Molti li ricordano, altri più giovani non li hanno mai conosciuti né hanno potuto apprezzare il loro contributo alla cultura, all’arte, alla scienza, in altre parole alla crescita del pensiero umano. Celebrare i centenari o altre ricorrenze di scrittori, pittori, registi, studiosi, ricercatori, e altre importanti personalità serve forse a trasportali dal loro al nostro tempo per rispondere a domande urgenti della contemporaneità. Poco più di un anno fa prendevano il via in Italia e in moltissimi altri Paesi del mondo tantissime iniziative dedicate ai 100 anni dalla nascita di Leonardo Sciascia. Un ritratto del “maestro di Regalpetra” con Angelo Lauricella, presidente del comitato provinciale Anpi di Agrigento, profondo conoscitore dell’intellettuale siciliano, e anche lui di Racalmuto, il paese dove l’8 gennaio 1921 venne alla luce il “maestro di Regalpetra”, scomparso a Palermo il 20 novembre 1989.
L’8 gennaio 2022, nel giorno della nascita, si sono chiuse le celebrazioni del centenario di Leonardo Sciascia che ha scandito tutto il 2021. Qual è il bilancio delle attività promosse?
L’anno appena trascorso così come il 2019, trentesimo anniversario dalla scomparsa, sono stati l’occasione di ripresa di attenzione su una grande personalità della cultura. A Racalmuto, suo paese natale, in particolare, ma anche in Italia e in molti Paesi europei e del mondo. A Racalmuto naturalmente si sono messi in luce la Fondazione Sciascia e Casa Sciascia, nata in questi anni grazie all’iniziativa e all’impegno di Pippo Di Falco, sindacalista e politico. Sarebbe difficile enumerare le tantissime iniziative tenute nei locali della fondazione dedicata o durante “L’estate di Casa Sciascia” nel Circolo Unione immortalato ne Le parrocchie di Regalpetra. In entrambe, per esempio, sono stati presentati libri che scrittori, critici letterari, docenti universitari hanno dedicato alla ricorrenza: una quantità di opere che rilanciano le idee dello scrittore, il messaggio e l’impegno civile in Italia e nel mondo.
Un rapporto recuperato o mai interrotto con Racalmuto?
Non avremmo lo Sciascia che conosciamo senza Racalmuto, senza le miniere di zolfo, i problemi della popolazione, che erano quelli della Sicilia e del Paese intero. Sciascia ha mantenuto un legame fortissimo con il suo luogo di origine. A Racalmuto si chiudeva in campagna a scrivere, in contrada Noci, prima in una dimora rustica, poi in una bella casa che fece costruire, dove riceveva il mondo della cultura: tanti chiedevano di incontrarlo e lui riceveva tutti. Sei mesi era a Palermo e sei a Racalmuto, fatti salvi i continui viaggi. Nei sei mesi che abitava a Racalmuto scriveva e comunicava con il mondo, la stampa e gli editori attraverso una cabina telefonica che si era fatto installare in campagna, vicino casa: non ha mai voluto avere un telefono privato perché non voleva disturbare la famiglia, quindi andava in una cabina telefonica con i gettoni e da lì comunicava. Sciascia ha avuto un rapporto importante con Racalmuto, ne è rimasto legato, ne parla ovunque si trova – in Spagna, in Francia o in giro per l’Italia. Noi ragazzi lo guardavamo passeggiare con gli amici, e se quando lo si incontrava da solo nessuno, per rispetto, osava avvicinarsi. Dopo le Favole della dittatura, nel 1956 scrive Le parrocchie di Regalpetra, il primo libro e una delle opere più belle che ha scritto. È una sorta di elegia di Racalmuto perché Regalpetra è Racalmuto ed è dedicata ai minatori. Una sensibilità dovuta anche alla storia familiare, perché i suoi lavoravano nel settore dello zolfo, e questa esperienza gli rimarrà addosso per tutta la vita come per il suo amore per i lavoratori. Assieme alla descrizione dei personaggi del paese e del Circolo Unione c’è una specie di grido di amore nei confronti dei lavoratori delle zolfatare e della loro difesa. Sciascia racconta del deputato Dc che va a visitare il circolo dei minatori e di fronte alla situazione di indigenza dà un pugno al tavolo e rompe il lume a petrolio che illuminava la sala, assicura che risarcirà il circolo e poi se ne va. E ai minatori non resta che comprare un nuovo lume.
Riceveva anche voi ragazzi?
Allora ero un giovanissimo dirigente del partito comunista e insieme a un altro mio compagno e amico del paese, Federico Martorana con cui abbiamo fatto una carriera parallela, andavamo a trovarlo per parlare di politica, ma affrontavamo molte difficoltà a parlare con lui de qull’argomento: concentrava la discussione sui fatti e sulle persone del paese e ripeteva in continuazione a ognuno di noi “tu sei figlio di… tuo fratello è… tua zia…”. Insomma: si informava sul paese e andavamo via dopo avergli raccontato tutto e senza aver saputo nulla. Un giorno ci riferì di aver scritto – credo fosse ne Il contesto – che il Pci mandava ancora dei giovani a studiare a Mosca, ma ormai solo i più scemi, “i meno intelligenti” e avendo saputo che un giovane racalmutese era uno di loro ci chiese di presentarglielo. Si chiamava Di Falco ed era pure figlio di un suo amico. Quando lo ricevette lo salutò con “Ecco il cretino!”. Ovviamente non era così.
Era una critica al Pci.
Ne Gli zii di Sicilia del 1963 c’è un episodio stupendo che racconta della destalinizzazione con il sogno di un contadino comunista: il poveraccio si vede spuntare il fantasma di Stalin, che lo richiama e deve affrontare non solo la perdita di un forte riferimento politico e umano, ma anche la negazione di tutte quelle verità che il partito gli aveva dato.
Profondamente antifascista però.
L’incontro con esponenti antifascisti avvenne quando la famiglia, intorno al 1935 si trasferì a Caltanissetta, lì entrò in contatto con la cellula comunista diretta da Calogero Boccadutri, un giovane operaio favarese che aveva avuto problemi con la giustizia perché, coinvolto da uno zio, aveva partecipato a un abigeato, era stato condannato, in carcere aveva conosciuto Umberto Terracini ed era diventato comunista. Tornato a Favara, Boccadutri aveva cercato Salvatore Di Benedetto, il capo dei comunisti agrigentini e il punto di riferimento degli antifascisti (sarà uno poi dei personaggi più importanti della Resistenza nel Nord Italia). Boccadutri chiede a Di Benedetto di inviato a combattere in Spagna per la Repubblica, ma Di Benedetto lo dissuade e lo convince a rimanere in Sicilia, e in particolare a Caltanissetta, per organizzare l’antifascismo. Boccadutri obbedisce e costituisce la cellula che diventerà famosa, iscrive Gino Cortese – poi partigiano e capogruppo comunista del parlamento siciliano – Sciascia, Emanuele Macaluso, Gaetano Costa, il futuro procuratore di Palermo che verrà ucciso dalla mafia, e sua moglie, e tanti altri. Un operaio che riesce a mettere insieme una squadra straordinaria e a tenere i contatti con intellettuali di alto profilo, come sarà con Vittorini in seguito e con l’antifascismo cattolico tramite Giuseppe Alessi, anni dopo fondatore e capo della Dc e successivamente presidente della Regione siciliana e alla fine senatore, che vivrà fino a 104 anni. Era stato Cortese il contatto tra Sciascia e Boccadutri: ciò è testimoniato anche da una lettera in cui Vittorini chiede a Sciascia di Boccadutri, e dal libro che il figlio Franco ha scritto in memoria del padre. Anche l’amore per la Spagna nasce in quel periodo e l’attenzione costante è testimoniata nel racconti L’antimonio del 1958, Ore di Spagna del 1988 e La Spagna nel cuore.
Sciascia durante la guerra di Spagna era un adolescente.
Aveva una mente acutissima, pur così giovane. La guerra in Spagna è per lui la bufera che con la Repubblica spagnola anche la democrazia, nel disinteresse delle grandi democrazie europee. Questo disinteresse darà la vittoria a Franco e rafforzerà il nazismo e il fascismo e porterà alla Seconda guerra mondiale. Sciascia ha un’immediata sensazione di tutto questo e si schiera con l’antifascismo mentre cresce in lui una grande sensibilità sociale che ne fa un osservatore attento, capace di una lettura radiografata della realtà. Comprende pure che in Italia il fascismo aveva arruolato un vero esercito mercenario per schiacciare la Repubblica spagnola e Sciascia segue queste persone disposte a morire per il soldo, senza altra motivazione, e a uccidere compatrioti che volevano difendere la Repubblica, Luigi Longo e gli altri che creano le Brigate Internazionali. Sciascia stava dalla parte dei combattenti per la Repubblica. Lui stesso diceva che il suo antifascismo era radicato nella guerra di Spagna. Ha sempre rivendicato l’adesione in clandestinità alla cellula di Boccadutri, ma non si iscriverà più al Pci.
In seguito anche con intellettuali comunisti avrà rapporti difficili.
Sciascia ha sempre promosso i giovani e meno giovani scrittori siciliani come Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo, li ha scoperti e fatti conoscere al mondo. Russello di Favara viene ripreso e rilanciato come Rosso di San Secondo, Di Giovanna, Navarro della Miraglia. Ma oltre la regione era in stretto contatto con Calvino e Pasolini. Per tornare ai siciliani: fu grande amico di Vittorini e proprio per lui di frantumò il rapporto con suo altro grande amico, Renato Guttuso.
Sciascia non aveva avuto la stessa visione del Pci sul terrorismo e sulla lotta alla mafia.
Sciascia non firma nessuno degli appelli degli intellettuali contro il terrorismo e perciò è criticato dai suoi migliori amici, grandi scrittori come Pasolini e Calvino. Non volle schierarsi, sosteneva che tra lo Stato e le Brigate Rosse, era allo Stato che pagava le tasse. Sappiamo ormai storicamente che ci state collusioni da parte di alcune forze interne allo Stato. Sciascia, antidemocristiano, nel 1974 aveva ha scritto Todo modo, inserendo lo statista Dc nel contesto del partito dello scudo crociato. Dopo l’uccisione di Moro affermerà era il meno peggiore dei democristiani, ma quando era uscito il film omonimo di Elio Petri ne aveva rifiutato la paternità definendolo “pasoliniano”. Però, contestualmente, voleva uno Stato che non nascondesse la verità, come invece aveva fatto in passato con Portella della Ginestra, quando la sentenza di Cassazione aveva stabilito che non era stata una strage politica. Accusava lo Stato di aver mentito sui rapporti intessuti tra l’ispettore Messana e il bandito Giuliano e la sua banda: uno Stato che ometteva le responsabilità sugli attentati terroristici. La polemica era divenuta molto aspra ed era intervenuto Giorgio Amendola, opponendo le ragioni dello Stato e la difesa della democrazia. Io credo che Amendola avesse ragione, che avessero ragione un po’ tutti, il Pci, la Dc, Zaccagnini… E che allora il dovere di tutti fosse arginare il terrorismo, farlo diventare un elemento prioritario e individuarlo come il vero nemico. Anche Sciascia aveva delle buone ragioni, la sua è stata comunque una voce autorevole in difesa dello Stato democratico e delle garanzie costituzionali.
Non è stata la sola polemica fra Sciascia e il Pci.
La prima risale a poco dopo la Liberazione e avrà strascichi a distanza di decenni. Vittorini aveva avviato per Einaudi la pubblicazione di scrittori americani, mettendoli in rilievo, soprattutto Hemingway. Ciò aveva irritato Mario Alicata, responsabile cultura del Pci di quel tempo, che aveva aspramente criticato Il vecchio e il mare. Alicata aveva addirittura chiesto l’allontanamento di Vittorini dal partito, che cercò di evitare fino all’ultimo la rottura, rivendicando però la legittima autonomia di intellettuale, scrittore e direttore della casa editrice Einaudi. Alla fine venne allontanato dal Pci e quella vicenda influirà per sempre sul rapporto tra Sciascia e il partito. Sciascia manterrà un rapporto di simpatia e qualche volta di adesione alle lotte e alla politica di opposizione del Pci e confermerà sempre il suo amore per il popolo comunista, ma rimarrà fortemente critico verso i dirigenti nazionali. L’altro forte contrasto con il Pci si accende quando Berlinguer lancerà il compromesso storico e l’apertura verso la Dc. Sciascia dirà senza mezzi termini. “Io non seguo, se ci devo andare, ci vado da solo”. Il momento più duro arriva però quando il Pci convoca una conferenza nazionale sulla cultura, promossa da Giorgio Napolitano, al tempo responsabile culturale del partito. Sciascia rifiuta di partecipare alla conferenza, credo per quanto accaduto con Vittorini, nonostante fosse ormai scomparso. Berlinguer prova di chiudere la questione chiedendo a Guttuso di convocare Sciascia per una discussione informale. Sciascia accetta con piacere, il confronto si svolge in un clima amichevole, si parla anche del terrorismo e Berlinguer si lascia sfuggire – almeno, così si dice, gli atti processuali dicono cose diverse – che i servizi segreti cecoslovacchi avevano aiutato il terrorismo rosso italiano. Berlinguer chiede riserbo sull’argomento, ma Sciascia rende pubbliche le dichiarazioni e Berlinguer lo querela. Si arriva in tribunale e Sciascia chiama a testimoniare Guttuso, che però dà ragione a Berlinguer. Sciascia si sente tradito dall’amico siciliano e quando, è il 1987, Guttuso in punto di morte cercherà Sciascia, forse per chiedere perdono, lui pur addolorato, non telefona, non gli perdona il tradimento della verità.
Voi giovani del Pci avete polemizzato qualche volta con lui?
Quando nel ’79 si candidò con i Radicali, stava passeggiando nel solito posto da solo e io mi sono avvicinato, gli offrii un caffè e lui accettò con un sorriso, per poi dirmi “Ma lo sapete che sono candidato?”. Io risposi prontamente “Certo, Professore, in paese non si parla d’altro, ma io sono iscritto al Pci”. A Racalmuto prese quasi 700 voti, un vero successo per un candidato non politicizzato.
Sciascia fu tra quanti denunciavano la mafia quando ancora se ne negava l’esistenza. “Il giorno della civetta” è del 1960.
E ne fece una coraggiosa trasposizione cinematografica nel ’68 Damiano Damiani. Però non piacque a Sciascia. Ne parlava con un certo sconforto, arrivando a dire che avrebbe preferito non scrivere quel libro perché nel film era stata mitizzata la figura di Don Mariano, il mafioso che divideva l’umanità fra “uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i pigliainculo e i quaquaraquà”. Il suo forte spirito antimafioso rivive nel capitano Bellodi ispirato al colonnello dei carabinieri Candida, che aveva pubblicato un libro sulla mafia agrigentina, cominciando a fare chiarezza sulla mafia e i rapporti con il potere. Sciascia si era occupato presto delle infiltrazioni mafiose nello Stato. Quando era andato a presentare a Villalba Gli zii di Sicilia gli si era avvicinato Gianco Russo, il numero uno di Cosa nostra. Sorridendo, gli aveva chiesto “Che fa, me lo autografa questo libro?” e Sciascia scrisse “Dedico questa copia allo zio di Sicilia in un libro che è contro gli zii di Sicilia”. Sciascia ha riservato grande attenzione alla formazione del pool antimafia con Rocco Chinnici e poi con Caponnetto, e in seguito con l’arrivo di Falcone e Borsellino. Anche in quel caso però espresse critiche, arrivando a parlare di “professionisti dell’antimafia” quando Borsellino venne cooptato nel pool prima di Falcone. I due giudici martiri si chiariranno tra loro in un convegno sulla giustizia tenuto proprio a Racalmuto. Sciascia ha grande ammirazione per gli esponenti dell’antimafia, lo dirà in tutte le manifestazioni sulla giustizia a cui partecipa. La questione invece aprirà un vulnus con i comitati antimafia, in particolare con quello di Palermo, che lo accusarono di essere un quaquaraquà e di essere passato dalla parte della mafia.
A 100 anni dalla nascita e a 32 dalla scomparsa, qual è la sua eredità secondo Lauricella?
Prima di tutto l’amore per la Costituzione italiana. Sciascia sostiene che ogni cittadino, intellettuale o no, deve rispettare la legge e la Costituzione antifascista. Ma prima di tutto devono farlo o Stato e gli uomini della politica o che hanno cariche pubbliche. L’adesione di Sciascia alla Carta era totale. La difese in tutto, lo conferma la sua opera, direttamente e indirettamente. Sciascia amava visceralmente la Sicilia, mai la lasciò e ne tutelò il patrimonio artistico. Si deve a lui, per esempio, la conservazione dei graffiti di palazzo Steri a Palermo, che era prigione del Santo Uffizio: condannati che gridano, scrivendo con le unghie sui muri, la loro condizione. Dello Sciascia scrittore ci resta una produzione letteraria dalla capacità di spaziare in più ambiti, conservando sempre uno sguardo acuto e a tratti profetico e il suo impegno civile e democratico. Di Sciascia rimane immutata la forza dello spirito critico, contrario a tutte le verità imposte, come dimostra anche la strenua difesa di Tortora. Era un vero eretico, uno che aveva scelto la ragione come guida. Infine – ma non perché meno importante – resta la sua grande umanità, quella che seppe riconoscere Moro come vittima, in egual misura, delle Brigate Rosse e del suo partito. Ha saputo talmente leggere e interpretare la realtà e l’umanità da far diventare Racalmuto, un piccolo paese della Sicilia, la metafora del mondo.
Pubblicato mercoledì 16 Marzo 2022
Stampato il 03/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/sciascia-i-lavoratori-la-mafia-e-il-complesso-rapporto-con-il-pci/