Il Terzo Mondo è oggi di fronte all’Europa come una massa colossale il cui intento deve essere quello di cercare di risolvere i problemi ai quali quest’Europa non ha saputo dare soluzioni.
I dannati della terra, F. Fanon

 

«[…] perché alla fine anche questo Terzo Mondo, ignorato, sfruttato, disprezzato, come il Terzo Stato, vuole essere qualcosa». Si conclude con queste parole l’articolo di Alfred Sauvy pubblicato il 14 agosto 1952 dal settimanale “l’Observateur”, è l’ultima frase di una rubrica intitolata “Trois mondes, une planète”. Il demografo francese evoca l’esistenza di due mondi, Paesi “occidentali” e Paesi del “blocco comunista”, tra i quali infuria una guerra fredda e questa opposizione tende a negare l’esistenza di un “Terzo Mondo”, ovvero l’insieme dei Paesi cosiddetti “sottosviluppati”. “Terzo”, appunto, per indicare la sua estraneità rispetto ai due blocchi contrapposti ma anche la provvisorietà delle sue soluzioni, il non essere né socialista né capitalista, persino il carattere premoderno di certe condizioni di vita e cultura.

20 gennaio 1949. Truman al Congresso nel discorso per il secondo mandato

La categoria del “sottosviluppo” era apparsa nel discorso al Congresso del rieletto presidente degli Stati Uniti Harry Truman, pronunciato il 20 gennaio 1949, in cui descrive gli obiettivi di politica estera in quattro punti. L’ultimo dichiarava che gli Stati Uniti avrebbero fornito consulenza ed equipaggiamento militare alle nazioni libere che avessero cooperato con loro nel mantenimento della pace e della sicurezza: «In quarto luogo, dobbiamo intraprendere un nuovo audace programma per rendere disponibili i benefici dei nostri progressi scientifici e del progresso industriale per il miglioramento e la crescita delle aree sottosviluppate. Più della metà delle persone nel mondo vive in condizioni prossime alla miseria. Il loro cibo è inadeguato. Sono vittime di malattie. La loro vita economica è primitiva e stagnante. La loro povertà è un handicap e una minaccia sia per loro sia per le aree più prospere. Per la prima volta nella storia, l’umanità possiede la conoscenza e l’abilità per alleviare la sofferenza di queste persone».

La caccia alla streghe “comuniste” negli anni del maccartismo colpirono anche attori e sceneggiatori di Hollywood

Con la definizione di «underdeveloped areas», improvvisamente, si afferma un concetto cardine che schiaccerà la/e diversità del Sud del globo in un’unica categoria: sottosviluppata. È l’annuncio di una nuova visione del mondo, ovvero tutti i popoli della Terra dovevano muoversi lungo lo stesso binario e aspirare a un solo obiettivo: lo sviluppo. In poche parole, Truman – ideatore della Nato, il cui trattato istitutivo viene firmato a Washington il 4 aprile – dichiara di combattere il comunismo garantendo prosperità ai Paesi sottosviluppati.

Jacques-Louis David, Il giuramento del Terzo Stato nella Sala della Pallacorda. Quadro del 1791 per celebrare l’avvenimento del 20 giugno 1789

Il termine “sottosviluppo” postula l’esistenza di uno e un solo sviluppo, che l’economista americano Walt Whitman Rostow avrebbe poi proposto in Stages of Economic Growth (1960). Nella “teoria dei cinque stadi” il gran numero di Paesi poveri si spiega con il loro ritardo in un processo di sviluppo globale per il quale gli Stati Uniti stanno aprendo la strada; il risultato sarebbe stato una società dell’abbondanza, politicamente ed economicamente liberale. In quest’ottica era quindi opportuno, attraverso aiuti economici e finanziari, accelerare un processo troppo lento, o a volte appena avviato. La nozione di Terzo Mondo sconvolge questa logica affermando che il problema del “sottosviluppo” ricopre dimensioni politiche più complesse: il Terzo mondo – come il Terzo Stato nel 1789 – non era solo povero, ma diverso. Non poteva accontentarsi di più ricchezza (o meno povertà), avrebbe chiesto la fine dei privilegi unilaterali, l’instaurazione di un mondo politicamente e socialmente più equo.

Rosa Luxemburg

Invece l’economista argentino Raúl Prebisch, primo segretario generale della Conferenza delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo (Unctad), dimostra come gli scambi commerciali siano strutturalmente sfavorevoli alle economie esportatrici di materie prime e dunque l’aumento delle loro esportazioni non poteva rappresentare la soluzione ai problemi di sviluppo. Tutt’altro, creavano le condizioni dello «sviluppo del sottosviluppo» come pochi anni dopo saranno definite le economie latinoamericane. Tutte le descrizioni del cosiddetto sottosviluppo nel Terzo Mondo, ha fatto notare in anni recenti Serge Latouche, evocano una condizione di abbandono: «non si tratta solo di carestia e di miseria, ma di un abbandono che porta, anche nei casi meno disperati, a società senza speranza e senza prospettiva». D’altronde già nel 1913, Rosa Luxemburg nella analisi sull’inserimento dei contadini asiatici e africani nel mercato planetario di fine Ottocento aveva compreso che «ogni nuova espansione coloniale è naturalmente accompagnata da questa tenace lotta del capitale contro i rapporti sociali ed economici in cui gli indigeni vivono, e dalla rapina dei loro mezzi di produzione e delle forze-lavoro».

Conferenza di Bandung, la risposta antimperialista del Terzo Mondo

Le voci del Sud del mondo da Bandung a Parigi

«Uragani di risvegli nazionali hanno investito la terra, scuotendola, cambiandola, cambiandola in meglio» tuona il presidente indonesiano Ahmed Sukarno nell’aprile 1955 davanti ai delegati riuniti nella piccola città giavanese di Bandung. Il momento è storico. L’Europa non è più l’ombelico del mondo e la prima (e unica) conferenza afro-asiatica vede la partecipazione di 29 Paesi e oltre 1.000 rappresentanti. La nozione di “Terzo Mondo” adesso prende corpo. Nella città indonesiana al centro degli incontri sono le questioni politiche della decolonizzazione in Asia e in Africa, ma anche il contenzioso tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese, presente ai lavori con una delegazione guidata dal primo ministro Zhou Enlai, che inciderà negativamente sull’esito del summit.

Belgrado 1961, la conferenza in cui si costituì ufficialmente il Movimento dei Paesi non allineati. Vi parteciparono insieme alla Iugoslavia 24 Stati di Asia, Africa e America Latina, che, oltre a respingere la logica dei due blocchi contrapposti, si proponevano di dare impulso al processo di decolonizzazione e al miglioramento delle condizioni economiche del Terzo Mondo

I lavori si concludono con la condanna di tutte le forme di oppressione di tipo coloniale, di segregazione razziale e sfruttamento. I punti della Dichiarazione finale, sulla pace e la cooperazione tra i popoli, ispirati dal premier indiano Jawaharlal Nehru, sono alla base del Movimento dei Paesi non allineati che avrebbe visto la luce a Belgrado nel 1961. I ventinove di Bandung assumono l’azione dell’Onu e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo come faro per procedere sulla strada del disarmo universale, del divieto di produzione, sperimentazione e impiego delle armi nucleari. Ma nei fatti India, Pakistan e Cina proseguiranno la corsa agli armamenti.

È pur vero che l’importanza di Bandung va molto al di là delle sue delibere specifiche. È la prima presentazione a livello mondiale di Paesi che hanno l’aspirazione di trovare soluzioni politiche e culturali all’altezza di un mondo entrato ormai nell’età postcoloniale. Come scrive lo storico inglese Geoffrey Barraclough «non era mai successo, durante tutta la storia dell’umanità, un rovesciamento così rivoluzionario in un tempo così breve. Questo cambiamento di posizione dei popoli asiatici e africani nei confronti dell’Europa fu il sintomo più sicuro del sorgere di una nuova era». Benché non ci sia una perfetta coincidenza né d’intenti né di adesioni fra afro-asiatismo e neutralismo, il proposito di sottrarsi alla morsa della geopolitica (da cui peraltro i Paesi afro-asiatici dipendevano nel bene e nel male) diventa l’asse portante della politica «altra», che sarà chiamata appunto «terza», che dà un senso agli enunciati e agli appelli di Bandung.

L’inviato speciale di “Le Monde” Robert Guillain, coglie lo spirito che emerge: «Di questa conferenza, si scrive già ora in Europa e in America che è la conferenza della rivolta, rivolta asiatica e africana, rivolta contro i bianchi. Veramente, credo che non si tratti di questo. Ecco una rivolta che, vista da vicino, non sembra così violenta, con ribelli più miti di quanto si possa pensare. Questo vuol dire che non bisogna prendere la conferenza sul serio! Sul serio sì, ma non sul tragico. Questa festa in bruno, giallo e nero, da cui sono assenti i visi pallidi, è certo un grande avvenimento del nostro tempo. Ma è per l’appunto una festa, molto più che un complotto. È doveroso dire, a favore di questi inventori indonesiani, che è questo il senso che hanno dato alla riunione. Registriamo almeno questo come punto di partenza: tramite la voce stessa dei suoi organizzatori, la conferenza afro-asiatica assicura di non voler essere una riunione razziale, una macchina di guerra contro l’Occidente, l’inizio di un blocco contro i bianchi».

Nonostante la validità dei principi affermati nel 1955,  Bandung non seppe riprodursi: a impedire una sua riedizione le crisi politiche interne ai Paesi firmatari e la strategia perseguita dalla Cuba di Fidel Castro.

La locandina del Congrès International des Écrivains et Artistes Noirs realizzata da Picasso

Negli stessi mesi in cui si diffonde il concetto di “neocolonialismo” – ambiguo ma pregnante, lo definisce l’africanista Giampaolo Calchi Novati – coniato da Jean-Paul Sarte nel 1956, a Parigi si svolge il primo Congrès International des Écrivains et Artistes Noirs dedicato alla “Crisi della cultura” che si tiene nell’anfiteatro Descartes dell’Università della Sorbona e la cui locandina è disegnata da Pablo Picasso. Gli scrittori più importanti dell’Atlantico nero (Senghor, Césaire, Richard Wright e Fanon) si incontrano per dibattere sul ruolo della cultura per i popoli africani nel progetto di ricostruzione postcoloniale. Un momento fondamentale per la cultura nera, come enfatizza Alioune Diop, direttore della rivista “Présence Africaine” nel discorso di apertura: «Se dalla fine della guerra l’incontro di Bandung costituisce per le coscienze non-europee l’appuntamento più importante, credo di poter affermare che questo primo Congresso internazionale degli scrittori e artisti neri rappresenterà per i nostri popoli il secondo evento di questo decennio». Sebbene sia un incontro dal taglio culturale, gli interventi si legano alla rivendicazione delle libertà politiche, dal momento che Diop incita tutti gli scrittori e artisti africani a insorgere «contro il razzismo e l’imperialismo dell’Occidente», e anche Aimé Césaire critica i disastrosi prodotti della colonizzazione.

Il numero speciale della rivista è lo spunto per la prima pubblicazione di un saggio del trentenne Frantz Fanon, Racisme e culture, in cui attacca il sistema di dominazione coloniale e il razzismo che, seppur considerato una piaga dell’umanità, invita a non «stancarsi di ricercare le ripercussioni del razzismo a tutti i livelli di vita associata»: «l’espropriazione, la razzia, l’assassinio oggettivo si accompagnano al saccheggio di schemi culturali o quanto meno li condizionano». Gli aspetti economici, politici e culturali si intrecciano inevitabilmente con le rivendicazioni e la lotta per le libertà che producono non solo la lotta armata, ma anche un’effervescente produzione letteraria negli anni successivi.

Il Terzo Mondo non era un luogo. Era un progetto.

Il Terzo Mondo, inteso come soggetto multiforme, ha tentato per quasi un trentennio di acquistare autorevolezza a livello internazionale, essere riconosciuto come un interlocutore valido, rivendicare i propri diritti e pianificare strategie di emancipazione e sviluppo autonome dalle grandi potenze in campo economico, culturale e sociale.

Rappresentazione della liberazione della Colombia di Bolívar del poeta José Joaquín de Olmedo

Occorre ribaltare il paradigma di stampo occidentale per comprendere che per quei popoli il concetto di Terzo Mondo ha incarnato, seppur tra mille contraddizioni e difficoltà, un progetto di liberazione, tragicamente naufragato sebbene contasse i due terzi della popolazione mondiale. Ricette di socialismo, nazionalismo, panafricanismo, guerriglia, marxismo, terzomondismo, indo socialismo, statalismo, nazionalitarismo hanno attraversato e scosso i popoli del Sud del mondo a partire dalla fine degli anni Quaranta. Dal forte valore simbolico, la categoria del Terzo Mondo viene utilizzata nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta per imprimere maggiore forza e compattezza al disegno di emancipazione dei popoli che lo animano, ma gli Stati stessi che ne fanno parte attraversano fasi storico-politiche ed economiche difformi e di conseguenza presentano rivendicazioni distinte. I mondi dell’America Latina non si incrociano con quelli afro-asiatici. Quando i popoli africani lottano con le armi per l’indipendenza nazionale, quelli sudamericani rivendicano maggiore giustizia sociale, e solo alcune minoranze entrano nei movimenti di guerriglia sparsi nel subcontinente. Quando, a partire dalla fine degli anni 50, per un periodo i leader africani hanno «iniziato a pensare in modo continentale» (per dirla con Kwame NKrumah), lavorando al progetto politico del panafricanismo, in Sudamerica non accenna a germogliare il corrispondente “panamericanismo” (si pensi ai naufragati progetti ottocenteschi del Libertador Simón Bolívar e di Francisco de Miranda, oppure all’impegno politico del peruviano Haya de la Torre). Questo però non esclude il sostegno reciproco nelle rispettive lotte grazie ai forti legami instauratesi: ne è un esempio la missione di Che Guevara o l’invio dei militari cubani in Congo (in questo caso però con un approccio geopolitico!).

Il Terzo Mondo diventa il melting pot di tutti i popoli anticolonialisti e antimperialisti. Jacques Rabemananjara, uomo politico e poeta del Madagascar, nel 1958 scrive: «Ciò che conta è che nel vocabolario politico di oggi la parola nazionalismo significa in genere l’unanime movimento dei popoli di colore contro la dominazione occidentale». Si spiega così anche la fortuna di termini come ‘movimento afro-asiatico’, ‘paesi in via di sviluppo’ e ‘terzo mondo’. In quest’ottica il “progetto del Terzo Mondo” è la liberazione di tutti quei popoli che in varia misura sono sottomessi e rivendicano il pieno principio di autodeterminazione.

Tra gli anni 50 e 70 il Terzo Mondo ha costituito una forza politica unica ed esterna rispetto al confronto/scontro Usa e Urss che aveva sancito la divisione geopolitica dell’emisfero, ma nonostante i punti condivisi dell’agenda politica quali disarmo nucleare, autodeterminazione dei popoli, sovranità nazionale, diversità culturale, progresso economico, troppo profonde rimangono le contraddizioni e le debolezze strutturali dei governi. Nel processo di emancipazione dell’Africa non solo lo Stato ha la precedenza sulla nazione, ma lo Stato si articola attorno alle formule istituzionali dell’Occidente. Il leader guineano Amílcar Cabral ne intuisce i limiti e pone chiaramente la questione dal palco della prima Conferenza di Solidarietà dei popoli di Asia, Africa e America Latina (nota come Tricontinentale) che si tiene a Cuba nel 1966: «In questo programma non si è fatto alcun riferimento esplicito a una forma di lotta che consideriamo fondamentale, sebbene siamo certi che essa sia ben presente nella mente di quanti hanno redatto il programma. Ci riferiamo alla lotta contro le nostre stesse debolezze […]. Questa battaglia è l’espressione delle contraddizioni interne alla realtà economica, sociale, culturale (e quindi storica) di ciascuno dei nostri Paesi. Siamo convinti che ogni rivoluzione nazionale o sociale che non sia basata sulla coscienza di questa realtà fondamentale corra il grave rischio di essere condannata al fallimento». Latouche l’ha definito “effetto dell’occidentalizzazione”, che non è il risultato di un meccanismo economico in quanto tale, ma di una “deculturazione” che si riproduce a sua volta e si aggrava a causa della terapia adottata per porvi rimedio: la politica di sviluppo e la modernizzazione. Questo è accaduto.

È il 2017 quando l’Onu pubblica il rapporto The State of Food Security and Nutrition in the World nel quale lancia l’allarme sulla rapida crescita degli indici di malnutrizione. Ancora una volta dopo settant’anni, i Paesi più colpiti sono quelli del cosiddetto Terzo Mondo. Paradossalmente sono gli stessi anni in cui la crescita economica dell’Africa subsahariana è un dato incontrovertibile, sia pur gravato da contraddizioni e fragilità: dal 2013 si era registrata infatti una crescita del 4-5% con accelerazioni inusuali in Etiopia, Ruanda, Burkina Faso e Niger, mentre l’economia del Vecchio continente stentava a risollevarsi. Si ripete il rapporto per cui il sistema alimentare «crea la povertà proprio mentre favorisce l’abbondanza di cibo, determina fame e malattie tramite i suoi meccanismi di produzione e distribuzione». Per non parlare delle guerre che già alla fine del secolo scorso avevano prodotto più morti della seconda guerra mondiale.

In Una breve storia dell’uguaglianza Thomas Piketty  ha rilevato che a partire dal 1970 i Paesi più poveri del pianeta si sono impoveriti ancora di più, salvo una lieve ripresa nel decennio 2010-2020. Una delle cause è determinato dal crollo delle entrate dovuto alla perdita dei diritti doganali: ovvero la riduzione delle tasse sugli scambi internazionali non è stata compensata con imposte dirette sui profitti delle multinazionali e sui più alti redditi e patrimoni: gli introiti dei Paesi poveri sono rimasti bloccati a meno del 15% del Pil, mentre quelli dei Paesi ricchi sono passati dal 30 al 40%. Si capisce che con i pochi introiti fiscali gli Stati non riescono a sostenere significativamente settori essenziali come l’istruzione, la salute (e il covid con il mancato accesso ai vaccini ne è un recente esempio), la previdenza sociale.

Più in generale, i Paesi del Sud del mondo assistono al perpetuarsi del micidiale schema centro-periferia che ha legittimato nei secoli lo sfruttamento degli schiavi, del cotone, del legname, del carbone, e oggi del cobalto e del litio.

Andrea Mulas, Fondazione Basso