Come fare antifascismo è questione aperta di continuo, un tema politico di fondo che però tende a riprodursi sempre eguale a se stesso; un obbligo a ripetersi secondo linee di divisione sostanzialmente identiche. Se in qualche modo anche questa è una conferma che il fascismo è “autobiografia della nazione”, c’è qualcosa che davvero non funziona se appare o viene proposto come sempre eguale il modo del contrasto.
Penso che se ricompaiono i termini della fine anni 60-primi 70 ciò sia dovuto al fatto che ne parlano gli stessi (persone, posizioni politiche, ecc.) protagonisti di fasi iniziate decenni fa. E se si volesse cercare la radice profonda di tali posizioni, credo la si troverebbe ancora oggi nella polemica post 1945 sulla “Resistenza tradita” e forse prima ancora, negli anni 20 del Novecento, negli scontri sul contrasto all’allora nascente fascismo.
Il fascismo in Italia, come fenomeno storico e come categoria politica, credo debba ancora oggi essere definito “regime reazionario di massa” e non soltanto una forma politica violenta e di sopraffazione. Non ogni tipo di violenza politica è fascismo, ad esso non è riconducibile ogni forma di intolleranza o discriminazione: se così fosse, non sarebbe possibile distinguere la definizione di fascismo da categorie di eguale genericità quali…la cattiveria dell’essere umano! Il fascismo è stato uno specifico esperimento di organizzazione dello Stato, della politica, del rapporto con l’economia fino alla organizzazione della vita sociale. Altro che “male assoluto”: politica consapevole. Per questo ha avuto una capacità pervasiva e una consistenza di lunga durata. In questo sta l’originalità della esperienza italiana: se si perde questo aspetto, si finisce perfino per indebolire la forza del movimento che gli si contrappose e per non comprendere la straordinaria sequenza che portò in tre anni alla Resistenza, alla Liberazione, alla Repubblica e alla Costituzione.
L’Italia ha poi vissuto un “secondo tempo” senza precedenti né paragoni con altri Paesi in Europa: la lunga permanenza e la tragica attività dagli anni 60 agli anni 80, di un partito neofascista con tratti popolari in aree non secondarie del Paese, le connivenze con apparati dello Stato e parti del potere politico formalmente costituzionale, la strategia della tensione e le convergenze (almeno) con la criminalità piccola e grande.
Mi preme solo indicare alcuni tratti generali, e di questi fa parte anche la determinazione con la quale si è rifiutato di ridurre tutto a rigurgito violento, a frettolosa analisi di “ora come allora”, a continua riproduzione dello stesso nemico e dello stesso pericolo. Così è stato possibile costruire un rifiuto di massa del fascismo e non consenso e simpatia, così si è fatto uscire di scena conniventi e complici.
Oggi ci sono problemi gravi, ma si tratta di discuterne e comprenderne la consistenza, il significato, le ragioni: in altri tempi si sarebbe detto farne un’analisi differenziata. Capisco, è molto meno facile esprimersi così nell’epoca di twitter ma toccherà fare qualche sforzo.
Ci sono almeno tre aspetti del problema di oggi: una produzione abbondante di siti e simbologie fasciste, la continua organizzazione di manifestazioni; lo sviluppo di organizzazioni apertamente fasciste in numerosi Paesi europei nel quadro di una ripresa di forze e governi nazionalisti e di destra; una sorta di indifferenza rispetto al problema, marginale nella opinione pubblica.
Per il primo aspetto, al di là della ovvia constatazione che il web è al tempo stesso liberatore di energie positive ma anche di libero sfogo del peggio di cui si possa essere capaci (non si contano più i casi di insulti, reazioni aggressive, di violenza presenti in rete – questione di cui pure ci si dovrà occupare – e che non si manifestano solo a destra, per la verità), bisogna chiedersi come e perché continuino e si sviluppino simbologie e temi fascisti nella loro ispirazione e storia concreta. Risposta “facile”: educare, spiegare, far conoscere. Censurare? Sì, quando si tratta di reati, sempre consapevoli di quanto sia delicato trovare il confine tra apologia e opinione. Tuttavia la strada è indicata dalla parola reato, che implica che vi sia una legge, chi la faccia rispettare, una pena effettiva ed efficace. Ma non è forse questa la caratteristica e anche la superiorità del sistema democratico? Chiudo un sito con la forza della legge, non lo brucio con le fiamme della militanza.
Per il secondo aspetto, l’Europa è percorsa da venti isolazionisti, nazionalisti, dal rifiuto di diversità presunte etniche (e sono invece culturali, economiche e sociali), con risultati elettorali come in Polonia, Ungheria e altri Paesi. Effetto delle crisi che percorrono le singole nazioni, l’Europa nel suo insieme e producono legami e solidarietà tra culture reazionarie. Qui vedo il pericolo più grande: non c’è paragone tra la pericolosità di manifestazioni di teste rasate bagnate di birra e quella di governi che destrutturano un’Europa piuttosto lontana dalla metà del guado. E tuttavia: se la risposta giusta al gruppo neofascista fosse il contrasto fisico alla sua manifestazione, nel caso di uno Stato la risposta sarebbe la dichiarazione di guerra? Mi sembra evidente che si debbano praticare strade ben più complicate (in entrambi i casi) e certamente più lunghe, per costruire progressivamente da un lato l’isolamento e dall’altro la capacità di costruire alternative concrete (politiche economiche e sociali, qualità dello sviluppo), con l’apertura di relazioni, la cultura: isolamento e boicottaggio di solito sono pagate dai più deboli e cementano la solidarietà per i governi, tanto più se isolazionisti e nazionalisti. Tutte cose già viste.
Per il terzo aspetto, il contrasto a forme e manifestazioni improntate al fascismo deve fare i conti con il fatto che la nostra storia non è passata invano e in essa non è stato inutile ciò che abbiamo cercato di fare. Se le forme attuali di fascismo non sono considerate con allarme generale è anche perché siamo stati in campo. È vero che questo non è bastato, se c’è stato un movimento di opinione che ha seguito Berlusconi nel “riverniciare” il fascismo e che ha dato ossigeno al revisionismo. Eppure, proprio chi ha iniziato il suo impegno trenta o quaranta anni fa può dire quanto sia cambiata l’Italia: nulla c’è più di tutto quello che è stato, strategia della tensione, connivenze di apparati statali, aree di ambiguità in parti della politica e dei governi e potrei citare i nomi di vie e di piazze di tante città d’Italia…
Oggi c’è bisogno di qualcosa di più, di ciò che è la vera incompiuta della democrazia italiana. Nei documenti congressuali l’abbiamo chiamato “lo Stato antifascista”, la certezza cioè che lo Stato, le sue istituzioni a partire dagli apparati educativi e da quelli repressivi siano orientati senza incertezze ad una attività permanente ed ordinaria che trasmetta il significato e i valori fondanti della nostra storia contemporanea, nata con la svolta della Liberazione dal fascismo. Dall’altro lato, intervenga a colpire reati dando così la giusta dimensione a manifestazioni cui manca il requisito per essere libertà di opinione, cioè il rispetto di quella degli altri e il rifiuto di principi e pratiche di discriminazione e sopraffazione politica.
Qualcuno lo ha chiamato “perbenismo”. Credo invece che questa sia la strada per non mantenere tutto bloccato in un eterno passato… che non passa. Riprendere nomi e simboli del contrasto al fascismo e al nazismo degli anni 20 non è memoria storica, è dire che quelle forze potevano essere fermate allora sparando loro addosso un po’ di più (ecco il “tradimento”), guardando alla superficie di grandi e tragici processi storici, segno di cattivo studio e conseguente cattiva politica; è sostenere che oggi non si debbano fare gli stessi “errori”; è pensare, praticare ed insegnare che le cose si riproducono in forme diverse (ma nemmeno troppo) ma sono in sostanza sempre uguali.
Non c’è salvezza della democrazia al di fuori della sua evoluzione in tutte le strutture della convivenza civile, di cui lo Stato è parte rilevante perché garante dei diritti, in primo luogo dei più deboli. Anche questa è una discussione che abbiamo già fatto: c’è sempre tempo per riprenderla, ma lo sviluppo della democrazia – nelle istituzioni e nella società – è la strada da percorrere. Contrapporre Stato a società è all’origine delle tragedie del Novecento, tanto quanto il mito dell’azione diretta che nega lo spazio alla politica che è – prima di ogni altra cosa – azione di tanti, insieme, per valori condivisi e in cui nessuno si arroga il diritto di decidere individualmente o in piccoli gruppi ciò che è lecito e progressivo e ciò che non lo è.
Alessandro Pollio Salimbeni, della Presidenza nazionale dell’ANPI
Pubblicato venerdì 19 Febbraio 2016
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