Arrigo Boldrini era detto Bulow, come uno dei tre vincitori di Waterloo (insieme a Wellington e a Bluchner); in questo nome si esprime prima di tutto una fermezza profonda e meditata rivolta contro l’invasore.
La fermezza è una costante di Bulow. Dapprima in senso soggettivo, percepibile nel carattere sobrio riservato prudente serio capace. Concentrato in sé e al tempo stesso al servizio degli altri, egli è un eroe democratico, non un super-uomo dannunziano – egli era ben in grado, tra l’altro, di aver paura, e di vincerla: ed è questo il vero coraggio –. Un eroe popolare, non aristocratico, se non nel senso dell’aristocrazia del costume e dello spirito. Insomma, una persona di cui si capiva e si sentiva che ci si poteva fidare, perché in grado di esercitare autocontrollo e, di conseguenza, di guidare gli altri. In questo senso, Bulow era dotato di autorità in senso personale: era autorevole – un’autorità riconosciuta anche dagli alleati, che hanno accolto e applicato il suo piano militare, grazie al quale Ravenna non ha patito distruzioni eccessive durante i giorni della liberazione –. Se oggi possiamo vedere in San Vitale i mosaici di Giustiniano e Teodora (le forme supreme dell’autorità) lo dobbiamo alla sua autorità.
In senso oggettivo, poi, se passiamo dall’individuale al collettivo, la sua è la fermezza delle radici – le radici del popolo, s’intende –. Radici è una metafora, non è un termine politico. La locuzione esatta è “momento costituente”, “decisione innovatrice”. Non è vero, infatti, che la decisione può essere solo la prepotenza o la sbrigatività del comando: è anche la grande scelta, responsabile e coraggiosa, operata nel momento giusto, che di solito è il momento in cui non si sa e non si capisce, in cui si è incerti. Pochi, come Bulow, hanno compreso subito, dopo il 25 luglio, e si sono schierati, dando così inizio a un’egemonia, che in questo caso è la capacità di parlare al popolo, di guidarlo con il suo consenso, di esserne appunto il fondamento.
La prima grande avventura guerrigliera d’Italia, quella democratica e garibaldina, finisce nelle valli di Comacchio nel 1849 – il Risorgimento fu essenzialmente conquista regia e opera di élites –; ma cent’anni dopo nasce in queste stesse zone un’altra guerriglia, a costituire un filo rosso e democratico della storia d’Italia, prima della Resistenza piuttosto povera di partecipazione popolare.
Si deve notare che “guerriglia” è termine poco usato per la Resistenza; ma Bulow, cultore di storia militare, lo usava: in realtà, è perfetto, dal punto di vista storico e teorico. La guerriglia è infatti la lotta del debole contro il forte, dell’irregolare contro il regolare; ed è una lotta che ha nel popolo il suo baricentro. In questo senso Clausewitz, il grande teorico della guerra, contemporaneo del “vero” Bulow, ha scritto sulla guerriglia, riprendendo l’esperienza spagnola e prussiana contro Napoleone. Anzi, quella di Boldrini è la classica situazione della guerriglia vittoriosa, quella cioè che oltre all’appoggio del popolo, e ai “santuari” in cui i partigiani si possono rifugiare (le valli), conosce anche l’appoggio di uno Stato straniero (nel caso specifico, l’Ottava armata inglese).
In particolare, l’appoggio del popolo è stato tale che, come si è osservato, non si può parlare, in questo caso, di guerra civile, perché il popolo non era diviso come appunto avviene nelle guerre civili ma era schierato da una parte sola, quella antifascista. È questo rapporto col popolo ad avere reso possibile la “pianurizzazione” della lotta – la grande scelta strategica di Boldrini –; combattere in pianura anziché in montagna è concepibile solo con l’appoggio totale della popolazione. Un appoggio che nel corso della lotta non venne mai meno, perché nasceva dalla lunga opposizione al fascismo e alle sue politiche concrete, e che fu rafforzato dalla occupazione tedesca e dalla violenza repubblichina.
La fermezza delle radici di cui Bulow è figura emblematica è ben altra cosa, quindi, da un pur coraggioso gesto solitario. È la capacità, politica oltre che militare, di interpretare il popolo, di suscitare il suo potere costituente, ovvero di incarnare e interpretare l’autorità in senso politico, fondamento della libertà individuale e collettiva. A noi oggi è chiaro che la guerra partigiana era solo formalmente l’esercizio di un potere politico-militare delegato al CLN dal regno del Sud, e che sostanzialmente si è trattato invece dell’attivazione autonoma di un potere costituente popolare che è stato supremamente politico – persino al di là della consapevolezza soggettiva dei suoi protagonisti –, dell’emergere spontaneo di quella legittimità che in seguito ha trovato espressione formale e compiuta nell’Assemblea costituente e nella Costituzione repubblicana. Questo avvento del popolo in armi sulla scena politica, non solo militare, consente di respingere la tesi della “morte della patria”; fra il 25 luglio e l’8 settembre si è consumato semmai il collasso delle élites tradizionali e l’affermazione di élites nuove, alle quali Bulow appartiene.
Quelle élites nuove sono i partiti; il “partito nuovo” di Togliatti che in quel momento è essenziale a evitare la distruzione del tessuto civile, e la Dc di Zaccagnini, il Tommaso Moro amico di Boldrini. Forze di parte, che a Roma ma anche nella lotta partigiana si caricano di un dovere e di un compito generale. A questa logica ricostruttiva aderisce Bulow, come si comprende da quanto egli nel suo diario testimonia degli incontri con Ercoli (Togliatti), e dalla stessa celebre frase, degli anni seguenti, in cui spiega che egli combatté non solo per chi stava dalla sua parte, ma “anche per chi non c’era, anche per chi era contro”.
Nasce insomma con Bulow, e con quelli come lui, una democrazia includente che ha radici solide nel popolo, e che nonostante abbia all’origine l’esclusione del nemico e delle ideologie più violente del secolo, non è mai la democrazia di una parte, di una fazione, ma anzi si fa carico di organizzare un’intera nazione, con le sue parti diverse che, anche se in lotta fra loro, sono però unite sui valori di fondo e sul metodo democratico.
Resistenza, e Bulow, come radice della democrazia, quindi. A una parte, a quella comunista, Bulow nondimeno restò fedele fino in fondo; in essa condusse una carriera politica importante benché non di primissimo piano, in ruoli di fiducia (a contatto con alcune aree del mondo militare) per i quali la serietà, l’autorevolezza e l’affidabilità erano d’obbligo. Una carriera in difesa, anche, della Resistenza come Presidente dell’ANPI fino dagli anni difficili del dopoguerra in cui la lotta partigiana era attaccata e misconosciuta, a causa della divisione del mondo che aveva diviso anche il campo antifascista – benché legami e solidarietà personali nate nella Resistenza siano sopravvissute alle vicende politico-partitiche e abbiano costituito un importante filo rosso della storia della Repubblica –.
E come radice vivente, come forza propulsiva della democrazia, Bulow in quanto Presidente dell’ANPI si dimostrò non uomo di parte ma difensore di una concezione forte della democrazia, fatta di autorità e di libertà; difensore insomma – in sintonia con Pertini – di una concezione non museale ma politica della Resistenza. Come si vide negli anni della lotta al terrorismo, all’eversione, in cui rifiutò la benché minima legittimazione alle Brigate rosse, perché fosse chiaro alla Nazione che esse non erano la prosecuzione della Resistenza ma, in quanto nemiche delle istituzioni democratiche, erano il suo tradimento e la sua negazione.
Serietà, senso del dovere, senso della collettività; questi i segni di una vita spesa per gli altri. Senza fare santini e oleografie, Bulow ci sembra oggi, a cent’anni dalla nascita, un uomo capace di interpretare in modo esemplare un’idea e una pratica di cittadinanza repubblicana e democratica. La politica spettacolo, l’individualismo narcisistico, il cinismo, l’apatia e l’antipolitica non vinceranno, finché queste figure saranno degnamente ricordate, finché l’inquietudine di molti, l’insoddisfazione per la nostra democrazia sfigurata, potrà rispecchiarsi nella virtù sobria, coraggiosa, tenace e all’occorrenza severa, di Bulow, sintesi dello spirito della Resistenza, esempio di democrazia armata, in senso proprio e in senso metaforico.
Oggi abbiamo quindi un gran bisogno di rispecchiarci in lui come in un esempio della forza delle convinzioni e della lucidità per realizzarle – cioè della vera onestà (al di là di quella intesa in senso legale, certamente necessaria) della quale ha bisogno la politica –. Abbiamo bisogno, giovani e meno giovani, di conoscerlo meglio, e di vedere in lui un buon motivo per essere orgogliosi di essere italiani.
Carlo Galli, docente all’Università di Bologna, studioso del pensiero politico, parlamentare
Pubblicato venerdì 16 Ottobre 2015
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