Il termine laico non si riferisce solo ed esclusivamente al mondo delle professioni religiose. In senso politico e sociale denota la rivendicazione, da parte di un individuo o di una entità collettiva, dell’autonomia decisionale rispetto a ogni condizionamento ideologico, morale o religioso altrui. La laicità rifiuta, pertanto, qualunque forma (palese od occulta) di imposizione dogmatica e la pretesa di determinare le proprie scelte morali ed etiche al di fuori di una critica o un dibattito.
Non si confonda laico con ateo. Tale confusione è generata dalla superficialità, dalla volontà di dare spiegazioni alla pancia anziché al cervello, di fare in modo, dunque, di lasciare il distratto interlocutore nell’ignoranza. Diversi e tanti, purtroppo, gli esempi. In modo particolare una parte della politica degli ultimi anni ha proposto rosari, elenchi di santi o preghiere in tv contribuendo – oltre ad un abuso-sopruso improprio e di mercimonio della fede a scopi propagandistici – a una mistificazione che, oltre a sancire la presunta “giusta umanità” di chi professa la sua fede in pubblico, fa suonare laico come anticlericale o ateo, generandone disprezzo.
In politica, nella cultura, nelle fedi, ci sono esempi di persone che hanno inteso il termine laico come scelta secondo coscienza, accettando e affrontando le conseguenze. Nel libro di Lorenzo Tibaldo, Il pensiero resistente. L’obbedienza non è (sempre) una virtù, ho già tratteggiato il significato di uomini e donne che hanno mantenuto alta, fino alla morte, la loro autonomia di pensiero, la loro laicità rispetto a condizionamenti, pur appartenendo saldamente a un ideale. Il sottotitolo, con una “licenza” rispetto alla frase originale di don Lorenzo Milani, suggerisce la figura di un sacerdote che visse, e morì, con una concezione alta della propria dignità di uomo e di sacerdote.
Negli anni della sua attività, non venne certamente digerito dai conservatori e dalle destre perché considerato “cattocomunista”, fu “incompreso”, mal visto negli ambienti cattolici, che preferirono “allontanarlo”, inviso alle istituzioni a cui quali si permetteva di dare indicazioni, venne distrattamente ascoltato dai progressisti perché li superava a sinistra.
Se una persona non va bene a nessuno, è sicuramente in difetto… oppure c’è dell’altro?
Don Lorenzo Milani non è un prete convenzionale. È un sacerdote che sceglie la cultura e l’educazione universale, laiche, per tutti. Nell’ottobre 1947 è cappellano a San Donato a Calenzano, Comune operaio in provincia di Firenze. In quel contesto nasce la Scuola Popolare, dove don Milani vuole che nessuno si senta escluso a priori.
Capisce che chi non ha la possibilità di leggere un giornale o un contratto di lavoro non è in grado di difendersi dallo sfruttamento, né di elaborare un pensiero critico. Si rende conto che senza istruzione l’orizzonte della vita umana si riduce alla conquista di un piatto di minestra da consumare velocemente la sera, per poi andare a letto e ricominciare a piegare la schiena il giorno dopo. In quelle condizioni, anche l’ascolto dei testi sacri durante le messe rischia di diventare un rito di cui non si comprende il significato. A contatto con la povertà e con lo sfruttamento – elaborando le opportunità in cui è cresciuto e la miseria materiale e intellettuale in cui versa il popolo che gli è stato affidato – matura una profonda coscienza sociale e prende posizione pubblicamente. Cominciano le incomprensioni con la gerarchia ecclesiale, che vede in quelle idee un pericolo e non un invito accorato al ritorno al Vangelo.
Don Milani viene mandato in una pieve sul monte dei Giovi in Mugello. Barbiana nel dicembre 1947 è una povera canonica, qualche cipresso, un piccolo cimitero, poche famiglie in case sparse. A Barbiana si sale da una mulattiera, non c’è acqua corrente, né gas, né luce, vi vivono pastori e contadini che faticosamente strappano dal bosco e dalla terra i frutti per vivere. Il religioso capisce subito che i figli di quel popolo sparso, se il pomeriggio vanno a lavorare nei campi o devono badare agli animali, sono destinati a uscire prematuramente dalla scuola di Stato. Senza saper né leggere né scrivere; defraudati, se non nella forma nella sostanza, del loro diritto all’istruzione. Scartati già da piccoli, costretti a delegare in tutto, incapaci di aver voce come persone, come cittadini, e anche come cristiani.
La scuola di Barbiana comincia con un doposcuola, prestissimo diventa avviamento professionale e, nel 1963, corso di recupero per la media unificata. Nella scuola di Barbiana tutto è occasione di apprendimento. Don Milani accoglie i diseredati, quelli senza un’alternativa. L’esperienza educativa di Barbiana sviluppa anche un modello avanzato di autonomia, arrivando persino a mandare i ragazzi da soli all’estero a studiare le lingue.
Gli scritti di don Lorenzo Milani sono espliciti quanto difficili da digerire in quegli anni. Esperienze pastorali, del 1958, è la sintesi dell’esperienza vissuta dal sacerdote. Una riflessione sociologica e razionale sulle condizioni delle comunità in cui opera, sul ruolo del parroco in contesti di povertà materiale e intellettuale. L’esprimersi in modo diretto, infastidisce molti. Poco dopo la pubblicazione, il libro viene ritirato dal Sant’Uffizio.
Con Lettera ad una professoressa del 1967, poco prima della morte, propone una provocatoria disamina sulla scuola pubblica dell’obbligo di quegli anni, incapace di colmare, secondo Costituzione, gli svantaggi iniziali di chi nasce in una casa povera di cultura e di economia. Diverrà uno dei testi di riferimento del movimento studentesco sessantottino.
Poco meno di due anni prima, il 6 marzo 1965, don Milani aveva diffuso un suo scritto in difesa dell’obiezione di coscienza alle Forze Armate. Era una sorta di risposta alla pubblicazione di un documento con cui i cappellani militari della Toscana dichiaravano di considerare “un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”. Don Milani, con una lunga lettera pubblicata su Rinascita il settimanale del Partito comunista, sostiene la difesa dell’obiezione di coscienza contro l’obbedienza cieca. In modo perentorio e definitivo sostiene che l’obbedienza non è più una virtù.
Con linguaggio schietto e diretto, con precisione e puntualità, subito preannuncia tono e argomenti, rivolgendosi direttamente ai cappellani militari: “Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare coi miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi ed io non capiamo. […] Non posso fare a meno di farvi quelle domande pubblicamente. Primo, perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. Secondo, perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono più grandi di voi”.
Già da questo incipit, si denota il suo modo di essere: non parla solo per sé, ma anche per quelli che rappresenta e coi quali, sicuramente, si è confrontato, cioè i giovani. In merito a una possibile risposta che i sacerdoti avrebbero potuto inviargli, don Milani scrive: “l’opinione pubblica è oggi più matura che in altri tempi […]. Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti”.
Don Lorenzo Milani dunque si muove d’anticipo: usare l’insulto come argomento è uno stratagemma per nascondere poche e superficiali argomentazioni.
Poi entra nel merito della parola Patria, argomentando: “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dico che, nel vostro senso io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri” […]. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.
A questo punto don Milani scaglia, con umana passione, fermezza valoriale e salda appartenenza la sua arringa a favore dell’obiezione di coscienza. “Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, quando scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei. Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa. Mi riferirò piuttosto alla Costituzione”.
Parte dal significato degli articoli 11 e 52 della Costituzione, metro di misura per giudicare le guerre dall’Unità d’Italia al secondo conflitto mondiale e soprattutto concentrandosi sul significato di difesa della patria quando si invade un altro Paese, inserendo, nell’analisi, il ruolo dei sacerdoti nei confronti dell’esercito. “Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati”. Per rafforzare il suo pensiero elenca “il risultato delle azioni per la “Patria”: bombardamenti, uccisione di civili, rappresaglie nei villaggi inermi, le esecuzioni sommarie, l’uso di armi batteriologiche, chimiche, la tortura, i processi sommari, la repressione di manifestazioni popolari.
Il tono della lettera aumenta parallelamente al contenuto che sviluppa. Difesa della Patria e il ruolo dei sacerdoti nei confronti dell’esercito esprimono accenti sempre più umanamente accesi e coerentemente efficaci, mai offensivi ma certamente schietti.
“Era nel 1922 che bisognava difendere la Patria aggredita”. Inizia così, puntuale, precisa e spietata, la disamina della dittatura fascista. “Ma l’esercito non la difese. Stette a rispettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l’avessero educato a guidarsi con la Coscienza, invece che con l’Obbedienza cieca, pronta, assoluta quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo”.
Non risparmia l’ignominia della guerra in Spagna: “Nel 1936 cinquantamila soldati italiani si trovarono imbarcati verso una nuova infame aggressione: andare volontari ad aggredire l’infelice popolo spagnolo. Erano corsi in aiuto di un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo governo e al popolo suo sovrano. Coll’aiuto italiano e al prezzo di un milione e mezzo di morti riuscì ad ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d’ogni libertà civile e religiosa” […]. “Avete detto ai vostri soldati cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco? Gli avete detto che agli ufficiali disobbedienti al popolo loro non si deve obbedire?”.
Il secondo conflitto mondiale è l’occasione per una disamina politica sui sistemi di governo del tempo. “I soldati italiani aggredirono uno dopo l’altra altre Patrie che non avevano certo attentato alla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia). Era una guerra che aveva per l’Italia due fronti. L’uno contro il sistema democratico. L’altro contro il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici più nobili che l’umanità si sia data”. Con lucidità tratta la dignità umana sia da religioso, sia da laico e continua: “l’uno (sistema democratico, ndr), rappresenta il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, libertà e dignità umana ai poveri. L’altro (il sistema socialista, ndr), il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri. Non vi affannate a rispondere accusando l’uno o l’altro sistema dei loro vistosi difetti. Sappiamo che son cose umane. Dite piuttosto cosa c’era di qua dal fronte. Senza dubbio il peggior sistema politico che oppressori senza scrupoli abbiano mai potuto escogitare. Negazione di ogni valore morale, di ogni libertà se non per i ricchi e per i malvagi. Negazione d’ogni giustizia e d’ogni religione. Propaganda dell’odio e sterminio d’innocenti. Fra gli altri lo sterminio degli Ebrei. Cosa c’entrava la Patria con tutto questo?” Quindi si rivolge ai sacerdoti che restando fermi sull’obbedienza, “fecero un male immenso proprio alla Patria e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche alla Chiesa”.
Conclude l’analisi sulle guerre, sollevando un’eccezione: la lotta di Liberazione dal nazifascismo: “Ma in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra ‘giusta’ (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altra soldati che avevano obiettato”.
La lettera si avvia alla fine. “Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati. Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dell’obbedienza militare. Quell’obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un distinguo che vi riallacci alla parola di San Pietro: si deve obbedire agli uomini o a Dio?”.
L’ultimo messaggio è rivolto ai giovani, esortando i sacerdoti a professare la verità: “ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l’errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima”.
La visione laica di don Lorenzo Milani e la sua concretezza abbracciano una idea universale di democrazia, indipendentemente dalle singole appartenenze, che raccoglie le esperienze umane, sociali, storiche e culturali che caratterizzano l’umanesimo, riferimento universale per i valori di democrazia e libertà.
Una risposta arriva. Don Milani è denunciato da “un gruppo di ex combattenti”; viene processato per apologia di reato e assolto in primo grado il 15 febbraio 1966. Muore prima della sentenza di appello del 28 ottobre 1967, che dichiara il reato estinto per morte del reo. Ingiusto, in tutti i sensi, umano e giuridico.
Qualche riflessione finale. Don Milani coi suoi scritti turba le coscienze di tutti e non solo a chi si rivolge direttamente. Produrre riflessione critica è il suo intento. Quando questi elementi precorrono i tempi, le parole diventano profetiche tanto quanto non comprese. Davanti a don Milani, che non a caso usa la formula della lettera, c’è sempre un uomo a cui riferirsi. Una persona in carne ed ossa, un qui ed ora a cui rivolgersi. La forza delle parole di don Milani è quella di ragionare nel concreto, per arrivare ai principi. Ciò basta per considerarlo una esperienza, un esempio di vita vissuta, concreta. Di quelle esperienze che, dietro le parole, praticano il lavoro quotidiano senza pensare al bagliore delle luci della ribalta. Don Milani non aveva bisogno di diventare altro, per essere credibile; non aveva bisogno di altri luoghi per professare la sua fede e le sue idee; non aveva bisogno di agganciarsi ad altre appartenenze per essere creduto; non aveva bisogno di solidarietà altre e interessate, per essere compreso; non aveva bisogno di apparire né per tornaconto suo, né per opportunità altre e di altri.
Non è un azzardo, dunque, associare il pensiero del sacerdote don Lorenzo Milani ad un pensiero laico. Il termine laico, dunque, assume caratteristica di forza della ragione che non è mitigare o mortificare le proprie idee, anzi, averne una consapevolezza tale da renderle universali. Quella forza della ragione che è appartenenza chiara, esplicita ed esplicitata e, in virtù di questo, combatte perché i valori insiti in quella appartenenza, vengano davvero realizzati.
Un atteggiamento laico è, in questo senso, non dover limitare la propria libertà secondo gli ammaestramenti dell’autorità di qualsiasi credo. Perché le convinzioni sono talmente profonde, da non temere di essere libero.
A questo punto qualcuno potrebbe chiedersi: a chi appartiene oggi il pensiero di don Milani? Domanda sbagliata. Le esperienze sono utili per definizione, soprattutto quando sono tangibili e rimangono esempi universali, per tutti. Non perdiamo altro tempo.
Dopo cinquant’anni, il 20 giugno 2017, Francesco è il primo papa della storia a pregare sulla tomba del sacerdote. “Un bravo prete da cui prendere esempio”, le parole pronunciate quel giorno da Bergoglio. Ci voleva Francesco per capire Lorenzo.
Paolo Papotti, componente della Segreteria nazionale Anpi, responsabile Formazione
Bibliografia
- articolo di Elisa Chiari su Famiglia Cristiana del 25 giugno 2017
- “L’obbedienza non è più una virtù”, don Giuseppe Milani, 1965
- “Don Lorenzo Milani. Riflessioni e testimonianze”, Gruppo ex allievi don Milani, 1997
- “Tra parola e conflitto. La comunicazione in Don Lorenzo Milani”, Mauro Bortone, 2008
Pubblicato sabato 6 Marzo 2021
Stampato il 30/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/quel-sacerdote-che-non-poteva-obbedire/