Il 3 agosto 2024 ci ha ricordato il 74° ferman, ossia il genocidio degli ezidi avvenuto dieci anni fa con l’attacco feroce dell’Isis ai villaggi del distretto di Shengal, nella parte nord-occidentale dell’Iraq. Sono giorni di bilancio questi, dove si cerca di comprendere cosa sia stato o non sia stato fatto e perché.

Shengal è ridotta in macerie

La situazione attuale di Shengal rimane precaria e, per coloro che ancora non hanno fatto ritorno nei luoghi dai quali erano scappati sotto i colpi e le minacce dell’Isis, risulta essere ampiamente insoddisfacente. Lo Stato Islamico ha lasciato dietro di sé, dopo la sua caduta nel 2017, solo distruzione. Case, ospedali, scuole e infrastrutture sono state rese impraticabili e inutilizzabili, se non addirittura rase al suolo. Attualmente circa il 40% delle case del distretto di Shegal, in particolare nella parte meridionale, sono solo macerie da raccogliere e i servizi in tutta l’area sono decisamente al di sotto delle necessità delle famiglie che hanno fatto ritorno, senza dunque contare quelle che devono ancora rientrare.

Bambini ezidi rifugiati

Le persone, donne e bambini, che continuano ad essere nelle mani dei miliziani dell’Isis e di cui, per la maggior parte, non si conosce la sorte, sono 2.693, quelle ancora nei campi profughi superano le 180.000 e le fosse comuni scoperte fino ad oggi sono più di 83 (dati della Free Yezidi Foundation). La condizione materiale e psicologica dei sopravvissuti è delicata. Per le famiglie rientrate a Shengal, oltre a vivere ancora nelle tende fornite dall’Unhcr o da Save the Children, in attesa che le loro abitazioni vengano ricostruite, sono scarse le possibilità di avere sia un lavoro con un reddito sufficiente a far fronte ai bisogni familiari sia il supporto psicologico necessario. Ma le cose non vanno molto meglio per quelle che hanno deciso di rimanere nei campi profughi.

Manifestazione per chiedere la liberazione di Ocalan (Imagoeconomica, Leonardo Puccini)

Il distretto è sotto il peso della contesa tra il governo federale e il governo della Regione del Kurdistan iracheno che rallenta ogni investimento. Tanto Baghdad quanto Erbil infatti vogliono mettere le mani su quella zona che, trovandosi al confine con la Siria, rappresenta un passaggio per sbocchi commerciali molto rilevante. La stessa collocazione geografica alimenta gli interessi regionali della Turchia ma anche dell’Iran, nonché del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) che esercita la sua influenza nella regione del Rojava, proprio al di là della frontiera irachena, in Siria.

Check point in Iraq

Il corridoio che passa attraverso il monte Shengal è strategico per il passaggio di armi e per il transito del commercio illegale. Per l’Iran significa poter far giungere le sue armi nelle basi che ha in Siria ma anche agli Hezbollah in Libano, attraverso le milizie sciite irachene Hashd al-Shaabi, le quali si trovano in più parti del territorio iracheno, incluso Shengal, dove hanno una considerevole influenza politica.

Riunione di attiviste Ezide

Per il Pkk vuole invece dire portare avanti a Shengal come in Rojava il progetto politico del confederalismo democratico, di cui il leader Abdullah Ocalan è il teorico, e infine per la Turchia significa solo problemi con il contendente regionale iraniano e con il nemico di sempre, ossia il Pkk. La Turchia non può tollerare infatti che il Pkk, nato in Turchia nel 1978 per reclamare i diritti repressi del popolo curdo, possa creare nuove zone di influenza e così bombarda il distretto attraverso l’uso frequente di droni, mirando a colpire gli ezidi delle unità di resistenza Ybs e Yjs nonché della Asaysh, polizia interna, tutte formazioni considerate affiliate al Pkk. A peggiorare la situazione precaria del distretto di Shengal è la presenza sul territorio delle mine seminate dall’Isis in fase di ritirata. Il lavoro di bonifica non è ancora terminato.

Per cercare una soluzione per Shengal, Baghdad e Erbil, con la supervisione della missione dell’Onu in Iraq, l’Unami, nell’ottobre del 2020 avevano sottoscritto l’Accordo di Shengal. Questo però è stato concordato e sottoscritto senza alcuna partecipazione della comunità ezida, nonostante si stesse decidendo del suo futuro, la quale è stata scientemente esclusa dalla negoziazione e dalla stesura del documento.

Ritenendo l’accordo ampiamente insoddisfacente, la comunità ezida che ha dato vita all’Amministrazione Autonoma di Shengal, esperienza che deriva dall’applicazione del confederalismo democratico e osteggiata dal governo federale iracheno, da quello della Regione del Kurdistan iracheno e dalla Turchia, si è fortemente opposta all’implementazione, reputandolo un tentativo per addomesticare e ridurre al silenzio gli ezidi. La ferma opposizione contrapposta non ha permesso fino ad ora di dare seguito agli accordi nella loro globalità.

Un’immagine della strage dell’Isis

La legge Yazidi Female Survivors Law, approvata dal Parlamento iracheno nel 2021 per dare il sostegno adeguato alle donne e ai bambini catturati dall’Isis e che sono riusciti a fare ritorno, non ha prodotto i risultati sperati, troppo carica di burocrazia, al punto da scoraggiare il deposito delle domande.

Incontro dell'Associazione Verso il Kurdistan a Borek
Incontro dell’Associazione Verso il Kurdistan a Borek

In questo scenario complesso, gli ezidi che sono già ritornati nel distretto stanno cercando di ricostruire le infrastrutture essenziali per permettere anche a chi vive ancora nei campi profughi di ripopolare la loro terra d’origine. Sanno di correre il rischio altissimo di venire schiacciati dagli attori nazionali e regionali se l’area non dovesse riaccogliere tutte le famiglie ancora lontane. Lavorano alacremente perché sono altrettanto consapevoli del sogno che sta abbracciando non solo i giovani ma intere famiglie di lasciare l’Iraq per l’Europa, il Canada, l’Australia o gli Stati Uniti. Dal 2014 infatti circa centomila ezidi hanno fatto la scelta di abbandonare il loro paese. Per chi resta è pertanto una sorta di corsa contro il tempo per cercare di resistere e attrezzarsi contro i pericoli che sanno di correre.

Laura Boldrini (Imagoeconomica, Alessandro Amoroso)

Nel frattempo nel parlamento italiano, lo scorso dicembre, è approdata la mozione del Comitato permanente diritti umani nel mondo, presieduto dall’onorevole Laura Boldrini, per il riconoscimento del genocidio subito dagli ezidi. Per ora la discussione non è ancora stata calendarizzata. Sarebbe un bel segnale per questo popolo se nel decimo anniversario del genocidio anche il Parlamento italiano seguisse l’esempio di altri parlamenti che hanno già compiuto questo passo.

Carla Gagliardini, vicepresidente Anpi provinciale di Alessandria e componente del direttivo dell’Associazione Verso il Kurdistan odv