretagna ha dichiarato di voler considerare la sua rimozione da tale lista. In fondo non c’è da stupirsi perché quasi nessuno riesce a chiamare i suoi militanti, che perseguono il sogno di una Repubblica islamica, jihadisti. Questione di convenienza. Meglio definirli ribelli, allontana il pensiero dalle dichiarazioni che hanno reso mentre rapivano le combattenti delle unità di resistenza femminili del Rojava (Ypj), alle quali promettevano che le avrebbero vendute sui mercati, come l’Isis aveva fatto con le donne ezide catturate nel 2014 nel distretto di Shengal, in Iraq.

Kobane. Sventola la bandiera curda. Foto di Giorgio Barbarini

Mentre circolano video in rete delle atrocità commesse da questi “ribelli” moderati e ravveduti, che promettono il rispetto delle minoranze, e dai miliziani del Sna, la Turchia cerca di mangiarsi un altro pezzo di Siria, come ha fatto Israele lunedì 9 dicembre quando ha preso possesso del lato siriano del Monte Hermon (Alture del Golan). Con le operazioni di terra condotte dal Sna, Erdogan ha attaccato la città di Manbij, nella parte occidentale della regione del Rojava. Mentre si scrive (martedì 10 dicembre) sono in corso combattimenti tra Sna, con la copertura aerea della Turchia, e le Syrian democratic forces (Sdf), apparato di difesa del Rojava. Anche la collina intorno a Kobane, città simbolo della resistenza dei curdi del Rojava durante l’invasione dell’Isis, è sotto i bombardamenti turchi.

(Imagoeconomica)

La Turchia vuole cancellare l’Aanes, forma di governo autonomo che si ispira al paradigma del confederalismo democratico pensato dal leader curdo Abdullah Ocalan. L’occasione è ghiotta, in considerazione del momento che sta attraversando la Siria, ed è un’opportunità per disfarsi anche dei circa tre milioni di rifugiati siriani che ospita, i quali potrebbero fare ritorno nel paese essendo svanito il pericolo Assad. Il governo transitorio che si è formato vede nel ruolo di primo ministro Mohammed al Bashir, che era stato nominato primo ministro del governo della salvezza nella provincia di Idlib, sotto l’autorità del Hts. Al Bashir dovrà fare inevitabilmente i conti con l’Aanes, la quale governa una parte molto vasta della Siria, circa un terzo. Per questo la Turchia, con la scusa dell’ampliamento della zona cuscinetto sul suo confine siriano e approfittando della situazione che ha contribuito a creare in Siria, si porta avanti con il lavoro sporco contro l’Aanes per indebolirla, o meglio ancora cancellarla e evitare che entri in negoziati con il nuovo governo.

Un altro panorama di Kobane. Foto di Giorgio Barbarini

L’Aanes è consapevole del rischio che corre in questo frangente, poiché potrebbe venire travolta dalla minaccia turca se lasciata sola. In modo pragmatico ha fatto appello al Hts affinché ci sia un dialogo per la costruzione della nuova Siria, dove tutti i popoli siano riconosciuti e inclusi nella politica di cambiamento per un paese democratico. Il leader del Hts, Abu Mohammed al Jolani, ha dichiarato di non volere la repressione delle minoranze ma quanto potrà essere democratico e inclusivo il governo appena insediatosi è tutto da vedere. I curdi hanno un piccolo spazio da giocarsi nell’apparente crepa che esiste tra Hts e Sna, ma non sarà facile.

Mappa della Siria

Assistendo alla rovinosa caduta di Assad e del suo esercito, le Sdf hanno preso controllo di alcune zone amministrate dal governo siriano nell’area di Deir el Zor per mettere in sicurezza la propria zona e la propria gente, anche dagli attacchi dell’Isis che nel deserto siriano ha diverse cellule che si addestrano e operano. L’Isis infatti non è stato a guardare ma per il momento diversi bombardamenti aerei statunitensi hanno bloccato il suo intento di attaccare i curdi.

Il logo dell’Aanes, Amministrazione autonoma del nord est della Siria

È troppo presto per fare previsioni realistiche su quello che succederà in Siria nei prossimi mesi, ma comunque vadano le cose, quello che pare certo è che i curdi e l’esperienza dell’Aanes siano sacrificabili un po’ da tutti e che saranno solo gli interessi delle varie potenze interessate a mantenere l’influenza sulla Siria a determinare la sua sopravvivenza o la sua fine. L’Aanes ha problemi enormi da affrontare con le centinaia di migliaia di profughi che fuggono dalle zone occupate dal Hts e dal Sna, oltre alla gestione difficilissima delle prigioni stracolme di miliziani dell’Isis e del campo di Al Hol, dove si trovano le famiglie dei membri dello stesso Isis che stanno già partorendo le nuove generazioni di jihadisti.

Combattenti curdi

L’offensiva sul popolo curdo è già iniziata. Non poteva essere diversamente e lo sapevano anche i sassi, perché per Erdogan i curdi che rivendicano il diritto all’autodeterminazione, ovunque vivano, sono un pericolo da eliminare.

Carla Gagliardini, vicepresidente Anpi provinciale di Alessandria e componente del direttivo dell’Associazione Verso il Kurdistan odv