(da Bitonto (Ba) – Anni Trenta”, a cura di Gaetano Brattoli e Alessandra Sgaramella)

Nel numero precedente della rubrica ho affrontato il tema dell’abolizione del voto nei comuni. Cioè il modo in cui la dittatura fascista colpì, per scelta politica, le autonomie locali che, in virtù di libere elezioni, avrebbero potuto opporsi alla volontà centralistica del regime fascista. Contestualmente ho accennato alla modifica dello statuto del partito fascista e alla cancellazione di qualsiasi percorso democratico interno con l’abolizione dei congressi e l’accentramento di ruoli e nomine.

Un primo spunto di riflessione. Un lettore distratto potrebbe eccepire che l’intervento del governo, in tema di organizzazione dello Stato, rappresenti una iniziativa propria delle competenze di un governo. Fermandosi alle mere competenze, potremmo dire che è vero visto che nel 1926 il Parlamento era sostanzialmente composto di yesman.

(Imagoeconomica)

Al lettore distratto bisogna far notare che in politica, le scelte non sono mai a caso; ogni provvedimento è foriero di conseguenze, spesso mascherate da “semplificazione”, “riordino”, “riorganizzazione”, “sburacratizzazione” e quant’altro sposta l’attenzione dal vero contenuto. Altrimenti, usando un argomento dell’oggi, la riforma podestarile sarebbe stata motivata da necessarie “scelte tecniche” giustificandone il significato. Oltre al contenuto, la gravità di quella scelta fu che la riforma degli enti locali, cioè dell’organizzazione dello Stato fu realizzata dal governo e non dal Parlamento. (Una breve digressione. Mai e poi mai si creda che le decisioni che attengono e che ricadono sui cittadini siano scelte tecniche. Qualsiasi decisione presa da chi ricopre cariche pubbliche, eletto o non eletto, è una scelta, è politica).

Un secondo spunto di riflessione. Che un partito intervenga sui propri regolamenti per modificarli, è parte del normale percorso di evoluzione di un partito. Il Partito Nazionale Fascista nasce nel 1921. Il primo statuto aveva plasmato un organismo gerarchico, ma comunque costituito da cariche elettive e controllato da un comitato centrale espresso dal congresso nazionale. Con la modifica del 1926 iniziò un percorso che andò gradatamente a trasformarlo (anche attraverso le successive modifiche del 1928, 1932, 1938 e 1941) in un organismo burocratico, strettamente sottoposto alla volontà del duce e articolato in tutti i gangli della società civile e della pubblica amministrazione.

Il copricapo del segretario pnf

Con la modifica del 1926, in particolare vengono aboliti i congressi a tutti i livelli e viene introdotta la figura del “Federale” di nomina centrale del partito. Il “federale”, cioè colui che governava il partito (e non solo) a livello provinciale, era nominato e revocato dal Capo del Governo Primo Ministro Segretario di Stato (Mussolini) su proposta del Segretario del Pnf che, per statuto, era responsabile verso il duce (Mussolini) dei suoi atti.

In prima fila da sinistra a destra: Giuseppe Caradonna, Costanzo Ciano, Carlo Buttafochi e Roberto Farinacci, segretario Pnf nel 1925

Un lettore distratto potrebbe eccepire che, se un partito decide una tale trasformazione, è comunque una scelta interna, quindi legittima. In realtà ci troviamo di fronte a un partito che decide di essere amministrato non da se stesso, ma dal governo in carica, dallo Stato. Stato e partito coincidono. (Un’altra breve digressione: è possibile pensare che un partito elegga i suoi rappresentati attraverso un processo che vede le assise locali propedeutiche a quelle nazionali? Possibile pensare che un partito elegga prima il suo rappresentante nazionale e, solo dopo quelli locali, invertendo la piramide della partecipazione democratica? I processi democratici non si capovolgono, si applicano nelle loro procedure. Per carità, possono esistere partiti che partono dall’alto e non dalla base, se piace il partito del capo).

Il federale era il capo della Federazione provinciale; segretario del fascio del capoluogo di Provincia; provvedeva alla nomina del direttorio federale e designava i vicesegretari federali; nominava i segretari politici e i componenti i direttori dei fasci di combattimento. Secondo lo statuto del Pnf era al quarto posto tra i gerarchi del partito ed era membro di diritto del Consiglio nazionale del partito e, dal 1939, della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Figura importante nell’organizzazione periferica del Pnf e nel collegamento fra Roma, cioè la direzione del Partito e la provincia, dalla grande città al più piccolo comune.

Il 1926, fra abolizione del voto comunale e nomine apicali partitiche, mette al centro il tema della gestione del potere nei livelli decentrati dello Stato e del partito, nella consapevolezza che entrambe le figure protagoniste sono, in modo diverso, “dipendenti” dal centro. Da Roma: il prefetto (carica istituzionale) e il federale (carica partitica).

Cesare Mori fu nominato prefetto di Palermo nel 1925 con poteri di intervento in tutta la Sicilia. Nel 1929 l’opera del prefetto di ferro si considerò conclusa con “l’indiscussa vittoria del nuovo Stato sulla mafia”…

La figura del prefetto, con l’avvento del regime fascista e del partito unico, inizia ad essere modificata in senso autoritario. La legge n. 660 del 3 aprile 1926, definisce le “Estensione delle attribuzioni ai Prefetti” da cui emerge che “I Prefetti provvedono ad assicurare, in conformità con le direttive generali del Governo, unità di indirizzo politico nello svolgimento dei diversi servizi di spettanza dello Stato e degli Enti Locali, entro l’ambito delle rispettive provincie”. In maniera inequivocabile viene ribadito quale fosse il ruolo del prefetto nell’ambito dell’ordinamento locale fascista: massima autorità dello Stato e di fedele esecutore della volontà politica del governo centrale.

1930, Il federale di Agrigento (da agrigentoierieoggi.it)

Le trasformazioni creano problemi crescenti man mano che il fascismo occupa segmenti importanti degli apparati statali, avviandosi a diventare un regime totalitario. La concorrenza tra Stato e partito innescata dalla diarchia prefetto e federale genera confusione e rivalità, tanto al centro quanto nelle periferie. Dal 1926 in poi, le province diventano spesso terra di una prolungata guerriglia tra prefetti e “federali”. In gioco è il potere. Chi è subordinato, il partito allo Stato o lo Stato al partito? Viene da pensare che un federale, coi poteri enormi che aveva e rappresentando il volere del duce, difficilmente avrebbe potuto accettare uno status di inferiorità rispetto al prefetto. Non solo per una sorta di “dignità” del proprio ruolo, ma verso il partito stesso, la milizia i fasci, verso cioè tutte quelle nomine partitiche di cui aveva potere.

Agli inizi del 1927, evidentemente, arrivano a Roma echi della difficoltà di rapporto fra le due figure. Il duce, nonché ministro dell’Interno “ad interim”, in una circolare del 5 gennaio 1927 ricorda come il prefetto sia “la più alta autorità dello Stato nelle province” e che egli “deve porre la massima diligenza nella difesa del regime”.

Da sinistra: Emilio De Bono, Attilio Teruzzi, Italo Balbo, Michele Bianchi (in seconda fila), Benito Mussolini, Cesare Maria De Vecchi

Il 7 gennaio 1927, un’altra circolare Mussolini dichiara in modo tassativo e perentorio che il prefetto è la più alta autorità della provincia e che il federale gli deve “rispetto ed obbedienza”. Se da una parte questa disposizione poteva ritenersi un atto di sottomissione del partito allo Stato, dall’altra decretava la subordinazione degli organi dello Stato al regime fascista. Il prefetto cioè diviene fascista, tant’è che fra le sue funzioni vi è anche quella di “procedere alle epurazioni che si rendono necessarie nella burocrazia minore e indicare al partito e agli organi responsabili del regime gli elementi nocivi”.

Nonostante le direttive i problemi rimangono. Per accontentare il partito e i federali o meglio, per prevenire eventuali disagi, fu messo in atto l’allontanamento dei prefetti più invisi ai fascisti e la nomina di “prefetti politici”, cioè provenienti dal partito.

Buffarini Guidi e Himmler

Tra il 1922 e il 1929, 86 prefetti vennero sostituiti da funzionari di nomina politica, 29 provenienti dal pnf. Nel 1935, solo la metà aveva alle spalle un percorso di servizio e due anni dopo, il rapporto tra prefetti di carriera e di nomina del partito fascista vede la supremazia di questi ultimi (su 65 di ruolo sono 31 e 34 nominati dal ministero dell’Interno di cui 10 erano stati squadristi e 13 erano stati segretari provinciali del pnf).

Nella visione totalitaria mussoliniana non c’era spazio per alcun margine di autodeterminazione: dal 1926 i segretari del Pnf e i sottosegretari all’Interno furono sempre nominati fra fascisti di origini squadriste quali Michele Bianchi, Leandro Arpinati e Guido Buffarini Guidi.

Insomma, il governo (guidato da Mussolini) doveva accontentare i fascisti dando loro responsabilità nelle istituzioni (forse perché nell’incapacità di svolgere altri ruoli e, dunque, con funzioni pubbliche diveniva più semplice il controllo dal centro). Nello stesso tempo, il partito (di cui, da statuto, Mussolini è il capo), chiedeva sempre più autonomia di azione e riconoscimento di ruolo, in competizione con i ruoli istituzionali.

Muti, Pavolini, Ricci, Benini e il federale di Firenze

Nel 1930, scrive Emilio Gentile: “esiste ancora un problema insoluto, il dualismo che si riscontra in ogni provincia fra Prefetto e Federale. Avviene quasi dappertutto che il primo viva a rimorchio del secondo e viceversa. S’impone dunque un dovuto equilibrio – non sempre facile a raggiungere – e non è un problema di disposizioni formali, di discorsi, di circolari, ma bensì un problema di conoscenza di situazione provinciale che va risolto non in sede di grandi rapporti, né di adunate, ma nel contatto quotidiano del centro con la periferia”.

I rapporti fra prefetto e federali rimasero, di fatto, sempre in una situazione di precario equilibrio, dipendente spesso dalle relazioni personali e dalla forza insita nell’indole di uno o dell’altro.

Conclusione

Ugo Tognazzi nel film “Il federale” di Luciano Salce, 1961

Mi auguro che il lettore abbia notato una mancanza: i cittadini. Nei Promemoria precedenti, analizzando i vari aspetti della fascistissima legislazione, ho sempre affrontato la ricaduta sulla società attraverso privazioni, soprusi, vessazioni. Il dualismo prefetto vs federale, nel gioco di potere per la tenuta dei vertici decisionali, non tiene in considerazione la società, i cittadini.

Nel 1926 il controllo della società e la repressione del dissenso sono già leggi dello Stato e bisogna fare in modo che siano applicate. Anche a costo di mettere in competizione due cariche di nomina centrale. Perché è anche in questo modo che il regime fascista mantiene il potere, occupandosi di equilibri interni, nominando e accontentando per evitare tensioni e divergenze. Con i cittadini tutto è più semplice, è bastato privarli della libertà.

Paolo Papotti, componente della Segreteria nazionale Anpi, responsabile Formazione


Bibliografia

“La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista”, E. Gentile, 1995

“Il fascismo. La politica in un regime totalitario”, S. Lupo, 2000