I vecchi, allora bambini, raccontano che quella mattina del 19 settembre 1943 il cielo sopra Boves e le sue montagne erano color azzurro intenso e limpidissimo; quelle mattine di fine estate fresche, ma che portano con sé la promessa di una giornata ancora calda. Le avanguardie delle SS comandate dallo Sturmbannfuher Joachim Peiper erano già arrivate vicino al paese quando un gruppo di partigiani, ex militari agli ordini dell’ex tenente Ignazio Vian, ne catturarono due e li portarono su per le pendici della Bisalta, la montagna che sovrasta Boves. Peiper convocò il parroco, don Giuseppe Bernardi e il bovesano Antonio Vassallo e ordinò loro di andare a recuperare i due ostaggi, in cambio non avrebbe toccato il paese. Don Bernardi chiese che quella promessa fosse messa su carta ma Peiper ribattè che “… la parola di un tedesco vale più di cento firme italiane!”
Al ritorno in paese dei due ostaggi accompagnati dal parroco e dal Vassallo, Peiper diede inizio al massacro: furono bruciate oltre 350 case e massacrate 45 persone, quasi tutti vecchi e bambini. Don Bernardi e Antonio Vassallo furono addirittura legati e bruciati vivi.
A ottant’anni da quell’eccidio (il primo dei tre subiti dalla cittadina di Boves, nei successivi due del gennaio ’44 morirono 157 persone e furono bruciate altre 500 case), domenica 24 settembre, la cittadina ha voluto ricordare come sempre quegli accadimenti. Alcune migliaia di cittadini hanno dato vita a una marcia che, partendo dalle cittadine di Cuneo, Borgo San Dalmazzo, Peveragno e Chiusa Pesio, è arrivata nel centro di Boves.
La manifestazione aveva il patrocinio di molti Comuni e l’organizzazione era affidata a molteplici associazioni, ci limitiamo alle più significative: Scuola di Pace di Boves, Comitato Vivere la Costituzione, Acli e Anpi. Queste ultime due rappresentate dai rispettivi presidenti nazionali: Emiliano Manfredonia e Gianfranco Pagliarulo. Diversi gli interventi, tra i quali quello del sindaco di Boves, della responsabile della Scuola di Pace e del presidente Acli, nei quali sono stati citati don Aldo Benevelli, prete-partigiano nonché tra i fondatori della marcia e monsignor Bettazzi, mancato da poco e da sempre impegnato sul fronte della pace. È stato compito del nostro Pagliarulo proferire l’orazione finale.
Un discorso lungo e articolato che, partendo dagli orrori di allora è arrivato agli orrori contemporanei, alle guerre in corso, prima su tutte quella Russia/Ucraina. Un discorso improntato, come sempre, sulla necessità di far prevalere il dialogo e la pace sulla violenza, richiamando i valori della nostra Costituzione e dando risalto a quella perversa dinamica che recita – per arrivare alla pace servono più armi e sempre più sofisticate – che attualmente è il leit-motiv dell’Alleanza Atlantica. Un ragionamento appassionato, quello di Pagliarulo (lo potete leggere di seguito), interrotto più volte dal pubblico con applausi di apprezzamento ai concetti espressi e alle sue citazioni di Papa Francesco e di Monsignor Zuppi a proposito della pace. La manifestazione si è chiusa con un concerto di una giovane band locale, iniziato con “Bella Ciao” cantata a gran voce da tutti i presenti.
Nota di colore a margine dell’evento: durante la marcia di oltre 8 chilometri il nostro presidente Pagliarulo, noto e accanito tabagista, ha evitato ogni contatto con la malaerba. Alla nostra richiesta di spiegazioni ha asserito che “c’erano dei bambini al mio fianco ma soprattutto l’aria era così limpida e fresca che sarebbe stato un peccato non godersela!”.
Luciano Bellunato, Anpi Alba-Bra-Langhe-Roero (CN)
Qui di seguito l’intervento del presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo, al termine della Carovana della pace di Boves
Grazie. Grazie di cuore a tutte e tutti voi, al sindaco, all’assessora, alle istituzioni civili, religiose, militari. Ma un particolare ringraziamento va rivolto a Don Flavio Luciano, che mi ha personalmente invitato e a cui va gran parte del merito di questa bellissima iniziativa. Vada a nome di tutti un grande abbraccio a Don Flavio.
Questa mattina qui a Boves grazie a Enrica Giordano, ho scoperto uno scrigno dentro cui si trovano i quadri di Adriana Filippi. Ritratti di partigiani. Lì dentro ho trovato la Resistenza nella sua pienezza, cioè nella sua incancellabile umanità, nel suo desiderio di vita, di pace, di serenità, di antifascismo come valore costituente, da parte di quelle e quelli che facevano guerra alla guerra: i partigiani. E mi sono sovvenuti in mente alcuni versi di Gianni Rodari: “Ci sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra: per esempio la guerra”. A questi versi così leggeri, così dolci, così di buon senso mi porta la memoria di quello che è successo esattamente 80 anni fa, in quell’orrendo 19 settembre: l’agghiacciante vicenda dell’eccidio di Boves.
E penso alla guerra d’aggressione scatenata dai nazifascisti, all’inaudito bagaglio di vittime del secondo conflitto mondiale, più di 60 milioni di morti, più dell’intera attuale popolazione del nostro Paese, e penso poi alla ferocia dei nazisti in terra italiana dopo quell’8 settembre e mi inchino alla memoria di ciascuna delle vittime dell’eccidio di Boves a cominciare da don Giuseppe Bernardi, don Mauro Ghibaudo e Antonio Vassallo.
Assieme, non posso non ricordare il sangue delle quattro giornate di battaglia a cavallo fra il 1943 e il 1944 e il terribile stillicidio di fucilati di Boves fino al 26 aprile 1945. Rammento solo due nomi che hanno segnato l’epica di Boves: Ignazio Vian, impiccato; Franco Ravinale, scomparso a Dachau.
La parola chiave del nazifascismo era la guerra. La parola chiave delle resistenze era la pace. Mai i partigiani invasero le altre patrie. I partigiani liberarono la propria patria per farne una comunità nazionale indipendente e rispettosa delle altre comunità. Non solo: l’internazionalismo della Resistenza evocava un’idea di un mondo di uguali e liberi che metteva al centro il valore della persona, della sua dignità, della pace e del lavoro. Questi valori sono esattamente i principi che ritroviamo nella Costituzione della Repubblica, che per questo chiamiamo figlia della Resistenza.
Eppure, tanti decenni dopo, viviamo in un tempo incredibile in cui la logica, le parole, la psicosi, gli atti della guerra sono tornati ovunque, nel nostro continente, nel nostro Paese, nelle nostre case. Come se fosse necessario, come se fosse normale, come se fosse un destino. Papa Francesco ci aveva ammonito da tempo perché da tempo ha parlato della terza guerra mondiale a pezzi. E sono diciannove mesi che infuria il conflitto in Ucraina dopo l’aggressione russa del 24 febbraio 2022.
Per mesi e mesi ci hanno raccontato che l’invio delle armi combinato con l’effetto delle sanzioni ci avrebbe restituito la pace. Invece abbiamo assistito esterrefatti all’aumento incontrollato del prezzo della benzina, alla crescita dell’inflazione e alla speculazione su tutti i generi di prima necessità, alla sottrazione su scala europea di cifre gigantesche del denaro pubblico, cioè nostro, per gli armamenti, a scapito della sanità, della scuola, della casa, al ridimensionamento dell’intero sistema produttivo europeo, all’aumento incontenibile delle diseguaglianze.
Non solo. Avevano iniziato affermando che sarebbero state inviate in Ucraina armi soltanto non letali, poi armi esclusivamente difensive, poi carri armati e missili, poi gli F16 e altri aerei da combattimento. E non dovesse bastare, abbiamo sentito più volte da parte russa la minaccia dell’uso dell’arma atomica. Ha proprio ragione Francesco, che ha gridato nell’ottobre dell’anno scorso: “la guerra è una pazzia che pagano gli innocenti”!
Per non farci mancare niente, pochi giorni fa il Segretario Generale della Nato ha dichiarato: “Dobbiamo prepararci ad una lunga guerra”. Chi si deve preparare? La Nato? E perciò l’Unione Europea, oggi totalmente appiattita sulle posizioni dell’alleanza militare? E perciò anche il nostro Paese? Con quale mandato popolare? Con quali ulteriori conseguenze per l’economia e la vita quotidiana di tutti noi? Con quali pericoli di un mostruoso olocausto nucleare? E specialmente a quale prezzo di sangue degli ucraini? I fatti hanno dimostrato che l’aggressione russa, la attiva complicità della Bielorussia, le scelte della Nato, dell’Unione Europea, del nostro Paese hanno elevato a livelli mai visti in passato l’escalation della guerra. Altro che prepararci a una lunga guerra! Dobbiamo tutti operare concretamente per una lunga pace!
Questo vuol dire in concreto che occorre agire in ogni modo per alleviare le sofferenze del popolo ucraino. Ma non basta. Dobbiamo ciascuno di noi, per quanto possibile, agire per contribuire a innescare un meccanismo di negoziato, di trattative, di diplomazia per uscire dallo stallo della guerra. Ben vengano le proposte di negoziato da parte di chiunque, a cominciare dall’azione di pace di Francesco fino al ruolo della Cina e specialmente di Lula. Ma ciò che è sconcertante è che non abbiamo mai sentito in questi drammatici diciannove mesi da parte dell’Unione Europea la parola negoziato, e che nella recentissima relazione di Ursula von der Leyen, piena di toni bellicisti e trionfalisti, si chiude la porta in faccia a qualsiasi trattativa!
Questa guerra non è nata dal nulla e non avviene nel nulla. Non mi riferisco solamente a quello che è avvenuto in Ucraina dal 2014 in poi, e cioè la guerra civile fra Kiev e il Donbass. Mi riferisco anche ad altro. Sta cambiando il mondo a grande velocità. Si allarga sempre più il fronte che chiede una nuova geografia mondiale, un mondo nuovo, multipolare e di pace. Questa è la richiesta che viene da tanti Paesi dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina. E a ben vedere questo è il messaggio che ci viene da milioni, miliardi di persone senza potere, senza voce, senza volto.
SSta cambiando il mondo, ho detto. E io chiedo: ne possiamo parlare? Possiamo agire per un mondo migliore o facciamo finta di niente? Possiamo dire che spesso, quando sentiamo parlare con enfasi, di prese di posizione della “comunità internazionale”, scopriamo poi che si tratta del solo Occidente? Possiamo dire che l’Europa non è più il centro del mondo e che deve attrezzarsi per accogliere ed essere accolta, per essere partner pacifico degli scambi economici, commerciali, culturali con l’est e il sud del pianeta? Possiamo dire che l’idea dell’Europa Fortezza, che mi sembra stia malauguratamente sempre più prendendo piede, è una drammatica deriva che fa crescere i nazionalismi, isola il continente e porta inevitabilmente alla guerra? Possiamo manifestare allarme e preoccupazione per l’espandersi in Italia della cultura dell’emergenza, della discriminazione, della sanzione e della punizione, tipica dei regimi autoritari e repressivi? Noi affermiamo che qui ed ora, quando più che mai occorre applicare la Costituzione, ove si afferma che la Repubblica riconosce e garantisce come inviolabili i diritti umani e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, si semina invece il vento pestilenziale dell’odio!
Noi non chiediamo solo di rispettare l’art. 11 della nostra Costituzione, e cioè il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Noi chiediamo al nostro governo e all’Unione Europea di essere finalmente attori di una proposta di negoziato che parta da un immediato e leale cessate il fuoco.
Noi chiediamo al nostro governo e all’Unione Europea di farsi portatori della proposta di una conferenza internazionale che abbia a tema la coesistenza pacifica, la reciproca smilitarizzazione di confini con la Federazione russa, il progressivo disarmo nucleare.
Noi ci uniamo alla voce di tutti coloro che chiedono una profonda riforma delle Nazioni Unite che allarghi finalmente il Consiglio di Sicurezza –oggi rappresentato dai soli Paesi vincitori della Seconda guerra mondiale – ad altri Paesi dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina, che contribuisca cioè a dare forma e diritti a quel mondo multipolare che ci avevano promesso dopo la caduta del Muro di Berlino e che non si è mai realizzato.
Noi denunciamo un sentimento velenoso che spira per l’Europa, lo stesso sentimento che ha causato entrambe le guerre mondiali. Questo sentimento si chiama nazionalismo.
Sappiamo tutti della tragedia della guerra in Ucraina che dobbiamo fermare, ma spesso non sappiamo della tragedia delle guerre che si stanno svolgendo in decine di Paesi del mondo, né abbiamo tratto alcun bilancio delle tante guerre avvenute negli ultimi trent’anni, dal Kosovo all’Afghanistan, dall’Iraq alla Libia, alla Siria.
Facciamo finta di non vedere che al termine del lunghissimo calvario in Afghanistan sono tornati al potere i talebani, che dall’invasione dell’Iraq è nato il mostro dello stato islamico, che l’attacco alla Libia ha causato di fatto la dissoluzione dell’intero Stato e il dominio di organizzazioni criminali, che l’intervento della Nato in Serbia con le sue conseguenze geopolitiche ha lasciato rancori e divisioni che nei Balcani covano sotto la cenere.
Facciamo finta di non sapere che l’irreversibile ondata migratoria in corso è stata causata anche da quelle guerre. E questa è la conferma drammatica che la guerra non è mai la soluzione del problema, ma è il problema. E consentitemi di aggiungere che la rappresentazione più efficace e più potente di quell’umanità senza potere, senza voce e senza volto di cui ho parlato è data proprio dai migranti, vittime e protagonisti di una tragedia davvero biblica. Si parla tanto di sicurezza, quando la catastrofe della sicurezza è proprio la guerra, mentre il trionfo della sicurezza è la cura, la cura delle persone, del lavoro, della pace, dell’ambiente!
Oggi abbiamo dato vita alla Carovana della Pace che è oramai una bella e colorata tradizione; questa Carovana, come il pellegrinaggio del Presidente della CEI, Cardinale Zuppi, per le vie del mondo nella ricerca e nella costruzione di una trama di pace per l’Ucraina, come la Marcia Perugia-Assisi, come la grande manifestazione nazionale unitaria a cui daremo vita il 7 ottobre, è il segno di un cammino, un cammino comune che ci unisce e ci consente di ritrovarci e di riconoscerci come fratelli sulla terra. E mi sovvengono le bandiere della Rivoluzione francese dove era scritto: “Liberté, egalité, fraternité”; e le prime parole dell’Inno dei lavoratori, scritto più di un secolo fa da Filippo Turati: “Su fratelli, su compagni”; e l’enciclica di Francesco “Fratelli tutti”; e penso ai versi di Ungaretti del 1916, pochi mesi dopo aver combattuto sul Carso quando scrisse, parlando al nemico, “di che reggimento siete, fratelli?”.
E così – e chiudo – siamo tutti in cammino sulla strada che ci unisce, umani fra gli umani, davanti alla più grande sfida che la guerra vorrebbe farci dimenticare, anzi, che la guerra aggrava: i disastri, le alluvioni, lo scioglimento dei ghiacciai, la desertificazione, in sostanza il riscaldamento globale. E ci muoviamo tutti, realisticamente consapevoli della tragedia della guerra, uniti dall’idea di un mondo che ponga finalmente al centro il valore della persona e della sua dignità, custodi di un fuoco di speranza e di emancipazione, ci muoviamo tutti verso l’arcobaleno di un nuovo umanesimo.
Perché un arcobaleno? Ce lo spiegano ancora le parole di Gianni Rodari: “Un arcobaleno senza tempesta, questa sì che sarebbe una festa. Sarebbe una festa per tutta la terra, fare la pace prima della guerra”.
Viva i martiri e le vittime di Boves! Viva le partigiane e i partigiani! Viva il nostro bellissimo Paese!
Pubblicato mercoledì 27 Settembre 2023
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/boves-una-carovana-antifascista-per-la-pace-ottanta-anni-dopo-leccidio/