Care partigiane e cari partigiani d’ieri, di oggi e di domani,
1 – Chi ha chiamato in causa l’ANPI con toni sgradevoli non ha capito che la nostra organizzazione costituisce un ponte tra un passato costituente della nostra democrazia e il futuro rappresentato da molti giovani capaci di costruire un futuro migliore per tutti noi. Sono convinto che l’impegno per i referendum sarà vincente se renderà protagonista una generazione di giovani colpita per oltre il 40% della disoccupazione, dalla precarietà di coloro che sono occupati, dalla frammentazione dei loro ambienti di lavoro, dalla disincentivazione alla partecipazione al voto (fatto relativamente nuovo per il nostro Paese). Una condizione perché ciò avvenga è che la nostra campagna permei gli strumenti di internet che appartengono a questa nuova generazione, con un linguaggio che sia il loro, e con argomenti che sappiano collegare un nobile passato non solo con la difesa di una democrazia sotto attacco, ma con uno sviluppo ulteriore di una democrazia di cittadinanza e di diritti da cui sono e si sentono esclusi.
Basta gettare lo sguardo oltre i nostri confini per constatare che ciò è possibile. In Paesi come la Grecia e la Spagna ciò sta già avendo a causa di una sofferenza sociale aggravata da ulteriori sacrifici imposti da creditori esosi che tuttora dominano organismi sovrannazionali. In altri Paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna esiste una sempre più diffusa consapevolezza di un’ineguaglianza economica che erode anche diritti di cittadinanza. Affermazioni anche parziali come quelle di Bernie Sanders e Jeremy Corbyn, soprattutto tra i giovani, stanno mandando in soffitta sinistre che si sono adeguate ad un ruolo di complemento rispetto a potenti interessi dominanti legati alla speculazione finanziaria. Perché non da noi? E perché una difesa ed una futura espansione di valori e diritti previsti dalla nostra Costituzione non potrebbe costituire l’occasione per una presa di coscienza? Affinché ciò avvenga occorre uno sforzo di memoria, di cui l’ANPI è uno dei custodi più articolati e più influenti, che colleghi i referendum alla condizione concreta che è di tutti noi, ma che colpisce specificamente una condizione giovanili con poche prospettive.
Se vinceranno i SÌ al referendum che si terrà probabilmente a ottobre (sarà il Governo a decidere la data), diventerete sempre meno cittadini di questa Repubblica, sempre più sudditi di un potere che si va rapidamente affermando, anche attraverso questa riforma della Costituzione. Se vincessero i NO potrebbe interrompersi una catena di avvenimenti che ci rende tutti più deboli, più indifesi, soprattutto meno padroni del nostro destino (salvo quei pochissimi che con un clic spostano miliardi e con un sms spiegano al “loro” politico cosa deve fare). Con l’opportunità di partecipare alla costruzione di qualcosa di migliore.
Non vi sarà sfuggito che da qualche tempo anche Matteo Renzi parla del referendum ogni volta che apre bocca. Perché lo vuole trasformare in un plebiscito di SÍ a suo uso e consumo politico – o mangiate questa minestra o salto dalla finestra – mentre si tratta di un mutamento delle regole di convivenza e di decisione che riguardano tutti, non soltanto una maggioranza di governo che le impone secondo la propria convenienza. In realtà siamo chiamati a confermare l’ultimo anello di una catena di decisioni e di avvenimenti che spiegano il senso profondo della minestra che ci viene offerta a ottobre.
Proviamo ad elencarne alcuni.
Dagli anni ottanta del secolo scorso in Italia e nell’intero Occidente cresce l’ineguaglianza: pochi ricchissimi diventano sempre più ricchi e i poveri, sempre più numerosi e più poveri.
Imperversa la finanza a scapito della produzione e della grande maggioranza dei cittadini, al punto di determinare una crisi economica da cui i principali responsabili emergono ancora più forti.
Per porvi rimedio dovrebbe bastare la democrazia. La maggioranza dei cittadini potrebbe eleggere rappresentanti che, ad esempio, separino le banche commerciali – quelle che raccolgono i nostri risparmi e li prestano agli imprenditori – dalle finanziarie che speculerebbero soltanto a loro rischio.
2 – Lor signori percepiscono il pericolo. Nel mese di maggio 2013 la principale banca d’affari degli Stati Uniti – quella stessa J. P. Morgan and Co. che aiutò a stabilizzare il regime di Mussolini negli anni Venti – pubblicò un documento in cui affermò che la democrazia era troppa, specie in quei Paesi, come l’Italia, dotati di costituzioni democratiche che assicurano “troppi” diritti sociali e politici.
Nel frattempo si scredita e si autoscredita la politica, sempre più rissosa e inconcludente, ma anche ingorda. In Italia, dove la corruzione pubblica e privata è di nuovo motivo di giusto scandalo, cala drasticamente la percentuale di cittadini che partecipano al voto, da livelli che oscillavano intorno al 80 % – giusto motivo di orgoglio – alla partecipazione di circa la metà degli aventi diritto. Il riscatto morale del Paese deve cominciare oggi in quanto condizione di una riforma della spesa pubblica capace di costruire lavoro, occupazione, benessere, tutela dei beni ambientali e culturali come condizione di sviluppo sostenibile.
Non a caso al “Porcellum”, la legge elettorale voluta da Berlusconi, sconfessata dalla Corte Costituzionale, ne fa seguito un’altra, denominata Italicum, che riproduce nella sostanza gli stessi difetti della legge precedente.
3 – Stiamo raccogliendo firme per un referendum che ci liberi dalla legge elettorale denominata Italicum. Ma, per riuscirvi, bisogna sgombrare il campo da una riforma costituzionale che obbedisce allo stesso scopo: quello di indebolire o privare noi cittadini di alcun diritti fondamentali. Vediamo in che modo.
La stessa formulazione della domanda referendaria invita a votare SÍ. Ecco la formulazione: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario…”. E chi non è favorevole? Il problema si pone, ma non con un’urgenza tale da giustificare un cambiamento peggiorativo, pur di “fare le riforme”, dell’intera Costituzione. La ricetta di Renzi evita modelli di parlamento che in altri paesi funzionano: il monocameralismo che semplificherebbe radicalmente l’approvazione delle leggi (Svezia, Finlandia, Austria), una sede di coordinamento dei poteri statuali con quelli regionali (Bundesrat della Germania), due Camere forti ma nettamente separate dall’esecutivo e diversificate tra loro (Stati Uniti). Invece, la riforma Renzi-Boschi inventa un “Senato delle Regioni” che duplica la Conferenza Stato-Regioni, complica l’iter legislativo, non riduce se non di poco i costi, limita il suffragio popolare, in maniera non chiaramente definita, a consiglieri regionali e sindaci che, in quanto parlamentari, godono delle previste immunità in caso di incriminazioni.
La riduzione del numero dei parlamentari: poiché la legge conserva inalterato il numero dei deputati (630) e riduce quello dei senatori (da 315 a 100), perché non ridurre anche quello dei deputati?
Il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni: l’obiettivo non viene raggiunto se non in piccola parte, perché resta una seconda Camera, complicando la procedura parlamentare anziché semplificarla – basta confrontare a questo proposito l’art. 70 della Costituzione attuale con l’art. 70 della Costituzione riformata – e il Governo continua ad eludere ogni seria revisione della spesa che costituisce la condizione per la riduzione del debito e per una riforma efficace dell’amministrazione pubblica.
La soppressione del CNEL: pochi verserebbero lacrime sulle spoglie del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, anche se è simbolicamente inquietante che la misura più drastica colpisca la rappresentanza dell’economia e del lavoro, garantiti dalla Costituzione, ma colpiti dalla finanza che ci domina.
La soppressione del Titolo V della parte II della Costituzione”: in maniera confusa e scarsamente fondata su dati restituisce allo Stato alcuni poteri attribuiti alle Regioni da una precedente riforma costituzionale.
4 – Per concludere, una riforma costituzionale ora dannosa ora inutile. Perché diventa la bandiera che il Governo e i suoi alleati vorrebbero a tutti i costi vincente? Per il suo aspetto più grave. Questa riforma è un altro anello di una catena che indebolisce la libera scelta da parte dei cittadini dei loro rappresentanti; il potere del Parlamento rispetto a quello del Governo e che, nella loro degenerazione attuale, lo sorregge e toglie ogni speranza alle giovani generazioni. Insomma, svuota quella democrazia che la Costituzione nella sua forma attuale garantisce e che ci riconosce come cittadini e non come sudditi di un potere nemmeno definito.
Con la vittoria del NO, riprendiamo la strada del nostro autogoverno, imboccata con il Risorgimento, ripresa con la Resistenza, e che oggi deve portarci alla piena attuazione della prima parte della Costituzione che afferma principi e diritti, a cominciare dal diritto al lavoro.
Gian Giacomo Migone, g.g.migone@libero.it iscritto alla sezione ANPI “Dante Di Nanni”, di Torino; già Presidente della Commissione Affari Esteri del Senato (1994-2001)
Pubblicato mercoledì 1 Giugno 2016
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