Del popolo curdo tradito non si è parlato perché la notizia del diktat di Erdoğan per accettare l’entrata di Svezia e Finlandia nella Nato è arrivata solo dopo. Ma che la guerra oltre a garantire morte faccia straccio di ogni rapporto di lealtà e rispetto, pure per la verità dei fatti, è stato ben documentato nel corso di Fire – il primo Festival d’inchiesta e reportage giornalistico del Centro di giornalismo permanente (Cgp) – collettivo di ex studenti della Scuola di giornalismo della Fondazione dedicata ai due intellettuali antifascisti Lelio e Lisli Basso – che si è tenuto a Roma dal 22 al 25 giugno. E che il mondo continui ad armarsi lo dice anche l’autorevole Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma. Secondo l’ultimo report, nel 2021 le spese militari hanno raggiunto globalmente i 2.113 miliardi di dollari. Una cifra senza precedenti, aumentata dello 0,7% rispetto al 2020. È il settimo anno consecutivo che vede una crescita che neppure la pandemia ha fermato.
“La guerra è la scelta di gestire un conflitto attraverso l’uso delle armi ed è la negazione del principale diritto umano che è quello di essere vivi. Nel 90% dei casi le vittime sono civili e da questo punto di vista la guerra in Ucraina non fa eccezione” ha detto Rossella Miccio, presidente di Emergency, durante Fire. “La Dichiarazione universale dei diritti umani dice che uguaglianza, dignità e diritti sono il fondamento della pace, della giustizia e della libertà nel mondo – ha continuato Miccio – e la guerra è la negazione di tutto questo. È solo mettendo insieme dal basso le varie sensibilità e competenze che possiamo costruire diritti e dignità”.
Dal basso, anche un singolo individuo, volendo, può fare la differenza. “Le società bancarie dove abbiamo i nostri risparmi spesso ci indicano in quali prodotti finanziari poter investire. Quasi nessuno è a conoscenza di dove vadano a finire quei soldi e cosa stiano finanziando” ha aggiunto Marco Carlizzi di Etica Sgr, società di gestione del risparmio di Banca Etica, il gruppo che ha supportato il Fire e ha come mission il finanziamento di beni comuni attraverso l’uso responsabile del denaro. “In gran parte si tratta di finanziamenti che armano i conflitti – ha spiegato Carlizzi – e le armi non sono un bene comune nonostante in questo periodo si parli di guerra giusta. Per capire quali banche finanziano i conflitti e quali no, si può consultare il sito banchearmate.org”.
Senza mancare di rispetto a chi muore sotto i bombardamenti o su una mina e chi sopravvive a tutto questo, bisogna affermare che la prima vittima di un conflitto è la verità. Ne ha parlato il reporter Valerio Nicolosi, di recente rientrato dall’Ucraina, nell’ambito del panel “Sul fronte. Raccontare la guerra”, riportando il sistema propagandistico nella comunicazione dei due fronti, dell’obiettività e dello stravolgimento dei fatti narrati. Del resto, anche Mussolini era ben a conoscenza del potere degli organi di informazione: il mito del “quando c’era lui” è dipeso anche da questo.
“Il potere della parola combacia con quello di essere o diventare cittadini attivi e di esercitare il potere della democrazia” ha affermato Vera Gheno, sociolinguista ed esperta di linguaggio di genere. “Una persona che ha il dominio della parola tenderà a non farsi raggirare dai media o dal sistema di globalizzazione delle informazioni perché diventa in grado di rispondere in modo critico a sollecitazioni che invece parlano alla pancia o al cuore, come fanno i populismi” ha spiegato Gheno nell’approfondimento “Parole. Linguaggi e narrazioni per raccontare la violenza di genere”, durante il quale Federica Delogu e Claudia Torrisi del Cgp hanno presentato il podcast che sarà presto in onda su Radio3, realizzato in collaborazione con l’associazione Scosse, attiva su questo tema.
L’esodo della popolazione è una delle conseguenze dei conflitti armati, come nel caso dell’Eritrea, dilaniata dal regime dittatoriale di Isaias Afewerki che in trent’anni ha trascinato il Paese in scontri indiretti o diretti con gli Stati confinanti – come nel Tigray dal 2020 – e dove abusi, violenze e torture a danno di civili e prigionieri politici sono all’ordine del giorno. Questo ha reso il popolo eritreo la nazionalità più rappresentata negli sbarchi nel Mediterraneo. Un dramma che si è imposto nel dibattito pubblico nazionale e internazionale, dopo una lunga indifferenza, a seguito del naufragio di Lampedusa nel quale i 368 morti ufficiali furono eritrei.
Un Paese che ha un passato strettamente legato all’Italia: l’odonomastica del cosiddetto “quartiere africano” di Roma venne attribuita dal regime fascista negli anni Trenta con intenti autocelebrativi e per alimentare la macchina del consenso. Definita “la prima colonia italiana”, l’Eritrea venne inserita nel progetto coloniale prima dai governi liberali di fine Ottocento, poi dal fascismo in nome di un “impero” portatore di libertà e civiltà laddove esistevano, secondo la propaganda, ancora le catene della schiavitù. Segregazione razziale, esecuzioni sommarie, pene corporali, persecuzioni, massacri che la storiografia ha portato alla luce, sono tutt’oggi oggetto di duraturi revisionismi e amnesie.
“I giovani vengono mandati al fronte e non hanno un futuro diverso da quello di guerra. Per questo partono” ha detto in collegamento don Moussie Zerai, riferimento per tutte le persone che arrivano in Italia da quella parte di Africa. Candidato al premio Nobel per la pace nel 2015 per il suo impegno con i migranti, don Zerai è stato coinvolto dalla Procura di Trapani nell’inchiesta sulle presunte collusioni tra scafisti e alcune delle Ong che si occupano del recupero dei migranti in difficoltà nelle acque del Mediterraneo. Una vicenda giudiziaria archiviata dopo cinque anni che ha visto riconoscere l’estraneità di don Zerai alle accuse. “La causa dell’esodo dall’Africa – ha concluso – non sono le ong accusate di influire sulle partenze irregolari, ma sono i regimi, le guerre che hanno affamato intere popolazioni per risorse idriche e minerarie”.
Nell’ambito del panel “Fortezza Europa” è intervenuta anche Cecilia Strada, in collegamento dalla nave ResQ attiva per il soccorso che ha detto: “Nel corso degli ultimi anni si è inventato che soccorrere le persone in mare sia un reato e questo offende il lavoro degli uomini e delle donne della Guardia Costiera che sanno benissimo che il salvataggio in mare è semplicemente quello che va fatto”. E ha aggiunto: “Si è inventato la figura del soccorritore in mare come fuorilegge e questo ha comportato porti chiusi e fermi amministrativi che hanno fanno un danno culturale a livello di opinione pubblica che richiederà anni per essere demolito. Il vuoto lasciato nel Mediterraneo viene colmato dalle navi di soccorso della flotta civile che non vorrebbe essere lì perché nessuno dovrebbe rischiare la vita in mare”.
Del reato di favoreggiamento di immigrazione clandestina e del compito che questo ha nell’assolvere i governi europei dalle responsabilità delle morti in mare e nell’attaccare il processo migratorio attraverso la solidarietà tra migranti si è ragionato con Tatiana Montella, avvocata penalista e attivista del collettivo Nonunadimeno. Un reato è parte della politica dell’Unione Europea composta da esternalizzazione delle frontiere, da accordi con Paesi terzi e molto denaro ai Paesi di frontiera per bloccare i flussi migratori. Insieme a un team di legali, Montella ha difeso quattro cittadini eritrei accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in un processo che si è concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati che hanno subito una carcerazione di ventuno mesi, rischiando, per la legge italiana, fino a ventiquattro anni. Ciò che è stato interpretato come reato dagli inquirenti, altro non era che solidarietà tra connazionali: acquisto di un biglietto di un mezzo di trasporto per arrivare in una località transitoria, un pasto, un giaciglio dove dormire per qualche notte.
“Dopo l’arresto sono trascorsi alcuni giorni prima di incontrare un mediatore culturale” ha raccontato Geva, uno degli imputati del processo in questione, leggendo un testo scritto insieme agli altri coimputati. Non capivamo cosa stesse succedendo. Dopo tre mesi ci è stato notificato l’ordine di custodia cautelare scritto in lingua tigrina e abbiamo capito ancora meno. Noi avevamo solo prestato aiuto. Siamo scappati dalla dittatura pensando di rifugiarci in uno stato di diritto ma così non è stato” ha concluso il ragazzo mentre un lungo applauso è scrosciato dalla platea del giardino intitolato al partigiano del Movimento comunista italiano Angelo Galafati, immigrato a Roma dal viterbese e arrestato nella sua casa, poco distante dallo spazio pubblico che oggi ne celebra la memoria, entrata nella rete di solidarietà per supportare militari disertori e soldati alleati che, dopo l’8 settembre 1943, evadono dai campi di prigionia e cercano di passare le linee nemiche verso sud per raggiungere le forze alleate. Galafati viene ucciso dalle SS alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.
Quello di Isaias Afewerki è un regime “del terrore”, come lo ha definito l’Onu, dalle forti ingerenze in Italia – e in alcuni Paesi europei – attraverso la tassa del 2% del reddito di coloro che dall’Eritrea sono fuggiti. Un’imposta che se non pagata comporta la perdita di alcuni diritti nel proprio Paese di provenienza, come quello di ereditare un bene, e soprattutto quello di richiedere all’ambasciata alcuni documenti fondamentali per la richiesta di cittadinanza, con il bene placido delle istituzioni. Chi non corrisponde questa tassa viene perseguitato, dando luogo a una grande contraddizione: se da un lato le istituzioni italiane riconoscono lo status di rifugiato a chi fugge dall’Eritrea, dall’altro consentono la persecuzione di queste persone sul territorio nazionale. Ne ha parlato il giornalista Filippo Poltronieri di Roma Today che insieme a Ludovico Tallarita del Centro di giornalismo permanente ha condotto anche un’inchiesta sui sistemi di propaganda del partito di governo eritreo attivi in Italia, svolta in collaborazione con Archivio Memorie Migranti.
Le politiche di accoglienza dell’Europa sono entrate ulteriormente nel dibattito pubblico dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina che in tre mesi, secondo i dati dell’Agenzia Onu per i rifugiati, ha causato 5,3 milioni di sfollati, accolti sul territorio europeo grazie alla Direttiva 55/2001 che consente di scegliere lo Stato membro in cui fare ingresso. Un approccio ben diverso da quello utilizzato nei confronti delle numerose crisi umanitarie – siriana, afghana, libica, tunisina – a cui si è applicato e si applica il Regolamento di Dublino che, oltre a lunghi tempi di attesa in centri di accoglienza, prevede di fare richiesta di asilo nel primo Paese di arrivo. Per Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale ed esperta di immigrazione, questa potrebbe essere un’occasione per ripensare a un modello di accoglienza universale. E questo dipenderà anche dalla capacità politica delle persone di aggregarsi intorno ad un modello più umano. Approfondimenti, stimoli e riflessioni con esperti di riguardo hanno fatto del partecipato Festival d’inchiesta e reportage giornalistico uno spazio di cui si ha molto bisogno.
Mariangela Di Marco
Pubblicato venerdì 8 Luglio 2022
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/perche-una-guerra-uccide-sempre-anche-molto-lontano/