“L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.” (Antonio Gramsci)
Ascoltando questo eco, nell’anno del 70° anniversario della liberazione dal fascismo, siamo partiti a piedi, per attraversare l’Italia da mare a mare, lungo il fronte invernale della Linea Gotica. Le parole di Antonio Gramsci vergate in inchiostro blu sulla leggera tela di Irene, la bandiera dell’ANPI che ci ha accompagnati tutto il viaggio.
Da Cinquale, in provincia di Massa Carrara, a Sant’Alberto di Ravenna. Perché la storia, deve essere studiata ed appresa calpestando i luoghi in cui è stata scritta, e mai come quest’anno risulta importante ricordarla. Per non sbagliare ancora.
Diciotto giorni di cammino, con tappe di diversa lunghezza, dai 18 ai 30 chilometri, a seconda della morfologia del territorio, dei dislivelli affrontati, e della fatica accumulata il giorno precedente.
Abbiamo iniziato ad allontanarci dalla costa tirrenica, un passo dopo l’altro, puntando in linea retta verso le Alpi Apuane, maestose, decisi a scavalcarle per poter conquistare qualsiasi cosa ci fosse al di là. Montagne violentate per la cava del marmo, superate sulle pietre quasi verticali del sentiero 33. Il terreno impervio ci ha permesso di cogliere appieno il perché di quel fronte immobile per più di sette mesi, perno fisso della linea tedesca. Sulle cime isolate e brulle è tutt’oggi tangibile la solitudine immobile di quei ragazzi che le difendevano, per unica compagna una mitragliatrice, durante le piogge e i grandi freddi dell’inverno ’44.
Nelle prime cinque giornate di cammino, accompagnati da un maltempo incessante, ci siamo lasciati alle spalle i primi cento chilometri e abbiamo conquistato gli Appennini. Accolti dagli ululati del vento, unico suono a spezzare il silenzio delle cime.
Mantenendo la linea di cresta sui cui correva il fronte per giorni ci siamo persi in un saliscendi di cime. Da qui i tedeschi controllavano le valli, occupando una montagna non loro. La fatica fisica si è mescolata ad un’altra, più profonda, radicata alla bocca dello stomaco, per i racconti che i fantasmi di vecchi depositi e rifugi in pietra, i camminamenti e le foxholes ancora intatti sussurravano al nostro passaggio.
Un passo dopo l’altro ci siamo immersi nei boschi, calpestato sentieri e attraversato luoghi conosciuti. Il nostro passaggio ha richiamato le storie dei ribelli della montagna, con i pantaloni a coste e la spensieratezza dei ragazzi di vent’anni. Da Monte Belvedere e Monte della Spè fino a Monte Pero e poi San Martino, ricalcando la traccia indelebile di quei ragazzi che hanno combattuto per un futuro non loro.
Ci siamo separati dalla prima Linea Gotica, che puntava a sud verso Pesaro, proseguendo lungo quello che fu il fronte invernale, che ci ha portati a superare la Vena del Gesso e poi la pianura. Una casa sul ciglio della strada reca ancora i segni dei proiettili, ostinatamente addormentata in quell’epoca di rivolta. Lasciando trapelare una storia sconosciuta, la cui verità si può solamente immaginare.
Il paesaggio è mutato definitivamente. Niente più cime aspre o arrotondate, ma sconfinate distese di filari di frutta e vitigni. Le zolle di terra smosse dagli aratri e le foglie a forma di cuore hanno bloccato l’avanzata dei carri armati per quattro mesi. Mentre lungo l’argine del fiume Senio gli eroi della laguna, mimetizzati tra i canneti, combattevano per strappare i loro territori dalle mani degli oppressori.
In pianura, sull’asfalto del lungofiume, abbiamo macinato strada velocemente, e dopo 362 chilometri dalla partenza siamo giunti a Sant’Alberto, dove il paese tutto ci aspettava. Emozionato ed orgoglioso.
A sigillare la strada percorsa la barca in onore del “Comandante Bulow”, con il suo borbottare calmo, ci ha accompagnati all’Isola degli Spinaroni, permettendoci di solcare quel mare intrappolato dalle terre, a cui abbiamo donato i ricordi dell’Italia attraversata.
Durante il cammino abbiamo trovato la Storia che stavamo cercando, che ci è giunta filtrata tra le pieghe di una fatica bella e soddisfacente. Abbiamo riscoperto uno spirito di amicizia antico, attraverso la fiducia incondizionata delle persone, la loro disponibilità assoluta ed il loro entusiasmo. E siamo ritornati a casa pieni di meraviglia.
Pubblicato mercoledì 2 Dicembre 2015
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