La Brexit è come quando, ad una festa da ragazzi, uno simpatico se ne va e ti lascia con quelli più noiosi. Poi ti guardi intorno e vedi che per ballare un lento c’è solo la Merkel che ti guarda sorridente… Iniziamo in modo un po’ leggero per sdrammatizzare un tema in realtà molto delicato e doloroso cercando di analizzarne cause e conseguenze.
Sulle cause nessun dubbio. L’UE negli ultimi anni (in particolare dopo la crisi finanziaria del 2007) non ha fatto nulla per rendere se stessa popolare ed attraente. Il problema in realtà parte da più lontano perché la globalizzazione ha fatto scoppiare la contraddizione delle diseguaglianze. L’immenso esercito dei diseredati (800 milioni di persone che vivono con un dollaro al giorno più i nuovi diseredati creati dal dramma delle guerre, in particolare i siriani che nel giro di pochi anni hanno visto crollare la loro aspettativa media di vita di 20 anni) si è messo in moto verso i Paesi a maggiore benessere. Oppure, anche restando nei propri Paesi, è diventato concorrenza a basso costo del lavoro ai nostri salariati di pari qualifica, abituati a ben altre remunerazioni e tutele per via della nostra tradizione sindacale e di welfare. La risposta delle nostre imprese a questa pressione competitiva è stata, nel migliore dei casi ma solo in alcuni, la fuga verso la qualità e i fattori competitivi non delocalizzabili (tutti quelli che rendono meno importante il costo del lavoro come territorio, arte, cultura). In molti altri casi si è proceduto a delocalizzare, a inseguire verso il basso il livello di tutele dei Paesi poveri o emergenti o ad importare la precarietà nei nostri territori (un esempio il distretto cinese dell’indotto di Prato o quello indiano di Monfalcone).
In ogni caso tutto questo ha prodotto, per via di una sorta di legge di gravità, uno scivolamento verso il basso delle condizioni di vita e delle tutele dei ceti medio-bassi. Fin qui i fatti a cui si aggiungono una serie di errori di percezione e di comunicazione da varie parti. In primis l’UE non ha saputo mai raccontare gli elementi positivi del suo operato, non ha una comunicazione efficace. Quasi tutti i cittadini europei ignorano quanto importante sia stata in questi anni per la costruzione di infrastrutture e il finanziamento d’investimenti. L’altro errore è stato quello delle élites che non hanno saputo vedere la sofferenza dei ceti medio-bassi. Esiste qui anche un problema d’indicatori. Trilussa direbbe, riprendendo la famosa storia dei polli, che le medie sono state inventate dai ricchi per nascondere le diseguaglianze. Le classi dirigenti non hanno saputo mettere occhiali migliori e comprendere il forte arretramento di benessere di vari strati dei loro Paesi. Clamoroso è stato anche l’errore dei partiti di sinistra che sono per lo più diventati radical chic, cantori della globalizzazione e delle sue magnifiche sorti progressive. Paradossalmente oggi i partiti popolari sono quelli di destra, che hanno dato voce ai malumori dei ceti sociali più in difficoltà con una risposta però populista e grossolana. L’economia non cammina, la torta è fissa, gli immigrati ci travolgono. La soluzione è l’uscita dall’Europa o dall’euro. Così risolveremo i nostri mali.
Cosa succederà dopo Brexit?
Intanto alcune volte gli schiaffi sono salutari. La risposta all’indomani della Brexit con i 2 milioni di firme raccolti dai cittadini per un nuovo referendum e le proteste dei giovani (che hanno votato in prevalenza per restare nell’UE) davanti a Westminster testimoniano come a volte bisogna sperimentare certi errori per capire. Nasceranno forse nel Regno Unito movimenti irredentisti europeisti e il pendolo della storia muoverà di nuovo in direzione opposta. Questo perché una buona o anche una mediocre cooperazione vale sempre di più di una disgregazione e di un conflitto, disgregazione che sembra essere purtroppo il destino prossimo futuro dell’Europa
Ma intanto, come invertire la rotta per evitare che il processo di disgregazione continui? Non dimentichiamo che l’Unione Europea, anche se rischia di crollare per problemi economici, è nata per motivi non economici, ovvero per impedire nuove guerre all’interno del nostro continente.
Per invertire la rotta bisogna a mio avviso muovere in due direzioni. La prima è quella di fare un passo avanti nella condivisione dei rischi e delle risorse in Europa (assicurazione dei depositi bancari, eurobond, condivisione del debito). Per venire incontro alle perplessità e alle paure tedesche nascerà probabilmente un’UE flessibile a cerchi concentrici dove il superamento di soglie di virtuosità negli indicatori economici consentirà l’accesso a forme maggiori d’integrazione. Quello che è certo è che i Paesi più fragili economicamente (la Grecia, la Spagna, l’Italia) hanno tutto l’interesse a restare collegati al resto d’Europa per evitare di affrontare la navigazione dei mari agitati della globalizzazione con imbarcazioni piccole e di fortuna. Non è un caso che proprio la Grecia nel momento più difficile della sua storia, quando l’uscita dall’euro era possibile, abbia deciso di fare altrimenti. E non è un caso se i sondaggi in Italia indichino che più del 60% è fortemente critico verso l’Europa ma che l’80% vuole rimanerci.
L’altra direzione verso cui muovere rapidamente è quella di trasformare la globalizzazione da corsa verso il basso a corsa verso l’alto nella promozione dei diritti sociali e del lavoro per affrontare alla radice il vero corno del problema descritto all’inizio di questo articolo. È possibile farlo? Senz’altro usando strumenti che già abbiamo a disposizione. C’è innanzitutto bisogno di un fisco che premi le filiere ad alta dignità del lavoro penalizzando fiscalmente quelle che non lo sono (per il bene dei nostri lavoratori ma anche di quelli dei Paesi poveri ed emergenti). Un po’ come già avviene sul fronte della sostenibilità ambientale abbiamo bisogno di istituire una classe energetica A dei prodotti anche per il sociale. È necessario capire fino in fondo che le diseguaglianze hanno lo stesso effetto negativo su tutti noi del riscaldamento globale, dell’innalzamento dei livelli dei mari, dell’inquinamento urbano. Le diseguaglianze sono una forma di inquinamento sociale che dobbiamo combattere perché da esse nascono tutte le conseguenze negative che oggi stiamo subendo. L’inquinamento sociale delle diseguaglianze produce migrazioni incontrollate e precarizzazione del lavoro. È il vero male da combattere se vogliamo risolvere il problema.
Leonardo Becchetti, ordinario di Economia Politica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma “Tor Vergata”, autore di numerosi saggi tra cui “Felicità sostenibile” (Donzelli, 2005); “Il denaro fa la felicità?” (Laterza, 2007); “Il mercato siamo noi” (Bruno Mondadori, 2013); “Winkieconomia. Manifesto dell’economia civile” (Il Mulino, 2014)
Pubblicato mercoledì 6 Luglio 2016
Stampato il 03/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/brexit-la-migliore-risposta-aggredire-le-diseguaglianze/