Sono passate le 23 quando esco dalla stazione Termini. Lungo i muri perimetrali e i portelloni d’accesso molti homeless si preparano a trascorrere la notte distesi su cartoni e avvolti in logore coperte. La gente passa loro accanto frettolosamente, non li degna neppure di una rapida occhiata; forse perché quella umanità derelitta è considerata ormai parte dell’arredo urbano, dell’ordine naturale delle cose, o forse perché suscita un oscuro senso di colpa. La scena provoca in me sofferenza e, insieme, rabbia; la memoria va spontaneamente alla scena finale di Miracolo a Milano di De Sica, ai barboni che volano nel cielo a cavallo delle scope dei netturbini, verso la libertà e la felicità negate nel mondo reale. E mi sorprendo a riflettere sul fatto che per lungo tempo l’arte ha rappresentato la condizione degli strati sociali più umili (i contadini, gli operai, la “plebe” metropolitana), spesso riuscendo a coniugare la realtà e l’utopia, la denuncia delle disuguaglianze e la fiducia – anche volontaristica, talvolta persino irrazionale – in un mondo più giusto: mentre ora non si cura degli “ultimi”. Ripenso con nostalgia (lo confesso) alla sobria epica di Pelizza da Volpedo, e al filone realistico che ha attraversato oltre un secolo della nostra letteratura, da Manzoni e Porta a Verga e ai narratori veristi, da Alvaro e Silone ai romanzieri neorealisti, fino a Testori e a Pasolini. Ma altri nomi mi vengono alla mente: quelli di Zola, Gorkij, Caldwell e Steinbeck, per esempio, la cui opera testimonia come l’attenzione prestata dagli scrittori alle periferie della società, alle situazioni di esclusione, di marginalità e di degrado, non sia stato un fenomeno soltanto italiano. E mi chiedo perché oggi la letteratura prediliga l’invenzione di mondi fantastici, la rievocazione di un passato spesso leggendario, o insegua la cronaca, oppure – ancora – ripieghi nell’intimismo, indulga a un facile psicologismo.
Anticipo due obiezioni. La prima è che le considerazioni appena fatte tradiscono nostalgie passatiste, ripropongono un’idea ingenua di realismo, assegnano alla letteratura una funzione documentaria, continuano ad attribuirle un compito pedagogico (o addirittura, e peggio ancora, propagandistico), peccano di populismo (accusa micidiale, coi tempi che corrono). La seconda è che il quadro della coeva produzione narrativa in precedenza abbozzato risulta approssimativo, parziale, persino ingeneroso. Ora, non v’è dubbio che quella di realtà sia una nozione estensiva, complessa, poliedrica; che non esiste soltanto la realtà materiale, “oggettiva”, sociale; che sono reali anche gli stati d’animo, i moti interiori, le passioni, i sentimenti; che la società stessa è un organismo variegato, articolato, stratificato. Altrettanto innegabile è che le avanguardie abbiano demolito i fondamenti delle poetiche e delle estetiche che hanno per secoli, e fin nel cuore del Novecento, dettato le norme della creazione letteraria: oggi nessuno pretende che un romanzo si uniformi al principio del verosimile, alla teorica del rispecchiamento o alla concezione dell’arte come intuizione lirica. Parimenti, nessun lettore appena scaltro negherebbe l’effetto di conoscenza e il sostrato etico delle – mettiamo – favole “cosmicomiche” di Italo Calvino. Pur tuttavia, riesce difficile sottrarsi all’impressione che la realtà raffigurata nei romanzi sia per solito unidimensionale, e soprattutto che gran parte della narrativa attuale rifiuti di fare i conti con alcuni fra gli aspetti più clamorosi della nostra epoca. Né uno scrittore che manifesti solidarietà sentimentale e morale con la causa dei reietti (siano essi i poveri, i giovani disoccupati, i migranti) può essere tacciato di inclinazioni populistiche; al contrario, gli andrebbe riconosciuto il merito di contrastare il cinismo imperante.
Si dirà: ma i libri di Saviano, che affrontano problematiche di drammatica rilevanza (la criminalità organizzata, le ecomafie, la delinquenza minorile), si vendono in decine di migliaia di copie; d’accordo, ma ne ha vendute tantissime anche Cinquanta sfumature di grigio. E il successo di alcune non-fiction novel, o di opere a metà fra il racconto e il giornalismo d’inchiesta, fra il saggio e il reportage, è quanto meno uguagliato (se non superato) dalla fortuna delle saghe fantasy, delle horror stories alla Stephen King, dei legal thriller, degli instant book, delle biografie romanzate di illustri personaggi storici, dei romanzi “esistenziali” (mi si passi l’aggettivo generico e forse equivoco: per capirsi, sono quelli che vincono i più importanti premi letterari); a riprova, è sufficiente consultare le classifiche dei best seller pubblicate settimanalmente dai maggiori quotidiani. Certo, negli ultimi vent’anni non sono mancati narratori che si sono cimentati – di frequente nella forma dell’autofiction, della trasposizione immaginaria di un’esperienza biografica – con le radicali trasformazioni provocate dall’economia globalizzata nel mondo della produzione e dei servizi, denunciandone gli altissimi costi sociali: mi riferisco alla lenta ma inarrestabile parcellizzazione delle mansioni lavorative, alle antiche e nuove – queste ultime a volte più subdole e invasive – forme di sfruttamento (il lavoro precario e nero, il caporalato nelle campagne), alla drastica riduzione delle tutele sindacali, alla nocività delle fabbriche, alla proliferazione dei quartieri in cui il sottoproletariato indigeno si mescola agli extracomunitari, e che assumono sempre più la natura di veri e propri ghetti. I nomi da fare sarebbero tanti: qui basti ricordare Cosimo Argentina, Silvia Avallone, Andrea Bajani, Mario Desiati, Francesco Dezio, Aldo Nove, Laura Pariani, Stefano Valenti. Anche l’odissea degli immigrati ha trovato accoglienza nello spazio narrativo: ne fanno fede alcuni libri di Alessandro Leogrande, purtroppo prematuramente scomparso qualche settimana fa. Eppure, la curiosità dei lettori sembra orientarsi verso altro tipo di storie; e anche il pubblico delle sale cinematografiche mostra di preferire film di evasione, che ammaliano con gli effetti speciali, o divertenti, oppure lacrimevoli.
In un Paese come il nostro, particolarmente incline a dare credito alla retorica dei “poteri forti”, l’alluvione della letteratura che Jauss ha definito “culinaria” e di una cinematografia di discutibile qualità è addebitata all’industria culturale. Ebbene, è fuori discussione la capacità del sistema editoriale, soprattutto a seguito del processo di concentrazione oligopolistica che ne ha caratterizzato la vicenda recente, di influenzare i gusti del pubblico e di indirizzarne le scelte; ma, per quanto l’offerta possa condizionare la domanda, fra i due termini sussiste un rapporto di reciprocità. E poi, ammettiamo pure che le grandi case editrici, le quali sono imprese e obbediscono alla logica del profitto, siano restie a pubblicare titoli che ritengono indigesti per una vasta platea di lettori; ma il mestiere che faccio mi rende spesso destinatario di romanzi stampati da piccoli editori, non di rado a spese degli stessi autori, e posso assicurare che in essi non vi è alcun tentativo di esplorare realtà sociali per solito trascurate, se non addirittura ignorate: ci si allinea alle tendenze in voga, o ci si rifugia nell’elegia della civiltà contadina (all’insegna del motto “si stava meglio quando si stava peggio”), nella rimemorazione dell’infanzia. Mi convinco così che la letteratura è il termometro di una società, che la radice dei modelli in essa dominanti va ricercata in una qualche patologia dello spirito pubblico.
Del resto, vi sono alcune coincidenze che fanno riflettere. Il realismo romantico fu una delle espressioni della parte più avanzata della borghesia e dell’intellettualità italiana, impegnata nella battaglia per l’unità nazionale e per la costruzione di uno Stato moderno, finalmente emancipato dagli insopportabili vincoli che l’ancien régime aveva imposto alla crescita economica, sociale e civile. Il verismo (che annoverò fra i suoi massimi esponenti – non lo si dimentichi – scrittori meridionali) metteva a nudo gli squilibri territoriali ereditati dallo Stato unitario, pur manifestando scetticismo sulla possibilità di sanare le ataviche piaghe che affliggevano i lavoratori delle campagne. Il neorealismo fiorì in una stagione in cui un Paese devastato da una lunga e terribile guerra trovava nella libertà riconquistata le energie per risollevarsi dalle macerie, e credeva che gli ideali e i valori coltivati per un ventennio dall’antifascismo, consacrati dalla Resistenza e sanciti nella Costituzione repubblicana, avrebbero garantito un futuro di democrazia, di giustizia sociale, di piena attuazione dei diritti politici e civili, di rispetto e valorizzazione della dignità del lavoro, di pace. La stessa “letteratura industriale” (quella – per intendersi – dei Bianciardi, Mastronardi, Ottieri, Volponi e di altri ancora) assunse la condizione operaia e intellettuale a paradigma dei profondi mutamenti prodotti nei rapporti sociali, nel costume, nella mentalità dal boom economico, segnalando le contraddizioni e i rischi che la seconda rivoluzione industriale portava con sé senza però demonizzarla, e anzi sottolineando le opportunità da essa offerte.
Insomma, ogni qual volta la nostra letteratura ha abbandonato i favolosi territori del mito, gli scenari di una arcadia di maniera, gli interni borghesi, il microcosmo della soggettività, e ha rivolto lo sguardo al popolo dei campi e delle officine, alle vittime dell’ingiustizia e del sopruso, ai deboli e agli sfruttati, ai relitti della trionfale avanzata della modernità, ciò è avvenuto quasi sempre in concomitanza con significative cesure storiche, con periodi di forte tensione ideale e morale, di slancio ottimistico, di genuina speranza. Come valutare allora una letteratura romanzesca che rimuove la questione sociale e prende a oggetto un milieu rappresentativo di un presunto stato di normalità, non avendo neppure l’onestà di smascherarne la banalità (come erano stati capaci di fare i narratori della scuola verista e scapigliata) e anzi spacciando per eccezione la regola, ingegnandosi a rendere ricchi di sorprese gli stanchi rituali della quotidianità, dissimulando la povertà della vita sentimentale dietro l’enfatica descrizione delle mediocri avventure del cuore, dei patetici rovelli della psiche? Oppure, che propina ai lettori massicce dosi di emozioni artificiali per risarcirli della miseria della loro esperienza reale? O, ancora, che li trasporta in luoghi immaginari, in evi remoti, per distrarli dallo spettacolo deprimente del presente? Romanzi di questo genere sembrano confezionati ad uso e consumo – e su richiesta – di una società afflitta dalla solitudine, preda dell’insicurezza e della paura, priva di fiducia nell’avvenire; ovvero, di individui alla ricerca di alibi che giustifichino il loro egotismo, di placebi che curino la loro sensazione di impotenza, di antidoti ai traumi causati dall’impatto con una realtà minacciosa, di finzioni che restituiscano una parvenza di senso all’esistenza. Si può eccepire che, a voler prendere per buono lo schematico contenutismo del discorso fin qui svolto, occorrerà concludere che questa letteratura è figlia dei tempi, del corso necessario e inarrestabile del progresso; a me appare il segno di un allarmante declino. E comunque, non ce l’ho con i romanzi che vanno oggi per la maggiore; mi preoccupa lo stato di salute della società italiana, e persino – dal momento che le cose non vanno diversamente in altri Paesi – della civiltà occidentale.
Ferdinando Pappalardo, già docente presso l’Università degli Studi di Bari, già parlamentare, presidente dell’Anpi provinciale di Bari, membro del Comitato nazionale Anpi
Pubblicato mercoledì 13 Dicembre 2017
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