Evidentemente, prima di finire lo scorso 18 settembre sotto i riflettori della finale per il titolo dei pesi superpiuma al Palachiarbola di Trieste, Michele Broili, triestino ventottenne e pugile professionista, aveva sempre boxato con magliette a maniche lunghe, visto che solo adesso tutti si sono accorti dei suoi eloquenti tatuaggi. Sul pettorale sinistro la doppia esse a fulmine stilizzato, sigla delle Schutzstaffel (SS) naziste, attorniata dal totenkopf, il teschio rappresentato sulle divise di quei reparti, e dal numero 88, chiaro riferimento all’«Heil Hitler» (la lettera H è infatti l’ottava dell’alfabeto). Sul pettorale destro tre energumeni con teste rasate e spranga in mano. E per fugare ogni possibile dubbio, sull’addome campeggia un turrito castello coronato dalla scritta “Ritorno a Camelot”, il raduno organizzato, ogni cinque anni, dal Veneto Fronte Skinheads.
Di certo questi tatuaggi non costituiscono un problema per il suo allenatore, Denis Conte, il quale in un’intervista afferma che «In palestra ci occupiamo di sport e non di politica». Davvero? Eppure Conte, già segretario regionale di Forza Nuova, è ora candidato al Consiglio comunale di Trieste in quota Fratelli d’Italia e, anzi, è piuttosto noto il proselitismo di gruppi e gruppuscoli di ultra destra proprio nelle palestre. L’allenatore difende a spada tratta il suo pupillo, sostenendo non solo che si tratta di «tatuaggi di gioventù» ma anche che «Non c’è un regolamento che lo vieti». Probabilmente Conte si è dimenticato degli articoli 5 e 6 del “Codice di comportamento sportivo” del Coni che recitano rispettivamente:
Principio di non violenza – I tesserati, gli affiliati e gli altri soggetti dell’ordinamento sportivo non devono adottare comportamenti o rilasciare dichiarazioni che in qualunque modo determinino o incitino alla violenza o ne costituiscano apologia. I tesserati, gli affiliati e gli altri soggetti dell’ordinamento sportivo devono astenersi da qualsiasi condotta suscettibile di ledere l’integrità fisica e morale dell’avversario nelle gare e nelle competizioni sportive e adottano iniziative positive per sensibilizzare il pubblico delle manifestazioni sportive al rispetto degli atleti, delle squadre e dei relativi sostenitori.
Principio di non discriminazione – I tesserati, gli affiliati e gli altri soggetti dell’ordinamento sportivo devono astenersi da qualsiasi comportamento discriminatorio in relazione alla razza, all’origine etnica o territoriale, al sesso, all’età, alla religione, alle opinioni politiche e filosofiche.
Sarà la Federpugilato, alla quale il boxeur triestino è già stato deferito, a ricordare a lui e al suo coach le regole, la federazione ha infatti dichiarato che «condanna e stigmatizza con forza e perentoriamente il comportamento del proprio tesserato e si dissocia da ogni riferimento che i tatuaggi offensivi dallo stesso portati evochino. Tale comportamento è in palese contrasto con le norme sancite dal “Codice di Comportamento Sportivo del Coni (art.5)” che la Fpi recepisce».
Che i regolamenti vengano fatti rispettare e che lo sport smetta una volta per tutte e al più presto di essere veicolo di messaggi violenti e discriminatori ce lo auguriamo tutti, da tempo. Intanto però qualcuno potrebbe arcignamente ridersela del “karma” di Michele Broili, soprannominato la “Freccia di Camelot”, battuto da Hassan Nourdine, italo-marocchino, astigiano di 34 anni e «padrone del ring» fino alla decima e ultima ripresa.
L’allenatore Denis Conte sostiene che Broili sia un modello per i giovani pugili… ci permettiamo di suggerirgli un esempio migliore, una storia d’altri tempi, di quando lo sport veniva strumentalizzato dai regimi, in Italia come in Germania.
Nel 1933, in seguito alle leggi di Norimberga (tra cui la norma per la “protezione del sangue e dell’onore tedesco”), Eric Seelig, perché ebreo, fu costretto a rinunciare alla cintura di campione dei pesi medi e mediomassimi.
Il titolo venne messo nuovamente in palio e conteso tra Johann Trollmann, di etnia sinti e soprannominato Rukeli, e “l’ariano” Adolf Witt: era il 9 giugno 1933 e, nonostante l’ostilità e l’ostruzionismo dei giudici di gara, Trollmann – lo “zingaro” – vinse, esultando con lacrime di gioia. Proprio quelle lacrime saranno il pretesto con cui la federazione tedesca di boxe lo priverà del titolo di campione, così nuovamente da combattere.
Sul quadrato il 21 luglio 1933 Trollmann affronterà Gustave Eder, ma sarà costretto a non muoversi dal centro del ring e a tenere la guardia bassa, pena la perdita della licenza da pugile.
Così Trollmann si ribella alla farsa nazista con la sola arma che gli resta, l’ironia: sale sul ring con i capelli ossigenati, il corpo bianco di farina e in questo modo – perfetta caricatura dell’ariano – mantiene fede agli accordi e perde al quinto round. È questo l’episodio chiave, la cifra dell’esistenza di Rukeli Trollmann.
Non importa che poi sia diventato il detenuto n. 9841 nel lager di Neuengamme; non importa che lì fosse costretto a battersi e a perdere contro SS o kapò, per lo spasso dei carnefici; non importa che il kapò Emil Cornelius lo abbia fatto uccidere di botte per essere stato da lui messo ko e alla berlina di fronte agli altri internati: se Dante di nuovo potesse incontrarlo, nell’aldilà, lo rappresenterebbe biondo, bianco di farina. Unico uomo, unico vincitore tra i morti che lo hanno ammazzato.
Pubblicato lunedì 20 Settembre 2021
Stampato il 23/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/nazismo-sul-ring-a-trieste/