Carlo Monticelli, nato nel 1857 a Monselice, nella bassa padovana, è stato uno dei più importanti esponenti del movimento anarchico italiano. Con l’aiuto di Andrea Costa costituì a Monselice nel 1877 una sezione dell’Associazione internazionale dei lavoratori che ben presto avrebbe avuto un ruolo trainante nel propagare gli ideali dell’anarchismo in tutto il Veneto. La sezione stessa giunse a contare qualcosa come 180 affiliati, in gran parte priaroli, cioè i lavoratori delle cave di cui il padre di Monticelli, Martino, era il direttore. Anche Martino era un personaggio di tutto rilievo, con un passato di patriota: repubblicano e garibaldino convinto, durante i moti del 1848 era stato sorpreso dagli austriaci presso Piove di Sacco mentre in barca portava viveri e medicinali a Venezia assediata. Martino fu incarcerato mentre gli altri occupanti della barca, tra cui suo padre Domenico, furono fucilati come esempio. Passato all’anarchismo contribuì a convertire alla causa i suoi priaroli, leggendo loro stralci delle opere di Marx o dei giornali internazionalisti che si faceva arrivare a Monselice. Con questi giornali il figlio Carlo iniziò a collaborare inviando periodicamente corrispondenze e riflessioni, intrattenendo così relazioni con i più importanti esponenti dell’Internazionalismo, da Andrea Costa ad Alceste Faggioli, da Fortunato Serantoni a Carlo Cafiero, da Errico Malatesta a Gaetano Grassi. Un individuo quindi che per le autorità e le forze di pubblica sicurezza rappresentava una minaccia gravissima. Monticelli si trovò così ad essere oggetto delle attenzioni delle questure di mezza Italia, dato che intorno a lui fu costruita una complessa trama spionistica contro la quale non riuscì a contrapporsi.
Il commissario di Monselice, fin dai primi giorni di vita della sezione internazionalista, cercò di avvalersi delle confidenze di un giovane affiliato pagandolo 20 lire alla settimana, ma costui poco gli era stato utile, e non aveva saputo dirgli nemmeno dove si sarebbe tenuto il Congresso internazionalista veneto, che era previsto nel 1878. Quasi a scusarsi con il prefetto di Padova (il suo superiore), il commissario lamentava l’imperizia del suo confidente, ma non trovandone altri “necessità vuole che mi avvalga di questo”. Brancolava nel buio anche il prefetto di Padova, che pure si avvaleva delle confidenze di una spia. Più fortunato era stato il prefetto di Venezia, il cui confidente gli aveva portato la circolare di invito del congresso con indicazioni di luogo e data: il 28 giugno nella casa di un agente privato, certo Giobatta Cappello, a Padova. Ma il giorno del congresso Monticelli e gli altri partecipanti intuirono di essere stati scoperti. Decisero perciò di non procedere a un congresso unitario ma con tre riunioni separate cui sarebbe seguita alla sera una riunione riassuntiva in una osteria locale. Rimaneva il problema di chi avrebbe conservato le carte. Si offrì il giovane Bortolo Zavattiero, che era la spia del prefetto di Padova. Nel poco tempo a disposizione, fece avere il materiale e i nomi dei partecipanti a un funzionario di polizia poco lontano dal luogo del congresso con cui era segretamente in contatto, e quest’ultimo lo fece avere al prefetto di Padova. La spia del prefetto veneziano era invece Giuseppe Alburno, giornalista veneziano, cieco d’un occhio, che vendeva le sue confidenze di volta in volta all’ispettore di pubblica sicurezza, al questore o al prefetto, a seconda della convenienza. Alburno, per la sua professione, godeva sicuramente di grande prestigio tra i giovani internazionalisti con cui era entrato in contatto epistolare e per questo, a differenza che per Zavattiero, era stato messo al corrente di tutte le iniziative dei capi anarchici veneti. La polizia non esitò quindi a pagarlo generosamente.
Quando, in seguito all’attentato Passanante del novembre 1878, Monticelli e altri affiliati di Monselice furono arrestati per aver diffuso un innocuo manifesto a stampa e per cinque mesi rimasero chiusi nelle carceri di Este in attesa di giudizio, fu lo stesso Alburno ad andare a Este a seguire il processo grazie ai soldi fornitigli dalla Polizia. Da lì inviò i resoconti a uno dei più importanti giornali internazionalisti dell’epoca, La Plebe, e si diede da fare per organizzare una colletta a favore dei giovani ingiustamente incarcerati. Ruolo di primo piano lo ebbe anche Carlo Terzaghi, che godeva di grande prestigio tra gli internazionalisti di Ferrara. Questi lo ritenevano l’unico vero proletario e le polemiche contro di lui le ritenevano scatenate non perché fosse stata scoperta la sua poco nobile attività, ma perché aveva preso le distanze dall’indirizzo troppo intellettuale di Cafiero e Costa. I primi contatti di Monticelli con il mondo dell’internazionalismo avvennero proprio con la sezione ferrarese verso la fine del 1875, quando un certo Vincenzo Dondi giunse a Monselice. Quest’ultimo non mancò di scrivere a Terzaghi dell’incontro avvenuto con i compagni veneti, e Terzaghi così informò le autorità competenti. Dondi fu fermato e nella perquisizione della sua abitazione fu sequestrato materiale compromettente, come lettere, indirizzi e nominativi. Ecco perché, ancora prima del Commissario Barpi, il ministero dell’Interno aveva saputo che a Monselice, nei primi giorni del 1876, si doveva costituire una sezione internazionalista, in quanto il nome di Monticelli, di Guglielmo Ramina e di altri erano stati fatti direttamente da Terzaghi. Il commissario così iniziò a sorvegliarli. Terzaghi agiva come confidente del viceconsole di Ginevra Giuseppe Basso, che proprio nei primi mesi del 1876, per poter controllare i movimenti e i progetti degli internazionalisti aveva intrapreso un viaggio nel Nord Italia per costituire un servizio di informazioni di polizia avvalendosi di spie e confidenti. Tra questi c’era anche Terzaghi, che allora viveva proprio a Ginevra (città in cui la presenza di rifugiati politici era molto alta), ingaggiato per la cifra di 200 lire al mese alla fine del 1875 con il placet del ministero degli Esteri e degli Interni. Basso inviava le notizie riservate della spia al ministero degli Esteri, e questo a sua volta inviava il rapporto completo del viceconsole al direttore della Pubblica sicurezza. Da qui poi le informazioni venivano inviate ai prefetti competenti e ai commissari distrettuali.
Arriviamo al febbraio 1881, epilogo della nostra vicenda.
Monticelli, sorprendendo le stesse autorità che lo sorvegliavano, era partito per la Svizzera per partecipare al congresso di Chiasso del 5-6 dicembre 1880, rientrando a Monselice nei primi giorni di gennaio 1881. In Svizzera aveva conosciuto personalmente un importantissimo esponente dell’anarchismo come Carlo Cafiero, entrando in piena confidenza con lui, e questo aveva ulteriormente aumentato le preoccupazioni delle autorità. In base alle informazioni che giungevano al ministero dell’Interno e che venivano trasmesse poi al prefetto di Padova e al commissario Barpi, gli anarchici stavano preparando una rivolta armata in tutto il Paese, e a Monticelli sarebbe stato riservato il compito di organizzare questa insurrezione in Veneto. A tal proposito avrebbe anche dovuto recarsi all’estero, a Parigi e poi ad Alessandria d’Egitto, per trovare i mezzi finanziari necessari. Le modalità di questo tentativo rivoluzionario avrebbero dovuto essere concordate in una riunione segretissima che si sarebbe tenuta in una osteria di Abano (PD), il 6 febbraio 1881. La circolare di invito era giunta nelle mani del famigerato Alburno, ammesso alla riunione, e quest’ultimo non perse tempo ad avvisare il questore di Venezia. Come spiegò Monticelli stesso molti anni dopo, quella riunione era stata convocata non per organizzare una rivolta armata bensì per “deliberare intorno alla pubblicazione di un giornale, il quale doveva propugnare le idee anarchiche”. Così, verso mezzogiorno del 6 febbraio, mentre Monticelli e gli altri si preparavano a brindare alla Rivoluzione sociale, un ispettore di polizia, alcune guardie in borghese e i carabinieri della vicina stazione fecero irruzione nell’osteria non lasciando scampo a nessuno dei 9 congressisti. Tra questi, oltre a due trevigiani e tre padovani, vi erano Oreste Vaccari di Ferrara (altro inconsapevole confidente in contatto con Terzaghi), la spia Giuseppe Alburno di Venezia e Ildebrando Carleschi, figlio del segretario comunale di Monselice. La sera furono trasferiti al carcere ai Paolotti di Padova con l’accusa di cospirazione contro la sicurezza interna dello Stato. In seguito furono trasferiti a Milano, dove il ministro dell’Interno De Pretis unificò tutti i processi contro i sovversivi con l’intento di spazzare via per sempre il movimento anarchico. Ma mentre 8 dei 9 congressisti furono liberati, Monticelli rimase in carcere in attesa di giudizio, condividendo la cella con un altro rivoluzionario del calibro di Amilcare Cipriani, uno dei capi della presunta rivolta armata. Tuttavia per Giuseppe Basso, il viceconsole di Ginevra, Monticelli sarebbe stato più utile a piede libero, e in un rapporto riservatissimo a Giuseppe Malvano, direttore degli uffici politici del Ministero degli esteri, ne chiedeva la scarcerazione. L’idea di Basso era di fornirgli denaro tramite una persona di cui il monselicense si fidava per inviarlo al congresso dell’Internazionale a Londra, previsto per luglio. Lo scopo era sapere con sicurezza di cosa in quel congresso si fosse discusso o ancora meglio “avere le sedute stenografate”. L’idea di mettere Monticelli nella cella di Cipriani era stata sempre del viceconsole Basso, perché una volta scarcerato, attorniato com’era di spie, avrebbe parlato del presunto progetto insurrezionale ai compagni lì presenti rivelando ulteriori particolari sconosciuti alle autorità. Una spia inconsapevole quindi – nei documenti stessi Malvano definisce erroneamente Monticelli “confidente del consolato” – che per le autorità di pubblica sicurezza erano le migliori. Ad ogni modo l’operazione di aggancio non riuscì, anche per l’opposizione del direttore della Pubblica sicurezza Giovanni Bolisi. Monticelli fu scarcerato il 25 maggio e dopo essere rientrato a Monselice, scappò all’estero, prima in Svizzera e poi in Francia, per sfuggire ad un’ammonizione che pendeva nei suoi confronti. Arrestato di nuovo nell’estate del 1881, ricevette in carcere la visita di un delegato di Pubblica sicurezza il quale voleva a tutti i costi che ammettesse di essere stato al congresso di Londra perché così risultava dai rapporti segreti. Monticelli rispose che se avesse letto Il Catilina avrebbe visto che il suo nome non compariva, e che dunque avrebbe risparmiato il denaro per le spie.
Ci siamo dilungati su questa vicenda perché le modalità con cui fu costruita questa rete di spie e infiltrati ci permettono di capire come i tentacoli dell’Ovra avessero cominciato a crescere già nei primi decenni post-unitari, avvalendosi di istituti giuridici e di prassi repressive che il fascismo non fece altro che potenziare. Il caso dello spionaggio ai danni di Monticelli è da questo punto di vista esemplare, perché consente alcuni interessanti parallelismi. Come il fascismo infatti reclutava le sue spie prevalentemente all’interno dei movimenti antifascisti o tra i fuoriusciti, allo stesso modo in età liberale i confidenti venivano reclutati solitamente all’interno dei movimenti “sovversivi” anche per creare tensioni e divisioni tra gli stessi gruppi. Uno dei metodi, come ampiamente utilizzato in epoca fascista, era quello di campagne di discredito nei confronti di qualche compagno. Terzaghi si dimostrò un maestro in questo, tanto che in un articolo del 1876 accusò in modo osceno Costa e Cafiero di aver messo in pratica “la teoria canina dell’eguaglianza dei sessi”. Il reclutamento della spia tra i sovversivi permetteva inoltre di raccogliere anche tutta una serie di voci e pettegolezzi sull’ambiente e sui sorvegliati che, apparentemente insignificanti, potevano tornare utili. Per questo bastavano anche informatori di mezza tacca. Per esempio il 23 gennaio 1876 il commissario di Monselice informò il prefetto che Guglielmo Ramina era stato a cena in un albergo di Monselice con un giovane proveniente di Adria (il Dondi sotto false generalità) e che poi i due avevano dormito insieme in una stanza dello stesso albergo, nonostante il Ramina – specificava il commissario – vivesse a Monselice. Illazioni ma che potevano essere utilizzate ad esempio in caso di incriminazione per aggravare i capi d’accusa. Piero Brunello, che in uno studio del 2010 – Storie di anarchici e di spie. Polizia e politica in età liberale – ha affrontato proprio la vicenda di cui stiamo parlando, ha potuto verificare come negli archivi svizzeri in termini di quantità le informazioni raccolte sulle persone sottoposte a sorveglianza – i Personaldossier – fossero ben poca cosa rispetto a quelle italiane, in quanto le autorità svizzere non si occupavano delle opinioni e dei pettegolezzi.
Come in epoca fascista, anche all’epoca delle nostre vicende le spie agivano l’una all’insaputa dell’altra, e ogni autorità (prefetti, questori, consoli) si guardava bene dal rivelare i nomi del proprio informatore, anche nei documenti. Questo permetteva da un lato alle spie di agire con la copertura completa dell’autorità, rimanendo dentro al movimento senza il rischio di incappare in procedimenti giudiziari, ma dall’altro serviva anche per verificare la correttezza delle informazioni. La spia insomma veniva sottoposta a sua volta a sorveglianza. Confrontando le informazioni era infatti possibile sapere se era stata detta la verità o se la notizia era stata inventata di sana pianta. Così le carte degli archivi sono piene di notizie infondate o gonfiate palesemente, come la circolare di una fantomatica Società della morte organizzata dagli anarchici per uccidere sovrani e autorità, diramata a tutti i prefetti dopo l’attentato Passanante.
Capire se fossero vere o false queste notizie era compito delle forze di Polizia che nel dubbio aumentavano le misure preventive verso gli individui sospetti. La sorveglianza produceva così una vera e propria intrusione nella vita privata delle persone. Oltre al controllo della corrispondenza postale, il “sovversivo” veniva pedinato e guardato a vista, costringendolo così a limitare i contatti umani per non compromettere amici o parenti. Era prassi tenere in carcere i sospettati parecchie settimane o addirittura mesi con accuse molto pesanti – cospirazione alla sicurezza interna dello Stato – anche se poi tutto si concludeva con un non luogo a procedere; gli arresti avvenivano in modo del tutto arbitrario ed esercitando veri e propri abusi di potere, come da parte del prefetto di Padova nel caso dei giovani anarchici monselicensi nel novembre 1878. Prassi comune erano poi i ricatti. Nel 1880 Monticelli vinse il concorso per diventare segretario comunale nel comune di Arquà Petrarca (Padova), ma l’amministrazione del paese non volle saperne di assumere un socialista. Alla fine del 1881 il pretore di Este lo convocò per ammonirlo come ozioso, ma se si fosse ritirato a vita privata senza più fare propaganda internazionalista non solo l’ammonizione sarebbe stata ritirata, ma avrebbe potuto ottenere quel posto da segretario comunale che gli sarebbe spettato di diritto. L’ammonizione era una misura preventiva di polizia, alternativa al carcere e di carattere amministrativo – infatti non era comminata da un tribunale – che si applicava ad individui sospetti di vivere di proventi illeciti come “oziosi, vagabondi e diffamati per delitti” ma di cui non si avevano prove specifiche per il rinvio a giudizio. Era una sorta di minaccioso avvertimento a rigar dritto che comportava l’obbligo per l’ammonito di dimostrare una buona condotta, quindi un provvedimento particolarmente odioso perché metteva sullo stesso piano anarchici e delinquenti comuni, criminalizzando di fatto il dissenso politico e giustificando il diritto dello Stato a violare le libertà individuali. Più grave era il domicilio coatto, altra misura di carattere amministrativo, dove a differenza dell’ammonizione il sospettato veniva inviato in un luogo diverso da quello di residenza.
L’istituto del domicilio coatto fu particolarmente utilizzato da Crispi, per il quale la priorità consisteva nel combattere il movimento operaio organizzato, ma anche nel prevenire gli attentati di natura anarchica che avevano portato all’uccisione di sovrani e presidenti (si pensi al presidente della Repubblica francese Sadi Carnot ucciso da Sante Caserio). Come confino politico, il domicilio coatto fu riportato in auge in grande stile con Mussolini. Allo stesso modo il Casellario politico centrale non fu una creazione del fascismo. La catalogazione dei sospetti con l’istituzione di un registro biografico e l’uso della fotografia cominciò con Giovanni Bolis alla direzione dei Servizi di pubblica sicurezza nel 1880, e i servizi di catalogazione furono poi ulteriormente potenziati con Crispi, che stabilì modalità unificate per ogni ufficio istituendo nel 1894 il Servizio schedario biografico degli affiliati ai partiti sovversivi, il primo embrione di quello che sarebbe diventato il Casellario politico centrale. Il servizio di polizia internazionale per la sorveglianza degli affiliati all’Internazionalismo fu istituito sempre nel 1880 con Bolis, che a sua volta si era potuto avvalere della rete creata dal viceconsole Basso, anche se inizialmente agenti speciali e delegati di Pubblica sicurezza furono inviati solo nei luoghi a più alta concentrazione di “sovversivi”, come Parigi, Londra e Ginevra. Medesima organizzazione che si appoggiava alle rappresentanze consolari fu utilizzata dal fascismo, che accreditava i funzionari di polizia all’estero come viceconsoli: in questo modo non era necessario ricevere il gradimento del governo ospitante, come accadeva per i consoli, e in più questi potevano godere di ampia libertà di movimento. Giuseppe Basso, non per niente, era un viceconsole.
La temibile polizia politica fascista, l’Ovra, il cui acronimo non è mai stato risolto, non nacque dunque dal nulla, ma poté avvalersi, secondo le parole di Piero Brunello, “di sistemi di sorveglianza, procedure di schedatura, metodi di archiviazione, strumenti preventivi e repressivi, una routine burocratica e in generale un rapporto tra cittadini e Stato che si erano andati costruendo fin dall’Unità”. La vicenda della sorveglianza ai danni di Monticelli e degli anarchici della bassa padovana è eccezionalmente esemplificativa di questo modus operandi che con il fascismo raggiunse il suo massimo grado di efficienza.
Davide Gobbo ha conseguito il dottorato di ricerca in scienze storiche in età contemporanea presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Siena. Ha pubblicato per i tipi Cierre “L’occupazione fascista della Jugoslavia e i campi di concentramento per civili jugoslavi in Veneto. Chiesanuova e Monigo (1942-43)”, 2011 e “Tra anarchismo e socialismo. Carlo Monticelli nel movimento operaio italiano”, 2013
Pubblicato lunedì 19 Dicembre 2016
Stampato il 30/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/anarchici-fra-infiltrati-e-spioni-a-fine-800/