Il decentramento amministrativo è sempre tema di attualità. Nella seconda parte della Costituzione, il Titolo V definisce significato, ruoli e competenze degli enti locali.
Ben prima dell’Unità d’Italia era stato il Regno sabaudo a riorganizzare l’apparato statale. Trascorsi pochi mesi dallo Statuto albertino, il regio decreto del 7 ottobre 1848, n. 807, ritenuto punto di partenza del sistema comunale su basi elettive, introduce il voto per eleggere i consigli municipali; in seguito, con la legge del 29 luglio 1896, n. 346, si istituisce anche l’eleggibilità del sindaco. Vorrei ricordare che gli elettori erano solo uomini ed aventi diritto “per censo”.
Con questi punti di partenza uno Stato moderno poteva solo migliorare nell’avvicinare governanti e governati. Infatti il governo Giolitti, nel 1913, dopo aver esteso a tutti gli uomini il suffragio universale maschile per le politiche, lo introdurrà nelle amministrative.
Quando arriva però una ridefinizione degli enti locali e la possibilità, almeno per i sudditi di sesso maschile, di accedere alle cariche pubbliche?
Sarà il regime fascista, che nel frattempo si è “comodamente imposto” nel sistema politico italiano a intervenire sugli enti locali. La volontà di cambiamento è talmente pregnante nella rivoluzione proletaria e fascista, che la legge n. 237 del 4 febbraio 1926 assume carattere di “fascistissima”.
Il grande mutamento arriva con la figura del podestà, dando seguito alla proposta presentata in Consiglio dei ministri dall’allora titolare dell’Interno, Luigi Federzoni.
Prima di entrare in argomento, bisogna soffermarsi sulla definizione di podestà nella storia.
1) il podestà nel comune medievale italiano, è la magistratura unica, nel linguaggio giuridico un organo monocratico contrapposto a organo collegiale, che in sostituzione del consolato ne rappresenta il supremo organo esecutivo; 2) durante il regime fascista, è il capo dell’amministrazione comunale.
In altre parole, si tira fuori dal Medioevo il podestà per proiettarlo nel XX secolo. Con un salto temporale che nemmeno Victor Hugo avrebbe potuto immaginare quando ideò il romanzo “Notre-Dame de Paris”, il fascismo ripristina un organo monocratico a capo del governo di un Comune, abolendo i sistemi elettorali in vigore. Che “l’età di mezzo”, in un sistema politico, economico e sociale feudale, avesse bisogno di un organo unico, essendo assenti i concetti di partecipazione, democrazia e rappresentanza, possiamo ritenerlo funzionale all’epoca, marcando la diversità di un percorso che, successivamente, avrebbe portato ai sistemi di governo parlamentare. Ma se modernizzare significa ritornare a una situazione superata dalla storia, qualcosa non funziona. D’altronde, figuriamoci se nel 1926, anno IV dell’era fascista, in cui apparivano addirittura i numeri romani a fianco della data (a proposito di modernità!), il regime si ponesse il problema della rappresentanza.
Dunque, il 4 febbraio 1926 venne emanata la legge n. 237, “Istituzione del Podestà e della Consulta municipale nei comuni con popolazione non eccedente i 5.000 abitanti”. Qualche cenno al testo: «art. 1. Nei Comuni la cui popolazione non eccede i 5.000 abitanti secondo le risultanze dell’ultimo censimento, l’Amministrazione è affidata a un Podestà assistito, ove il Prefetto lo ritenga possibile, da una Consulta municipale». Con il Rdl del 3 settembre 1926, n. 1910, si estese l’ordinamento podestarile a tutti i Comuni del regno. E la consulta municipale che funzioni aveva? Le materie per le quali ci si poteva avvalere del suo parere erano essenzialmente quelle che, per il loro contenuto, potevano avere influenza sulle sorti economiche e finanziarie del Comune. Essa dava parere in merito alle deliberazioni del podestà concernenti l’approvazione del bilancio, gli impegni attivi e passivi vincolanti il bilancio per oltre cinque anni, la contrattazione dei prestiti, l’imposizione dei tributi, l’alienazione di beni patrimoniali e l’assunzione diretta di pubblici servizi. I consultori municipali erano scelti fra i cittadini che non si trovavano in condizioni di ineleggibilità e di incompatibilità e venivano nominati dal prefetto, (per i Comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti la nomina spettava al ministro dell’Interno). Il loro numero variava a seconda degli abitanti, non era stabilito a priori, bensì fissato caso per caso dal prefetto, che sceglieva tra i candidati designati, stabilì la legge n. 237, dagli enti economici, dai sindacati e dalle associazioni locali. Ebbene, con il successivo d.l. del 3 settembre 1926, n. 1910, avranno facoltà di proposta le associazioni sindacali legalmente riconosciute agli effetti della legge del 3 aprile 1926, n. 563, cioè… solo il sindacato fascista. Risultato: il podestà (di nomina fascista) potrà avvalersi della consulta (di nomina fascista), composta da rappresentanti di interessi economici (persone individuate dai sindacati fascisti), sui temi economici e finanziari del Comune. Il podestà-feudatario e la consulta-cortigiana.
Il funzionamento della consulta dimostra, a differenza dell’antico consiglio comunale i cui deliberati erano elemento necessario ed essenziale per la manifestazione di volontà del Comune, come essa costituisca un semplice organo ausiliario del podestà. Lo spirito medievale della legge è consacrato. Infatti, l’art. 5 chiarisce: «Il Podestà esercita le funzioni che la legge comunale e provinciale conferisce al sindaco, alla Giunta e al Consiglio comunale. La Consulta comunale è unicamente consultiva; essa dà parere su tutte le materie che il Podestà crede di sottoporle».
Il podestà svolge insieme le funzioni di sindaco, giunta e consiglio comunale. In quanto capo, ha facoltà di avvalersi di una consulta, della quale, tuttavia, può non tenere in considerazione le opinioni. Del resto i cortigiani, per definizione, non hanno nessun interesse a contestare il signore feudatario. Per i cortigiani conta altro: avere una posizione e mantenerla, anche se ciò significa dare sempre ragione al capo. E se il sistema cade? In questo caso il cortigiano si tira indietro, sminuisce le proprie responsabilità, accusa “altri”, nega la propria accondiscendenza su atti e scelte. Quanto lo status confligga con la propria dignità, non è definibile per legge. Per un approfondimento sull’ignominia dei cortigiani e la deferenza sempre e comunque al capo, rimando all’ascolto del secondo atto del “Rigoletto” di Giuseppe Verdi, 1851.
L’art. 2 sollecita una ultima riflessione. Cita il testo: “Il Podestà è nominato per decreto Reale. Dura in carica cinque anni e può essere sempre confermato”, a vita. Come avveniva la nomina? Chi propone il nome del podestà?
Visto il ruolo (gli enormi poteri), il contesto politico (che nomina), e soprattutto spulciando le biografie di chi esercitò quel ruolo, si evince che il podestà doveva deve avere:
una solida situazione economica, quale poteva essere quella di professionisti, proprietari fondiari, industriali (in quanto non percepiva, di norma, un compenso);
solide basi nobiliari quali conte o duca;
solide basi morali tipo avere contratto matrimonio con rito religioso;
solide basi patriottiche come aver adempiuto agli obblighi militari (la partecipazione alla Grande guerra era titolo di merito);
solide basi ideologiche come, naturalmente, la fedeltà politica con iscrizione al Pnf.
Fiore all’occhiello: la partecipazione alla marcia su Roma.
Ovviamente non era necessario che una sola persona riassumesse tutte queste caratteristiche. Sempre dalle biografie, si evince che la buona posizione economica era considerato il requisito più rilevante, che, quindi, poteva far passare in secondo piano pure quelle basi “patriottiche” e “ideologiche” tanto care agli italici fascisti.
Un podestà non doveva neppure far parte della comunità del luogo in cui veniva nominato. Nemmeno nei comuni sotto i 10.000 abitanti. Del resto, al feudatario non interessava conoscere i suoi sudditi e le loro condizioni, l’importante era tutelare gli interessi del feudo. Perché i fascisti, a dispetto della rivoluzione proletaria e fascista, sono sempre stati avvinghiati al potere economico che gli ha permesso di esistere.
Il partito fascista (unico partito), nei suoi diversi livelli, individuava un avente diritto (sulle basi di solidità sopra descritte), lo proponeva al ministro dell’Interno (ruolo ricoperto continuativamente da novembre 1926 fino al 1943 da Mussolini), il quale a sua volta lo sottoponeva al re che, considerate le garanzie economiche, sociali e politiche presentategli dai proponenti, lo avrebbe nominato.
E in questi passaggi non è possibile pensare anche ad un confronto col sommo capo del partito fascista, visti gli interessi economici in campo? Un imprimatur di Mussolini sarebbe stata una sicura nomina. Ed ecco quindi, che il segretario provinciale del partito, il federale, proponeva il nome del podestà al segretario nazionale del partito che, per statuto «è nominato e revocato con decreto reale su proposta del duce (Mussolini) ed è responsabile verso il duce (Mussolini) degli atti e dei provvedimenti del Partito”.
Una volta avuto il benestare, il nome sarebbe stato proposto al ministro dell’Interno che, per legge, era subordinato gerarchicamente al capo del governo (Mussolini), che avrebbe potuto destituirlo; quindi si passava al re per la nomina ufficiale. Potrà anche essere fantasia, ma spesso la fantasia serve a spiegare la realtà.
Per chiudere con la legge: Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, per grazia di Dio e per volontà della nazione, firma. Come sempre, tutto.
Per il regime lo scioglimento dei consigli comunali era necessario. L’autonomia locale rappresentava uno degli ostacoli per la fascistizzazione dello Stato. La riforma podestarile voleva colpire, secondo i dettami ideologici della dittatura, l’idea stessa di un governo locale potenzialmente rivolto contro lo Stato. La medioevale novità voleva attaccare, e lo ha fatto, la democrazia e i residui lasciati fino a quel momento dalle precedenti leggi fascistissime. Tra l’altro, se il governo era costituito da un “uomo solo al comando”, perché non riprodurre la stessa figura a livello locale? Ad aggiungersi, guarda caso, è un’altra una rivoluzione, in stile con la legge podestarile, anche all’interno del partito fascista.
Proprio nel 1926, infatti, viene modificato lo statuto del partito. I tratti principali: abolizione dei congressi, istituzione della figura del federale non eletto, ma nominato dal centro. Già perché anche il partito accentra tutto. Sarà, forse, che anche all’interno del partito Mussolini voleva impedire che i livelli locali potessero rivoltarsi contro di lui? Sicuramente il partito viene progressivamente trasformato in un organismo burocratico, strettamente sottoposto alla volontà del duce e articolato in tutti i gangli della società civile e della pubblica amministrazione. Dunque, non c’è bisogno di percorsi democratici ed elettivi, ma di nomine di fiduciari indispensabili finché servono. Partito e Stato coincidono, si chiama fascistizzazione.
Non a caso, in piena Resistenza, il decreto legislativo luogotenenziale del 4 aprile 1944, n. 111, “Norme transitorie per l’amministrazione dei comuni e delle province”, ristabilisce la carica di sindaco, affidandone provvisoriamente la nomina al Comitato di Liberazione Nazionale. In seguito, grazie al decreto legislativo luogotenenziale del 7 gennaio 1946, n. 1 “Ricostituzione delle Amministrazioni comunali su base elettiva”, il sindaco tornerà a essere eletto dal consiglio comunale, figura ripristinata con lo stesso provvedimento insieme alla giunta comunale. La ricostituzione degli organi elettivi dell’amministrazione comunale fu disposta con il dll del 7 gennaio 1946, n. 1. Il Consiglio comunale divenne l’organo di rappresentanza diretta di tutti i cittadini: a esso compete l’elezione, al suo interno, del sindaco e degli altri componenti della giunta. Nell’Italia ormai liberata, fra marzo e maggio 1946 si tennero nei Comuni le prime elezioni libere a suffragio finalmente universale, con il diritto di voto attivo e passivo di donne e uomini. Alle successive consultazioni elettorali del 2 giugno, gli italiani scelgono con il referendum la Repubblica e nelle politiche i membri dell’Assemblea costituente.
In Assemblea costituente viene definitivamente votato l’art. 5 della Costituzione: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento». Viene assunto a principio fondamentale della Repubblica il valore delle autonomie locali affermando, per quanto concerne il principio autonomista, una risposta alle derive totalitarie dell’era fascista.
Nel frattempo, in Italia nel 1926
Stato e istituzioni
16 febbraio: muore in esilio a Parigi Piero Gobetti, già più volte aggredito dai fascisti.
3 aprile: istituita l’Opera nazionale balilla.
3 aprile: disciplina giuridica dei rapporti di lavoro. Riconosciute solo due organizzazioni sindacali, per imprenditori e per lavoratori; divieto di sciopero e serrata; istituita la magistratura del lavoro.
12 aprile: muore a Cannes Giovanni Amendola, più volte aggredito dai fascisti.
19 aprile: accordo tra Italia e Gran Bretagna. Riconosciuto all’Italia il diritto di espansione economica in Etiopia.
2 luglio: istituito il Ministero delle corporazioni. Primo titolare è Benito Mussolini.
8 ottobre: il Gran Consiglio approva il nuovo statuto del Pnf. Nomina non più elettiva ma dall’alto delle cariche.
1° novembre: sospesi i giornali Il Mondo, La Voce Repubblicana, Avanti!, La Stampa, Il Gazzettino, Il Giornale di Sicilia, L’Ora. Assalto di fascisti contro l’abitazione di Emilio Lussu, fondatore del Partito sardo d’azione, che viene arrestato.
8 novembre: arresto di Gramsci e dell’intero gruppo dirigente del PCd’I.
9 novembre: i deputati aventiniani e quelli comunisti sono dichiarati decaduti.
12 dicembre: fascio littorio dichiarato emblema di Stato; data dell’era fascista aggiunta agli atti ufficiali.
27 marzo: edito a Milano il settimanale Quarto Stato, diretto da Pietro Nenni e Carlo Rosselli.
25 aprile: prima rappresentazione alla Scala di Milano dell’opera di Puccini “Turandot”.
Cronaca, costume, sport
4 gennaio: muore a Bordighera la regina madre Margherita di Savoia.
31 gennaio: istituito il Comitato olimpico nazionale italiano (Coni).
21 marzo: Milano-Sanremo vinta da Costante Girardengo.
1° aprile: inaugurato a Torino il primo collegamento aereo con servizio passeggeri d’Italia, tra Trieste e Torino.
23 agosto: campionato di calcio vinto dalla Juventus.
5 settembre: gran premio automobilistico d’Italia vinto a Monza da Louis Charavel su Bugatti.
Giro d’Italia di ciclismo vinto da Giovanni Brunero.
Conclusione
Un ultimo pensiero, per chiarezza. Ricordo a tutti i fascisti di ieri e di oggi che siano “neo”, “post” o “del terzo millennio”, che si presentano alle elezioni con i loro simboli o si mascherano in altre formazioni politiche per farsi eleggere, che è stata la Resistenza, la lotta di Liberazione dal nazifascismo a conquistare il diritto di voto per tutti. Fare il saluto romano in un consiglio comunale non è espressione di un pensiero. È un medioevale gesto da cortigiano servo di una ideologia fallita e punita dalla storia. È un crimine.
Paolo Papotti, componente della Segreteria nazionale Anpi, responsabile Formazione
Bibliografia
“Il podestà fascista. Un momento della costruzione dello stato totalitario”, di L. Di Nucci – 1998
“Fascismo e autonomie locali”, L. Ponziani – 2001
“Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993)”, G. Melis – 1996
“L’organizzazione dello stato totalitario”, A. Aquarone – 1965
Pubblicato lunedì 22 Febbraio 2021
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