È di nuovo il 27 gennaio, il giorno che chiede l’omaggio della memoria, il tributo della pietà, il riconoscimento d’onore per le vittime della Shoah, della catastrofe dei diritti umani che fu alimentata non solo dal razzismo antisemita ed ebbe un raggio più ampio della sola popolazione ebraica. Quando in Germania si passò dalla segregazione civile all’annientamento fisico furono sterminate prima le “vite indegne di essere vissute” di inguaribili e disabili, poi nell’inferno della deportazione insieme a milioni di ebrei scomparvero 500.000 zingari, omosessuali, oppositori politici e dissidenti religiosi, asociali, testimoni di Geova e pentecostali, apolidi e slavi, mulatti, partigiani, prigionieri di guerra e più di 40.000 militari internati italiani. Nessuno saprà mai quale sia stata l’estensione precisa dell’assassinio di massa.
Può la pietà risanare una tale ferita inferta al cuore stesso dell’umanità? Si potrà mai riuscire a onorare degnamente le “tombe scavate nell’aria” di cui parlò il poeta Paul Celan? Ed è possibile raccontare ciò che è stato se non esiste un linguaggio capace di rappresentare l’enormità della sofferenza ingoiata dal buco nero di Auschwitz? Lì si è scavato un baratro tra il dolore e le parole. Lì Dio stesso si è messo in discussione, Elie Wiesel non ha saputo trovarlo che nella lunghissima agonia di un bambino sulla forca. Noi non possiamo interrogare il Dio che fu ad Auschwitz, non possiamo fare altro che fermarci sulla soglia del dolore indicibile. Ma possiamo, anzi dobbiamo, parlare della colpa che è tutta umana e, dunque, riguarda ognuno di noi e la nostra intera vita collettiva, perché gli strumenti dello sterminio erano tratti caratterizzanti della nostra modernità burocratica, politica, industriale, mediatica, e perché la ragione del male si annida nella radice stessa della nostra epoca.
C’è un libro in cui tale doppio volto originario della civiltà occidentale è a confronto, Del razzismo. Carteggio (1843-1859) di Alexis de Tocqueville e Joseph-Arthur Gobineau. Ripubblicato nel 2008 da Donzelli, illumina il rapporto amichevole e conflittuale tra due figure paradigmatiche del moderno. Il primo approfondì in tutta la sua opera, e soprattutto in La democrazia in America, il sorgere di un mondo nuovo e i rapporti fra rivoluzione e democrazia, uguaglianza e libertà, dignità umana e politica, economia e rischi plebiscitari; il secondo disegnò nel Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane (1853-1855) i tratti fondamentali, e disgraziatamente fecondi, di una moderna teoria del razzismo, tra ossessione della decadenza e determinismo biologico. Poiché nella nostra civiltà c’è questa inquietante doppia anima, ha senso il monito di Primo Levi: “Ricordate che questo è stato”.
Noi ricordiamo, ma è difficile inquadrare un tema di queste dimensioni nella struttura normale del discorso storico. Auschwitz non è lo sbocco naturale degli accadimenti che lo precedettero, è una frattura nella coscienza e nella ragione umana; per questo, anche per questo, molti non vollero credere a ciò che stava accadendo e ci sono studiosi che stabiliscono relazioni giustificatorie, o minimizzano, o negano.
Contro il negazionismo si è sviluppata in Europa una tendenza, approdata all’Unione Europea nella Decisione quadro del Consiglio sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia del 2008, che rende penalmente perseguibili “l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra”. David Irving, uno storico autodidatta britannico e negazionista, l’anno prima era stato condannato dalla Corte d’assise di Vienna per apologia del nazismo a tre anni di reclusione, e ne aveva scontato solo uno. Ma si può assegnare ai tribunali il compito di stabilire la verità del passato, e allo Stato quello di determinare che cosa possano o non possano sostenere gli storici e gli insegnanti di storia? Nel 2005 importanti storici francesi dichiararono nel documento Libertà per la Storia: «Lo storico non accetta alcun dogma, non rispetta alcun divieto, non conosce tabù… Il ruolo dello storico non è quello di esaltare o condannare, ma di spiegare… La politica dello Stato, anche se è animata delle migliori intenzioni, non è la politica della storia». Gli storici dunque, e non i tribunali, hanno il compito di smascherare nel merito il negazionismo e le sue pericolose stoltezze.
Il passato ricostruito dagli storici non è però loro patrimonio esclusivo; esso pervade la vita pubblica nelle forme specifiche delle comunicazioni di massa, si concretizza nei luoghi, nei monumenti, nelle lapidi, percorre l’immateriale e incontrollabile tessitura del web, può diventare strumento della lotta politica e dei diversi modi di intendere i fondamenti dello Stato. L’uso pubblico della storia nelle Giornate memoriali, che intendono costituire i punti di riferimento in cui un intero popolo si riconosce, può anche stravolgersi in bene di consumo e ciò comporta il rischio di spettacolarizzazione, repulsione, incomprensioni, sviste clamorose, manipolazioni interessate, rovesciamenti di senso e interpretazioni abusive, rischio che la diffusione dei messaggi digitali amplifica amalgamando verità e menzogne. Già nel 2007 l’appello degli storici italiani Contro il negazionismo, per la libertà della ricerca storica affermava: «È la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che può creare gli unici anticorpi capaci di estirpare o almeno ridimensionare ed emarginare le posizioni negazioniste. Che lo Stato aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge».
È necessario dunque che noi, società civile e non storici specialisti, abbiamo consapevolezza della tragedia e delle sue radici, ma occorre che fin dai banchi di scuola ci siano forniti gli strumenti per comprendere l’abisso fra verità e menzogna perché la suggestione del male è ancora capace di imporsi attraverso una galassia di concetti, opinioni e pensieri malati. Con brandelli sparsi di memoria si costruiscono differenze etniche, si disegna il perimetro di esclusione dell’Altro in quanto altro, e i confini delle terre sono incisi dallo stesso coltello con cui si impiantano tradizioni inventate. Su questi confini si fonda l’immagine del nuovo nemico e si creano le premesse di nuove disumanità. Guai allo Stato che lascia deperire le sue scuole.
Molto, moltissimo resta ancora da fare. Per tutti noi.
Pubblicato mercoledì 27 Gennaio 2021
Stampato il 23/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/pieta-l-e-morta-ancora/