Ci voleva la Festa della Liberazione per rimettere in ordine gli addendi nell’infinita disquisizione sul concetto di “digitale”. La tecnica numerica, infatti, ha visto negli anni immolata la sua enorme potenzialità sull’altare pagano della televisione commerciale. Tant’è che il termine è stato sfigurato, ridotto a un aggettivo della regina dei media. Mentre è un sostantivo. Anzi, è il linguaggio, l’esperanto della comunicazione nell’era della Rete e di Internet.
La manifestazione virtuale promossa da #iorestolibero#iorestolibera e dall’Anpi ha riscosso un successo clamoroso: 750.000 connessioni contate, che vanno moltiplicate di due o quattro volte se si considera la capienza dei contatti. Insieme, un po’ prima o un po’ dopo, si sono svolte in Italia iniziative telematiche omologhe promosse da organizzazioni locali dell’Anpi, singoli iscritti, gruppi di antifascisti; insomma una mobilitazione virtuale di dimensioni mai viste in passato.
Potremmo, per difetto, parlare di due milioni di persone che lo scorso 25 aprile hanno celebrato così una scadenza cruciale per la vita democratica, non a caso contraddistinta tradizionalmente da grandi mobilitazioni di massa. Fisiche. La virtualità, chiariamo, non è un’entità astratta e impalpabile, bensì una forma diversa di corporeità. È il futuro, che è già oggi.
E i numeri non ingannano, visto che siamo ben al di sopra dell’audience di un medio talk politico trasmesso in video, cui ci siamo – spesso con noia – abituati.
Eppure, il contesto non era e non è benevolo. Ben 11 milioni di persone non sono raggiunte dalla banda ultralarga. Non solo. Il rapporto Desi 2019 (indice di digitalizzazione dell’economia e della società) della Commissione europea colloca l’Italia al 24° posto tra i 28 Paesi Ue per velocità della connessione. E nell’indice mondiale (Global connectivity index, fonte Huawei) abbiamo un punteggio di 57, lontani dagli Stati uniti (85) e dai principali Paesi europei.
Alle origini di simile “stecca” stanno svariati motivi. A parte il predominio della televisione nell’epoca (mai finita) del “duopolio” Rai-Mediaset, si persero almeno due occasioni concrete.
La prima fu nella prima metà degli anni Settanta del secolo scorso, quando vennero oscurate le prime televisioni via cavo (clamoroso il caso di TeleBiella) e la legge n.103 del 1975 dedicata al servizio pubblico introdusse il cavo, ma solo “monocanale”. Una stortura tecnica per non farne nulla.
Un altro prepotente “duopolio” incombeva: alla Stet-Sip la telefonia, alla Rai le radiofrequenze. E poi, nel biennio 1994-1995, fu bloccato il piano “Socrate” che voleva portare le fibre ottiche in tutta Italia, con un investimento di 50.000 miliardi di vecchie lire. In nome di un’idea assai astratta di concorrenza che, invece, intanto può espletarsi in quanto ne esistano i presupposti strutturali. Soffiavano forti, purtroppo, i venti delle privatizzazioni.
Errori e scelte che paghiamo tuttora. Eccome.
Del resto, nei giorni dell’isolamento forzoso per la pandemia, si sono constatati nella vita vissuta i buchi neri della e nella rete: nello smart working, e nell’e-learning.
Inoltre, le stesse culture mediali sono rimaste molto analogiche, mentre stenta l’alfabetizzazione informatica.
Malgrado i lati bui e le arretratezze, il risultato ottenuto dalla catena antifascista è davvero notevole. E ci offre l’occasione per riprendere una battaglia mai fatta davvero per un utilizzo intelligente dell’età digitale, per finalità socialmente utili e per migliorare il funzionamento della pubblica amministrazione. Dove spesso le strutture non dialogano, i software sono in genere proprietari e i protocolli telematici rimangono ancora vincolati a paralleli quintali di carta.
Si è dimostrato che la rete non è solo prerogativa dei cosiddetti Over The Top (Facebook, Google, Twitter, Amazon, Apple, Microsoft, e così via), gli oligarchi che impropriamente utilizzano i nostri dati come se fossero di loro proprietà. I dati, in verità, dovrebbero essere gestiti in maniera rigorosa e trasparente dallo Stato innovatore. Dalla mano pubblica, con il rispetto della privacy.
L’esperienza del 25 aprile, però, va in controtendenza. E induce ad ulteriori legittimi pensieri. E se la considerassimo una sorta di prova generale per una moderna e aggiornata piattaforma di informazione alternativa? Sì, una piattaforma autonoma e indipendente, messa in piedi e gestita da associazioni, mondi culturali, soggetti e protagonisti di quell’Italia che vuole tutelare la Costituzione repubblicana e i grandi valori della Resistenza.
Un corpo a corpo tra la deriva verso un pericoloso determinismo tecnologico intriso di autoritarismo, e una modalità aperta e partecipativa di fare comunicazione.
Insomma, c’è un network potenziale (on line e off line) di energie da ri-connettere, essendo oggi disperse in rivoli slegati e persino autoreferenziali. Pur in presenza di nuove inquietanti manovre di concentrazione editoriale.
Una rondine non fa primavera, si dice. È vero. Ma i consumi, gli usi e i modelli di fruizione nella dieta crossmediale ci incoraggiano ad osare, a riaprire la questione antica ed attualissima dell’informazione democratica. Attaccata e vilipesa quest’ultima da attacchi e pure da rigurgiti violenti. La libertà è minata in Ungheria, Polonia, Slovenia, Turchia, Iran, Egitto, per citare solo alcuni dei luoghi incriminati. Ma l’articolo 21 della Carta è messo in causa quotidianamente dalle aggressioni mafiose e criminali nel nostro stesso angolo di mondo, non per caso sospinto nella classifica bassa stilata ogni anno dall’associazione “Reporters sans frontières”.
Il sogno digitale deve diventare realtà. O no?
Vincenzo Vita, presidente dell’Associazione Rinnovamento della Sinistra
Pubblicato giovedì 30 Aprile 2020
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