Lidia Beccaria era diventata partigiana nel 1943, diciottenne, fresca di diploma magistrale; l’anno dopo era stata deportata a Ravensbrück. Al ritorno avrebbe potuto avvalersi di disposizioni favorevoli ai reduci, ma il provveditore, lo stesso di prima della guerra, le negò il posto di maestra perché la “circolare non parla di deportate”. Quando riuscì ad avere una cattedra Lidia Beccaria trovò che “i programmi erano cambiati e in fretta e furia avevano stampato i libri di lettura. Buttati al macero libro e moschetto, balilla perfetto ora le letture erano infarcite di racconti edificanti, di bambini orfani, tristi, lavoratori, poveri, tutti buoni, tutti generosi. Le storie dei santi si sprecavano, i miracoli della Madonna, le poesie sulla Madonna, i disegni della Madonna riempivano le pagine. Messi alla porta gli eroici balilla, ora l’educazione dei pargoli si basava tutta su chiesa, casa, famiglia, sulle mani callose dei contadini e dei lavoratori. Mi preoccupai di insegnare a leggere e a scrivere senza errori”.
Nel 1945 il ministro della pubblica istruzione Guido De Ruggiero aveva affidato a una commissione in cui prevaleva Carleton Washburne, un pedagogista americano d’avanguardia, la revisione dei programmi per la scuola elementare. Fu abolita la vecchia distinzione fra scuole urbane e rurali, maschili e femminili ma, nel gioco d’equilibrio fra le diverse forze politiche, la premessa ai programmi pose l’obiettivo di una formazione che “per dettato esplicito della legge ha come suo fondamento e coronamento l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica”.
Non sappiamo che cosa ne pensò a quel tempo Washburne, ma era certo che nella scuola fosse necessario un vento nuovo: “Io, giovane maestro ancora fresco di studi ma inesperto sul piano didattico, venni mandato allo sbaraglio in una scuola ancora autoritaria e verticistica, con nel cuore e nella mente i valori della libertà, della democrazia e della partecipazione che dovevano essere alla base della nuova società da costruire” scrisse Mario Lodi, che ebbe la sua prima cattedra nel 1958. Era entrato nella Resistenza a ventun anni, dopo essere stato in carcere per ragioni politiche.
La scuola era già percorsa da attività antifasciste, anche se minoritarie. Nella Roma appena colpita dall’eccidio ardeatino professori di ogni tendenza crearono l’Associazione insegnanti democratici italiani, che nel luglio 1944 diventò Federazione italiana della scuola. Ricordava Laura Lombardo Radice: “Era una nuova rete organizzativa quella che mettemmo in piedi nel giro di pochi mesi. I partiti ci dissero: ‘Fate, ma per conto vostro; non veniteci a chiedere né soldi né case per riunirvi; se è vero che la scuola è antifascista, troverete tutto’. Trovammo tutto: case, soldi, tipografia”. Nella tipografia pubblicarono La Voce della scuola, una “frustata di coraggio”, un foglio clandestino che impostava una battaglia per affermare la centralità dell’istruzione in uno stato democratico.
Nello stesso anno 1944 l’istruzione per tutti era l’obiettivo più importante nella Repubblica partigiana dell’Ossola. Nel 1945, a Firenze, Ernesto Codignola, azionista, fondò la “Scuola– città Pestalozzi” con docenti e ragazzi di ogni estrazione sociale e di ogni orientamento familiare: cattolici, ebrei, valdesi, liberali, comunisti, anarchici e liberi pensatori. Lì furono sperimentati il tempo pieno, gli organi collegiali, il lavoro di squadra attraverso progetti sostenuti dalla biblioteca scolastica e da laboratori, l’insegnamento della lingua straniera fin dalla prima elementare, l’integrazione fra elementari e medie, l’organizzazione per bienni. Esiste ancora come “scuola laboratorio”.
“C’è a Milano una scuola democratica. Cinque partigiani se l’erano sognata in montagna” scrisse Elio Vittorini. Era l’avvio dei “Convitti scuola della rinascita”, una rete che dal 1944 toccò dieci città, nata dal cuore della Resistenza e dall’esperienza dell’Ossola, una frontiera della democrazia come la fabbrica, speranza di una nuova società. I figli di ogni classe sociale, usciti dalla guerra senza scuola, a volte senza genitori, senza pane, dal futuro incerto, diventavano protagonisti della loro formazione per la libertà e la democrazia. Con metodi, percorsi e obiettivi di conoscenza diversi, la sperimentazione era un aspetto normale del fare scuola. Furono stipulati accordi col ministero dell’assistenza post-bellica prima e poi col ministero dell’istruzione pubblica e col ministero del lavoro, ma l’ostilità crescente verso i convitti portò alla loro chiusura con il taglio dei finanziamenti. Era la metà degli anni Cinquanta.
Nel mondo politico, in quell’immediato dopoguerra, a sinistra il dibattito sulla scuola era acceso. Di Vittorio considerava se stesso un “evaso dall’analfabetismo” e affermava la necessità di costruire scuole, per rendere effettivo il dettato costituzionale dell’obbligo a 14 anni e per abbattere il muro fra 100mila insegnanti disoccupati e 2 milioni di ragazzi senza scuola. Gli intellettuali discutevano sul nuovo attivismo didattico: bisognava considerarlo come alibi di tendenze conservatrici (fu la critica di Lucio Lombardo Radice) oppure come punta di attacco a un sistema culturale, sociale, politico da cambiare totalmente?
Nel convegno del Pci del 1946 Antonio Banfi e Concetto Marchesi si dissero diffidenti verso innovazioni giudicate ambigue. Affermavano entrambi l’esigenza di una diffusione democratica della cultura egemone per un reale mutamento dei rapporti di classe, ma erano su fronti opposti per la questione del latino nella scuola media.
Non era un dettaglio, ma la spia di un problema di fondo che avrebbe percorso la storia repubblicana fino alla Lettera a una professoressa di don Milani, e oltre. Per Banfi nell’insegnamento del latino c’era “un sottile veleno di oppio ed evasione”, mentre voleva “una cultura che abbraccia, integra, interpreta per noi anche la cultura del passato, ma che riposa sulla realtà della nostra vita, nel senso umano dei suoi problemi”. Marchesi denunciava il pericolo, reale, “di dar vita a due culture diverse, per il popolo e per le élites”. Quando fu il momento di difendere i Convitti della Rinascita, attaccati come scuole di ispirazione comunista, il Pci rinviò la sfida.
Guido Petter, partigiano e membro del convitto rinascita di Milano, spiegava: “Erano tutti impegnati sul piano della difesa delle libertà politiche, della realizzazione della Costituzione, delle lotte del lavoro e, probabilmente, hanno sottovalutato l’ importanza che aveva in generale il problema dei giovani. Quando in seguito è diventata sensibile a queste tematiche, la sinistra ha scelto di lavorare alla trasformazione della scuola di Stato invece che investire in quella sperimentale”. Il Pci si limitò a incassare in seguito l’unificazione dei tre assi del corso post-elementare, scuola media, avviamento e complementare.
La sperimentazione democratica, nonostante tutto, cresceva dal basso: la guerra era ancora così vicina e bisognava ricostruire la scuola soprattutto nelle zone ad alto tasso di analfabetismo. Nell’abitazione della maestra Anna Fantini nacque a Fano, nel 1951, un movimento per la cooperazione didattica in cui confluiva lo spirito della Resistenza. Il suo punto annuale d’incontro era nelle Marche, a Frontale, in casa di due maestri, Giuseppe Tamagnini che era stato un comandante Gap e sua moglie Giovanna Legatti, partigiana decorata con croce di guerra, arrestata dalle SS. Erano in molti, tra essi c’era Raffaele Laporta, che poi dalla sua cattedra universitaria sarà un punto di riferimento alto nelle difficili stagioni che verranno, e nel Meridione uno dei responsabili del Movimento di collaborazione civica per la didattica attiva. Più tardi verranno Bruno Ciari, Mario Lodi, Alberto Manzi, tanti altri, e c’era anche Gianni Rodari; volevano una scuola d’educazione popolare perché la democrazia avesse le basi per crescere. Nacque così il Movimento di cooperazione educativa, ancora oggi organizzato in gruppi a diversa dimensione territoriale.
Il latino nella scuola media fu abolito nel 1978, aveva vinto Antonio Banfi e anche Concetto Marchesi s’era persuaso ma, tra l’ostruzionismo della maggioranza e una cultura di opposizione alle riforme, la politica continuò ad annaspare senza dare alla scuola italiana la sua vera centralità democratica.
Pubblicato lunedì 17 Maggio 2021
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