Una impressionante immagine della folla ai funerali di Fidel Castro
Una impressionante immagine della folla ai funerali di Fidel Castro

“Annus horribilis”. È Elisabetta II, regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord ad utilizzare l’espressione a Guildhall il 24 novembre 1992, in occasione dei suoi 40 anni di regno. Direttamente derivata da “Annus Mirabilis”, immagine usata per il 1666 in un poema di John Dryden, la formula rischia di adattarsi perfettamente anche a questo 2016 che va a concludersi.

350 anni dopo quel bel periodo infatti, questi ultimi 350 giorni hanno regalato al mondo poche gioie e molti dolori. Senza fare il triste calcolo di tutti quelli che ci hanno lasciato, un semplice sguardo a chi invece è arrivato, o potrebbe arrivare, si rivela altrettanto angosciante.

Dopo aver vinto le primarie presidenziali di destra, Monsieur François Fillon è il favorito per le elezioni presidenziali francesi del prossimo anno. Il potenziale sfidante d’una ancor più inquietante Madame Le Pen.

E che dire d’un altro contendente, Herr Norbert Hofer? Candidato di destra alle presidenziali austriache del 4 dicembre, che per recuperare qualche voto – dopo essere già stato sconfitto alle elezioni poi annullate di maggio – pare aver rivestito pelli d’agnello per nascondere il suo essere lupo. Con la pistola.

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump

Mentre il pistolero che la sfida l’ha già vinta è ovviamente Mister Donald Trump, che quando gli echi dell’annuncio della morte di Fidel Castro ancora aleggiavano, già minacciava di reintrodurre le sanzioni contro Cuba. Vogliamo continuare così, farci ancora del “morettiano” male? Parlando della Brexit e di Theresa May, ad esempio? E noterete che, per carità di Patria, evito attentamente di menzionare un altro appuntamento fissato per il 4 di dicembre, Santa Barbara, patrona – tra gli altri – di artificieri, matematici, vigili del fuoco, minatori, artiglieri, architetti, tagliapietre, marinai e becchini.

Torniamo ai mali di fuori casa.

Fillon è un grande ammiratore di Margaret Thatcher. L’ex primo ministro di Sarkozy ama la Lady di ferro perché secondo lui ha “rimesso il suo Paese di nuovo in pista”, simbolo d’una determinazione politica inflessibile per fermare una situazione di declino. Come la Thatcher, Fillon vuole tagliare la spesa statale, 100 miliardi di euro di risparmio in cinque anni, sopprimendo 500.000 posti di lavoro nella pubblica amministrazione, innalzando l’età pensionabile a 65 anni, aumentando la settimana lavorativa legale da 35 a 39 ore per i dipendenti pubblici e 48 per i privati. Limitando i sussidi di disoccupazione, aumentando l’IVA di due punti, abolendo l’imposta sul patrimonio dei più ricchi e – ciliegina sulla torta – la maggior parte delle leggi sul lavoro, lasciando la risoluzione delle controversie a livello di settore o azienda per diminuire “il potere dei sindacati”.

Non molti politici francesi hanno poi qualcosa in comune con Donald Trump, ma anche François Fillon è iscritto al fan-club di Vladimir Putin, sognando un’alleanza con Mosca per combattere l’Isis. L’Islam è infatti “un grande problema” – dichiara l’ex primo ministro – e “l’invasione sanguinosa dell’islamismo nella nostra vita quotidiana potrebbe provocare una terza guerra mondiale”.

Francois Fillon

Come il prossimo presidente USA, Fillon non crede che il suo Paese debba essere multiculturale, “Quando andiamo a casa di qualcuno, non cerchiamo di prendere il potere”, ha detto, aggiungendo anche che la Francia non dovrebbe sentirsi colpevole per il suo passato coloniale perché quella era “cultura di condivisione”.

Meglio di lui solo Donald Trump, che stupendo perfino alcuni membri del suo staff, si è allineato con le posizioni di Mauricio Claver-Carone, un conservatore cubano-americano membro della squadra di transizione del neo presidente, che sostiene che le restrizioni commerciali verso Cuba vadano immediatamente reintrodotte perché “il regime di Raúl Castro è altrettanto repressivo”.

Con qualche preoccupazione dal mondo degli affari, visto che la compagnia aerea JetBlue ha inaugurato la scorsa settimana il primo volo commerciale tra New York a L’Avana mentre l’American Airlines, dopo mezzo secolo, faceva lo stesso da Miami.

Fidel Castro. Benché mi fossi ripromesso di non parlare di chi ci ha lasciato, l’attualità impedisce di non citare, almeno “en passant” il volto e la voce di un internazionalismo forgiato al culmine della guerra fredda e probabilmente non ancora completamente compreso. Racconta Gabriel Valdes, ex ministro degli esteri cileno, che in un incontro del 1969 con Henry Kissinger, il futuro segretario di stato americano gli confidò che “Nulla di importante può venire dal Sud. La storia non è mai stata prodotta nel sud. L’asse della storia inizia a Mosca, va a Bonn, attraversa Washington, e poi va a Tokyo. Cosa accade nel Sud non ha nessuna importanza”. Parole smentite dai fatti come i recenti sondaggi politici, visto che negli anni che seguirono, l’Avana diede sostegno militare ed economico, oltre che politico, a gran parte delle lotte popolari di Asia, Africa e America Latina. “La rivoluzione cubana ha fornito una sorta di lingua universale, per la quale perfino la Guinea-Bissau avrebbe potuto sognare un futuro indipendente”, scriveva Antonio Tomas, biografo del teorico anti-coloniale Amilcar Cabral. “Ero un giovane studente quando ho sentito per la prima volta parlare di Cuba e di Fidel” racconta Adriano Pereira dos Santos Junior, leader della lotta di liberazione in Angola, e “La rivoluzione cubana e la sconfitta di Batista è stata enormemente influente per noi in Angola”.

Ed il maldestro tentativo della Baia dei Porci fornisce a Cuba un meraviglioso strumento di comunicazione per convincere il Sud del mondo dell’imperialismo americano, ponendo Castro nella miglior posizione per dichiarare la solidarietà di Cuba alle altre nazioni oppresse, colonizzate o non ancora indipendenti. È in questo spirito che nel 1963, Fidel invia una delegazione di 56 medici cubani in Algeria, che si stava ancora riprendendo dalla lunga guerra di liberazione dalla Francia.

E tutto quindi si tiene e si lega con quelle coincidenze di cui la Storia è maestra.

Fidel Castro
Fidel Castro

Un imperialismo non più soltanto statunitense che oggi assume il nome di “mondializzazione”, fatta di esportatori di democrazia (leggi anche “cultura di condivisione”, come sostiene Fillon, dimenticando che la partenza dei francesi aveva distrutto il sistema sanitario algerino) che oggi predicano il ripiegamento su stessi e l’imposizione di sanzioni commerciali. Ma al contempo esigono il libero mercato per i loro servizi, come la soft brexit immaginata dal primo ministro britannico, che predica un Regno Unito con porte che si aprono in una sola direzione, impedendo agli stranieri di andare oltre Manica ma sostenendo l’ineluttabilità di un sistema in cui le imprese di Sua Maestà continueranno ad approfittare dei vantaggi di un Mercato Unico di cui non fanno più parte.

Un’egemonia basata su politiche che mettono la limitazione dei diritti dei lavoratori al primo posto, la diminuzione delle tasse per i ricchi e una curiosa nozione di investimenti per la ripresa, fatti di sgravi fiscali alle grandi imprese invece che d’investimenti reali.

Il 2016 si chiude quindi all’insegna di grandi incognite. Per la Vecchia Europa, tirata sempre più a destra o in un vortice di populismo; per il nord America, che attonito attende le prime mosse concrete del neo Presidente mentre in Wisconsin comincia un inutile riconteggio dei voti; per la piccola isola caraibica, che chiude un capitolo della sua storia ignorando cosa verrà domani.

I vari movimenti popolari che Fidel Castro ha sostenuto non sempre hanno soddisfatto le speranze dei popoli e alcuni hanno trasformato il socialismo in qualcosa di irriconoscibile, ma come ha sottolineato Nelson Mandela “I cubani vennero come medici, insegnanti, militari, esperti agricoli, mai come colonizzatori … Quale altro paese ha una tale storia di comportamento con la gente dell’Africa?”.

“L’internazionalismo è radicato nella società cubana ed è una parte fondamentale dell’identità cubana che continuerà a vivere, al di là di Fidel” scrive in questi giorni Raquel Ribeiro; l’internazionalismo che pare essere un vocabolo impronunciabile in quell’asse che Kissinger immaginava partire da una Mosca oggi impegnata a ridefinire un’immagine di forza così diversa dai paradigmi dell’Unione Sovietica eppure così simile nella comunicazione, andare a Bonn – oggi indaffarata a tenere sotto controllo AFD e Pegida pensando alle imminenti elezioni – attraversare Washington, che ha forse più domande che risposte ma che certo preconizza l’esatto contrario d’una qualsivoglia apertura internazionale, per finire a Tokio, silente capitale d’un Giappone che ricorda i fasti economici e riapre i negoziati di pace con la Russia, mai conclusi nonostante il 1945 sia ormai finito da un po’.

Filippo Giuffrida, giornalista, Presidente ANPI Belgio, membro del Comitato Esecutivo della FIR in rappresentanza dell’ANPI