L’aggressione russa all’Ucraina e lo scoppio del conflitto nel cuore dell’Europa hanno aperto le porte al rischio di uno scontro bellico mondiale. Ondate indipendentiste si stanno manifestando anche in altre regioni del continente europeo ed e ai suoi confini. Osserviamo con grande preoccupazione l’evoluzione di alcuni fenomeni nazionalisti e separatisti nella regione dei Balcani, in particolare in Bosnia Erzegovina, e nell’enclave della Repubblica Srpska e in Kosovo. A trent’anni dal Trattato di pace di Dayton, riteniamo che sia utile e urgente sollevare l’attenzione su queste tensioni, che se non affrontate in tempo col dialogo, la diplomazia e con nuovi accordi tra le parti, rischiano in breve tempo di essere una pericolosa miccia.
L’aggressione della Russia all’Ucraina è uno dei segnali che indica come la lezione degli anni di guerra nella ex Jugoslavia (1991-1995) non sia stata capita, o meglio non si sia voluta comprendere; la dissoluzione del sistema sovietico, non accompagnata da alcun trattato internazionale come fu quello di Helsinki nel 1975, continua ad avere delle pericolose conseguenze in Europa e non solo.
Non vi è alcun dubbio che se c’è una regione direttamente coinvolta o legata alla guerra scoppiata tra Russia e Ucraina questa è la regione dei Balcani occidentali; in questi anni aiuti, investimenti e legami storici si sono consolidati. Se è vero che la Germania e l’Austria rimangono legate alla Croazia (e all’Erzegovina), storicamente la Russia mantiene un legame molto forte con la Serbia, la Turchia con la Bosnia musulmana, mentre in Albania sono presenti soprattutto gli Emirati Arabi. La Cina si impone prepotentemente con grandi investimenti in Montenegro, conquistando un’area geografica e uno sbocco sul mare Adriatico che rafforza la presenza che già aveva con il porto del Pireo in Grecia.
Dunque a pochi chilometri da noi si sta consolidando un sistema di interessi economici e strategici decisamente lontano dall’Europa e dai principi sanciti dallo stato di diritto. L’accordo di pace di Dayton fu allora gestito esclusivamente dagli Usa che proclamarono l’indipendenza del Kosovo. Il fatto poi che la Nato decidesse di bombardare un’area (la Serbia) che era al di fuori delle sue competenze, fu il segnale definitivo che l’Unione Europea era fuori dai giochi. Il 1995 segnò una sconfitta per il progetto europeo, alla cui base è il principio fondamentale che nessuna guerra sarebbe mai più scoppiata in Europa. D’altra parte, allora come negli anni più recenti, c’è stata un’inadeguata risposta strategica dell’Unione Europea in quest’area e questa incertezza non ha fatto che rafforzare la presenza di attori esterni.
Così oggi l’opinione pubblica dei cinque o sei Paesi dei Balcani è suddivisa tra chi pensa che la Russia, gli Usa e/o la Cina possano essere alleati strategici: l’Unione Europea non è dunque tra le prime preferenze. L’eterna attesa di una risposta dall’Unione Europea sta creando frustrazione: solo alcune cifre sulla situazione in Bosnia Erzegovina, che probabilmente è il Paese più fragile: la pandemia era ed è stata devastante da un punto di vista sociale ed economico; nel 2020 la Bosnia Erzegovina ha attraversato la recessione più profonda della sua storia con una perdita netta del Pil del 4,3% e una drammatica crescita del livello di corruzione e la di presenza jihadista.
Inoltre, cresce il numero di giovani che decide di emigrare, creando un fenomeno che può essere definito come una vera e propria emorragia di manodopera qualificata e di professionalità medio-alte verso l’Unione Europea o gli Stati Uniti. La riforma del sistema sanitario e la mancanza di fondi per quello pubblico hanno creato inoltre delle tensioni enormi nella popolazione, fino a proteste di piazza, con richieste di dimissioni del governo. Le dosi di vaccino inviate dalla Ue sono state molto tardive e molto limitate e ad oggi la popolazione della Bosnia Erzegovina vaccinata è il 19,94%.
Nel frattempo sono salite le tensioni tra le entità di cui è composta la Bosnia Erzegovina, con crescenti iniziative della Repubblica Srpska (autonomia della magistratura, dell’amministrazione pubblica, dell’esercito), mentre alle minacce da parte di Milorad Dodik, rappresentante della Repubblica Srpska nel governo di Sarajevo, l’Unione Europea ha risposto con sanzioni. E crescono pericolosamente anche le tensioni tra Serbia e Kosovo.
Il 23 giugno scorso si è tenuto il summit “Unione Europea – Balcani Occidentali”. Si è parlato di allargamento e le istituzioni europee hanno accelerato i tempi di adesione di Ucraina e Moldavia alla Ue. Il processo di allargamento dell’Unione Europea dei Paesi dell’area dei Balcani è una storia senza fine, con una serie di stop and go infelici: tra il 2012 e il 2014 Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord e Albania sono stati ufficialmente candidati a entrare nella Ue; la Bosnia-Erzegovina, che nel 2016 ha presentato la sua richiesta ed e il Kosovo (che peraltro non è riconosciuto ufficialmente come Stato autonomo) sono definiti “potenziali” candidati.
All’inizio degli anni Novanta la Bosnia Erzegovina era la repubblica più multietnica tra le sei che componevano la Jugoslavia. Al suo interno convivevano bosgnacchi (musulmani), serbi (ortodossi) e croati (cattolici). Il 3 marzo 1992, in seguito a un referendum, per altro boicottato dai nazionalisti serbi, il Paese proclamò la propria indipendenza. In risposta, il 5 aprile cominciò l’assedio della città di Sarajevo da parte dei nazionalisti serbi: fu considerato l’assedio più lungo della storia moderna. Anni di guerra violenta e fratricida portarono a un elevatissimo numero di vittime civili. Si stima infatti che, nella sola Sarajevo, siano stati più di 12mila i morti e oltre 50mila i feriti, l’85 per cento dei quali civili. Una soluzione sarebbe arrivata solo alla fine del 1995, con la firma degli Accordi di Dayton.
Si è trattato di uno strumento efficace? Che tipo di valutazione è stata fatta nel corso di questi 30 anni dell’accordo di pace? Come ha operato e quanto ha investito l’Unione Europea nell’area negli ultimi trent’anni? In un quadro così complesso e con i necessari passaggi istituzionali, la via maestra per una ricomposizione delle tensioni, per una ricostruzione di una convivenza pacifica tra gli Stati e i popoli della regione passa per un ruolo attivo dell’Unione europea, che profili nei tempi più celeri possibili il processo di adesione e integrazione di questi Paesi, creando un meccanismo di avvicinamento istituzionale ed economico alla Ue, transitorio, ma certo.
Di Balcani si è recentemente tornato a parlare perché al centro di una tragedia umanitaria che vede continui respingimenti di rifugiati provenienti da zone di guerra e/o sfuggiti alla miseria economica e sociale del proprio Paese di provenienza – uomini donne e bambini – che cercano scampo sulla rotta balcanica. Le violazioni gravissime del diritto alla dignità umana, all’esistenza stessa e la disumanità dimostrata dalla polizia di confine di un Paese membro dell’Ue, la Croazia, hanno spinto una delegazione di europarlamentari italiani a recarsi in quei luoghi per verificare di persona la situazione sia in Bosnia che sul confine croato. Ma non vanno sottaciute le responsabilità di Slovenia e Italia per quanto accade anche ai nostri confini.
La risposta dell’Ue alla tragedia dell’aggressione russa all’Ucraina e all’enorme ondata di profughi ucraini che ha prodotto dimostra che è possibile e necessaria una diversa politica di accoglienza e asilo nei confronti di profughi e rifugiati, indipendentemente dalle aree e dalle rotte di provenienza. Le organizzazioni italiane, sindacali e del terzo settore sono state le più presenti nei Balcani per molti anni per ragioni di vicinanza storica e culturale; il contributo in materia di progetti e competenze mirava a ripristinare e ricostruire la pace e un clima di convivenza, e intendeva rafforzare il tessuto democratico di quell’area, insieme alle amministrazioni locali, alle ong e alle organizzazioni sindacali in tutti i Paesi della ex Jugoslavia. Ancora oggi sentiamo che il nostro impegno va rilanciato con forza: da qui le ragioni per sostenere nell’Unione Europea e nel nostro Paese un’adeguata politica di dialogo, inclusione, progresso sociale ed economico.
Susanna Florio, componente comitato nazionale Anpi
Pubblicato martedì 28 Giugno 2022
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