Ecco la seconda parte della tavola rotonda su giovani e antifascismo promossa da questa testata.
La tavola rotonda, la cui prima parte è stata pubblicata sul numero precedente , è stata introdotta dal direttore di Patria Indipendente Gianfranco Pagliarulo; sono intervenuti la studentessa Martina Carpani della “Rete della conoscenza”, la giovane scrittrice Margherita Frau, lo studente Jacopo Buffolo della “Rete studenti medi”, lo storico Daniele Conti, e Valerio Strinati, della redazione di Patria Indipendente.
Gianfranco Pagliarulo
In questa nuova tornata di conversazione vi proporrei di affrontare due questioni, una delle quali forse vi sorprenderà, ma mi piacerebbe molto sapere la vostra opinione in merito, perché non attinente immediatamente alla storia ma forse alla sociologia, comunque all’umanità.
La prima questione è questa. Noi, per ora, abbiamo affrontato il fatto che c’è una parte delle giovani generazioni che è tendenzialmente sedotta da una cultura – chiamiamola così – di tipo fascistico. Questo è vero, è un fatto di minoranza come giustamente sottolineava Davide, ma ciò che preoccupa non è solo questa minoranza data dai gruppi fascisti che comunque stanno crescendo in modo rapidissimo; ciò che preoccupa a mio parere è altro. È il fatto che alcune parole d’ordine della destra parlamentare, che sono a loro volta diverse, e che sono per esempio identitarismo, comunitarismo, sovranismo non nascono all’interno delle forze attualmente rappresentate in Parlamento, ma nascono esattamente all’interno di questi movimenti. Penso per esempio a CasaPound o a Forza Nuova. Dunque c’è un punto in cui queste organizzazioni di tipo neofascista riescono ad essere egemoni, e se lo sono già dal punto di vista del linguaggio questo è un fatto inquietante perché rappresenta un passaggio di generalizzazione di un messaggio e di un valore fascistico.
L’altra cosa legata a questo fatto è che noi, giustamente, parliamo di “fascismi”, perché il fascismo in senso stretto è l’esperienza che ha vissuto il nostro Paese per una certa quantità di tempo ed è stata la più lunga e la prima e ha condizionato lo sviluppo negli altri Paesi. Ma in Ungheria, Orban non è esplicitamente fascista, mentre filo nazista è il partito Jobbik con cui Orban ha un rapporto di amore-odio. In Polonia sono fascisti in senso stretto? No. Sono nazionalisti ed è un’altra modalità, se vogliamo dirla tutta sono antisemiti, ed è un’altra modalità con cui si manifesta, e ancora sono oscurantisti e integralisti cattolici. Questo per avere un quadro della situazione.
Ma vediamo ora la situazione italiana. La situazione italiana presenta una parte di giovani generazioni che si stanno più o meno rivolgendo verso le idee del neofascismo. Ma c’è un’altra componente che, invece, non si sta rivolgendo verso il neofascismo, e non va sottovalutata. È una parte progressista. Io vorrei capirla meglio con voi. Faccio un esempio concreto: ieri sono andato a vedere Goran Bregovic all’Auditorium. C’erano 2.800 persone, di cui una parte rilevante giovani. Bregovic a un certo punto ha cominciato a suonare Bella ciao. Considerate che era un concerto molto strano perché metà era musica popolare, quella che conosciamo tutti, e metà musica colta, non la solita musica di Bregovic. Quando ha suonato Bella ciao, come si suol dire, è caduto giù il teatro e tutti, i giovani e anche molti adulti, ballavano e cantavano. Non eravamo in piazza ma in un teatro, all’Auditorium. È stato veramente emozionante, perché rappresentava, sia pur simbolicamente, una presenza forte e sedimentata anche nelle giovani generazioni. Ed è una seconda componente.
Poi c’è una terza componente delle giovani generazioni. Lo diceva qualcuno giustamente prima: 7 giovani su 10 sembra non andranno a votare. Questa è una parte che possiamo definire apatica, disinteressata o delusa. Fino alcuni anni fa, il noto filosofo e psicologo Galimberti sosteneva la tesi che le giovani generazioni erano vittime “dell’ospite inquietante”, cioè del nichilismo, e davanti a questa presenza, dovuta al fatto che la vita dei giovani veniva schiacciata sul presente, che escludeva per sua natura un futuro nella società in cui ci troviamo, vinceva il nichilismo, si rappresentava in questa mancanza di speranza. Nell’ultimo suo volume, “La parola ai giovani”, Galimberti fa una piccola correzione. Dice: questo nichilismo è cambiato, è diventato un nichilismo attivo; cito: “l’ultima generazione ha la determinazione di trovare una strada che consenta loro di uscire dalla tutta quella atmosfera di demotivazione e di ignavia che l’imprevedibilità del futuro induce”. Quindi – lui dice – sta succedendo qualcosa di positivo ed interessante.
E qui concludo e mi chiedo e chiedo a voi, ed è questa la cosa forse poco ortodossa: credo che una delle caratteristiche dell’umanità – può sembrare una banalità – sia quella di cercare per ciascuno la felicità, cioè la piena realizzazione di sé e di ritrovare il senso della propria vita. La mia generazione ha avuto l’enorme fortuna di trovarsi in un tempo in cui fu protagonista in senso stretto, cioè trovò il senso di sé e partecipò alle cose che avvennero in quel tempo, dentro un gigantesco processo di cambiamento. Oggi la situazione è quella dipinta da Valerio, quando parlava di una politica ridotta ad amministrazione del presente. Di conseguenza la risposta non può che essere ricostruire una dimensione della politica che ricostruisca il nesso tra presente, passato e futuro e abbia un orizzonte che oggi non c’è. Se le cose stanno così, la domanda che pongo, in particolare ai compagni Martina e Jacopo, i più giovani in questa sala, è questa: qual è oggi per i ragazzi la strada per la felicità? Domanda non retorica, perché se non ci poniamo il problema della felicità, cioè di come rispondere ai bisogni più evidenti nelle giovani generazioni – dal punto di vista sociale, intendo, nonostante indubbiamente ci sia un nesso tra esistenza individuale e vita sociale – noi non cogliamo questo nesso. Evidentemente, nella ricerca di valori, che diventa ricerca di disvalori quando un ragazzo si rivolge a un’organizzazione neofascista, ci si pone questo problema. Come stanno le cose? Che risposta possiamo dare noi, e soprattutto voi?
Non ho una risposta precisa. Innanzitutto sono d’accordo con Davide: per fortuna i neofascisti sono ancora una minoranza, il problema è che c’è una rappresentazione politica, in qualche modo anche giornalistica, dell’ondata nera, che esisteva sei mesi fa ed esiste anche oggi. Noi l’abbiamo sempre denunciata, è legata probabilmente anche al contesto, alle elezioni che stanno arrivando e a tutta una serie di altre questioni. Dopodiché il fenomeno non va sottovalutato, perché si inserisce all’interno e insieme alla crisi della partecipazione. Dal punto di vista studentesco, tante consulte sono andate in mano alla destra. Ma non certo perché tutti quelli che li votano sono fascisti, ma perché non hanno – magari in alcune città – altre forme di rappresentanza e soprattutto rispetto al nodo dell’egemonia che dicevi prima tu.
Gianfranco Pagliarulo
Scusa, fornisco qualche dato. Elezioni della Consulta studentesca a Firenze: 32 eletti di estrema destra su 58, con 18.000 voti.
Martina Carpani
Ma sono elezioni indirette, di secondo livello.
Gianfranco Pagliarulo
Indirette o dirette, si tratta sempre di elezioni, però. Altro esempio. Elezioni a Roma: perde la destra, ma di poco. Qualcosa sta succedendo.
Martina Carpani
Certo, ma ce ne sono molte altre di cui non si parla… La gente di Firenze non è di destra, ma a destra riesce a organizzarsi meglio all’interno delle elezioni indirette, e con tatticismo le minoranze riescono a organizzarsi e a prevalere. Nella maggior parte dei casi, i fascisti non si fanno eleggere come rappresentanti fascisti ma usano parole d’ordine, come dicevi tu, che sono quelle che vanno di moda. La retorica “l’Italia agli italiani” non è una cosa che dicono solo le persone fasciste, oggi. Il “buonismo” non una parola usata solo dai fascisti.
Ora, sul piano dell’egemonia, esiste il problema dell’incapacità di trovare delle parole d’ordine di una forza uguale e contraria a quelle della destra. Parole che siano nostre, perché se vai dietro alle parole d’ordine della destra e non costruisci parole, che sono concetti, diviene problematico. Quindi penso che il tema sia l’unione tra crisi della partecipazione, dell’organizzazione a sinistra e avanzata delle destre in cui, come minoranza organizzata, riescono a costruire un controllo anche sul territorio, in molti casi. Il controllo sul territorio, nei quartieri, è reale. Ribadisco. I comitati di quartiere di sinistra con cui fronteggiarsi non esistono.
Una parola sul tema della felicità che proponevi, anche in relazione a quello che sta succedendo. Dicevo prima, provocatoriamente: 7 giovani 10 non vanno a votare, ma in tanti invece si impegnano nel sociale. Tutti abbiamo sollevato il tema della politica. Non penso, però, che possiamo fare una discussione neutra, considerando che siamo in tempo di elezioni. Se tutti qui stiamo dicendo questa cosa è anche perché, probabilmente, non ritroviamo all’interno di ciò che in questo momento si candida, senza dare giudizi di valore e a prescindere dai partiti, qualcosa che sappia dare quelle risposte di cui parlava Davide. Cioè, la capacità di gestire la trasformazione.
Io non sono una storica, sono laureata in economia. Noi, come organizzazione studentesca, abbiamo sempre letto questa fase, per riprendere Gramsci, come interregno: il vecchio che muore e il nuovo che stenta a nascere. Non capisco però come dovrebbe nascere questo nuovo. Io fra due mesi farò il congresso e non sarò più la coordinatrice di un’organizzazione sociale di giovani. So di avere un punto di vista privilegiato, incontro i partiti ogni settimana. Li conosco, ma non ho una possibilità di incidere. Non credo alla rottamazione generazionale ma credo alla rottamazione della storia.
Sono privilegiata, vado nelle stanze del potere, se la vogliamo dire così. Però non c’è la volontà di gestire i processi di trasformazione e da tutti i punti di vista, c’è un degrado reale: i famosi braccialetti di Amazon sono reali, la precarietà è reale. Io ho l’impressione che la politica difenda se stessa e voglia ritornare a orizzonti pre-crisi. Come se si potesse tornare indietro, il 900 non finisce e i partiti, per come lo abbiamo conosciuto, restano quelli lì. E non c’è niente che li metta in discussione. Non provano a sperimentarsi, ad avere ideali di governo della trasformazione, di dire, di far capire come far interagire la forma sociale e la forma politica. Io credo che oggi la forma che scelgono le destre sia quella più funzionale alla società attuale, cioè sociale e politica. Le destre non stanno insieme. Lo vediamo anche dal punto di vista della rappresentanza studentesca, capita molto raramente che CasaPound, Lotta Studentesca, Forza Nuova eccetera si mettano insieme. Non tutte queste forze hanno oggi l’obiettivo della rappresentanza politica. Ma se fosse così e ci metti in mezzo anche Fratelli d’Italia, probabilmente sarebbe un pochino diverso. Dopodiché hai tutta la sinistra che utilizza, per esempio sui migranti, le stesse parole d’ordine della destra…. Io non so quale sia la soluzione. Ribadisco e lo faccio da persona che ha accesso alle cose. Immagino una persona che è rimasta a Brindisi: che cosa direbbe al mio posto? Non c’è nulla che mi entusiasmi. Io fra due mesi me ne vado. Finora ho avuto i miei compagni e le mie compagne con cui, per fortuna, ho condiviso una visione del mondo, ma ho paura di quello che vedo fuori. Cioè non so come si cambiano le cose, non esiste un modo. Non voglio dire una banalità, però della crisi della rappresentanza si parla da anni. Eppure non c’è un cambiamento strutturale nelle modalità con cui siamo arrivati a queste elezioni politiche.
Sul tema della felicità. Qualche tempo fa c’è stata una lettera di un ragazzo che si è suicidato (Michele) e di cui molto si è discusso. Mi sono rivista tantissimo in quello che scriveva, nella idea di solitudine differenziale, di precarietà, di non comprensione, nonostante io abbia tante compagne e compagni con cui condivido la casa, la vita. Mi sento di dare senso alla mia vita ma mi sono rivista tantissimo nella lettera. Ho provato a spiegare a mia madre il perché e lei non riusciva a capirlo. Cioè, non riusciva a capire cosa vuol dire per me essere una laureata che si sente in colpa. Mia madre è un’impiegata statale, io sono l’unica laureata nella mia famiglia. E mia madre pretende che io abbia uno stipendio superiore al suo, perché lei ha investito su di me, mi ha fatto studiare e lei non ha studiato. Quindi io devo guadagnare più di lei. Eppure questa cosa non accadrà mai e ogni volta che io faccio riferimento alla realtà, “mamma mi hanno offerto questo tirocinio a 700 euro al mese”, sembra che sia colpa mia, perché non sono in grado di” vendermi”. Mia madre pensa che se sei laureata devi avere 2000 euro – minimo – al mese. Questo è un senso di colpa esistenziale che trascende la politica, che neanche mia madre capisce. E che neanche con i miei compagni si riesce a condividere appieno, perché sta nel modo in cui tu riesci a vivere le cose. Questo in qualche modo ci fa riflettere, perché c’è bisogno di un soggetto politico che non solo sappia gestire la transizione, metterci le mani in pasta, ma che sappia anche tornare a entusiasmare. Io sono stanca del meno peggio. Andrò a votare, anche se molti miei coetanei non lo faranno, odio l’astensionismo. Dopodiché non riesco a credere in qualcosa e questo è un tema. Oggi bisogna restituire ai giovani un’idea, un punto di riferimento sia dal punto di vista collettivo sia personale. Non basta solo la politica. Io ho tanti libri sul femminismo, che parlano di questo, il personale è politico ecc. Ma non basta l’organizzazione collettiva per dire che noi insieme siamo felici. Un altro modo di fare politica per me vuol dire anche questo, e noi giovani ne avremmo tantissimo bisogno. Quelle statistiche lo dicono: i giovani vogliono partecipare, fanno volontariato, la partecipazione si esprime in tanti modi. Ma non esiste la volontà di mettere in discussione la forma classica di partecipazione e queste elezioni ne sono l’esempio. Ribadisco, non voglio dare giudizi di valore da una parte o dall’altra. Ma non c’è nessuno che davvero si ponga l’ambizione di andare oltre il 5 marzo. Non so cosa succederà il 5 marzo e questo vale per tutte le forze politiche, Pd, LeU, PaP, al netto del governo potrebbero cambiare gli scenari, qualcuno diverrà un partito, altri si disgregheranno di nuovo… A che cosa dovremmo credere? Provo anche rabbia, perché io ho la possibilità di accedere al potere, cioè parlo con i partiti, abbiamo fatto insieme mille manifestazioni. Esiste però un tema fondamentale ancora oggi, ed è il conflitto, perché senza conflitto la trasformazione non la superi. Io credo che questo sia centrale. Perché mi sembra ci sia una volontà di non riuscire a superare questo interregno, e credo che sia anche una responsabilità del sociale avere chiara un’idea di come costruire queste proposte, queste nuove forme della politica, e anche ripristinare una riflessione sul tema del conflitto, perché nel malessere sociale latente, probabilmente un conflitto, che non è tra poveri ma è dal basso verso l’alto, è utile anche a decidere qual è il vero nemico.
Vorrei provare a rispondere all’enorme quesito “come raggiungere la felicità”. C’è un famosissimo psicologo, Abraham Maslow, che ha pensato ad una scala gerarchica. È formata a piramide, dove ci sono all’interno 5 punti. Secondo Maslow questi 5 punti portano al benessere di un individuo. Tolto il primo, che è quello prettamente fisiologico, quindi la fame e il freddo, al secondo c’è la sicurezza, al terzo c’è l’appartenenza ad un gruppo. I punti sono solo 5 e il fatto che l’appartenenza a un gruppo sia il terzo, e che il secondo sia la sicurezza, e che questo psicologo sia riuscito a far passare questo messaggio a livello mondiale e che tutti l’abbiano riconosciuto come valido, secondo me – a livello esistenziale – è molto importante e non bisogna sottovalutarlo. Davide diceva che, al giorno d’oggi, c’è un’ondata nera non concreta. Il che è vero, secondo me. Si parla di un fascismo senza coscienza di fascismo. Nel senso che il termine fascista al giorno d’oggi e iper gettonato, è nella bocca di tutti, ma non ha una sua forma.
Sono rimasta sbalordita, pochi giorni fa, nel sentire dire Ricci che Baglioni non andava bene perché Baglioni era un cantante che al giorno d’oggi piaceva ai fascisti.
Sta accadendo oggi qualcosa di molto strano. Il termine fascista non ha una sua identità vera e propria. I ragazzi di oggi, che sono estremamente bisognosi – e lo dice la scienza, lo dicono gli storici – è una cosa che sappiamo tutti, hanno bisogno concreto di sentirsi parte di qualcosa. La politica a questo non sa rispondere E l’essere fascista, che sicuramente ha il suo fascino come dicevi tu Gianfranco all’inizio, ha il suo fascino perché riesce a dare un senso di identità. Poi un giovane non sa effettivamente cosa sia quell’identità, i giovani di oggi non conoscono Gramsci, associano al termine fascista la violenza. Dice che Mussolini, bene o male, ha dato un lavoro e una casa a tutti, ma non sa che ai tempi di Mussolini quello stesso ragazzo non sarebbe stato libero di dire liberamente cosa pensava. Però si fa baluardo di molte altre cose e quindi, come giustamente diceva Davide, un appoggio concreto che si potrebbe dare al giorno d’oggi sarebbe quello di spendere delle altissime somme per informare. Allora, vogliamo sicuramente dare un appoggio agli immigrati, per far sì che non accadano molte cose, per non lasciarli allo sbaraglio ma è fondamentale destinare risorse anche all’informazione. I ragazzi d’oggi non sanno di cosa stanno parlando, hanno queste idee discordanti, si ritrovano a guardare delle trasmissioni politiche dove un Renzi viene tacciato di fascismo, quindi non si capisce più niente. Durante una trasmissione tv, non mi ricordo bene quale, hanno dato del fascista a Renzi. Cioè non si capisce più chi sia davvero un fascista. Questo bisogno di appartenenza c’è: alcuni ragazzi di oggi dicono “sono fascista” ma non si chiedono cosa voglia dire.
È un dibattito molto stimolante, molti spunti mi sono piaciuti, così ho molto apprezzato i vostri interventi. Magari ci saranno altre occasioni per tornare a ragionarci sopra.
Parto da quello di cui mi occupo direttamente. Le consulte degli studenti. Bisogna sempre ricordarsi che le consulte sono organismi che vengono eletti al secondo livello. Nelle scuole, gli studenti eleggono dei rappresentanti di consulta, poi il rappresentante di consulta spesso è il fratello sfigato del rappresentante d’istituto. Va tenuto conto anche di questo. Se nell’istituto ci sono più liste che si scontrano, scontrarsi in consulta è una cosa più rara, per il tipo di rappresentanza che è. Bisogna comprendere quello che è la consulta. Quando a candidarsi in consulta sono due persone, in una scuola non particolarmente politicizzata, i due candidati salgono. E se ragioniamo di 32 rappresentanti, 18.000 semplicemente sono gli iscritti a quelle 16 scuole di cui queste persone sono rappresentanti. Oltre a quelle scuole lì, probabilmente, lo diceva anche prima Martina, manco si sono candidati con simboli, loghi, qualcosa che faccia riferimento. Magari la gente non sapeva nemmeno cosa andava a votare, perché c’è un problema di partecipazione, e anche di politicizzazione della rappresentanza studentesca. Anche negli organi nazionali, penso al CNPC, quello che raccoglie tutti i presidenti di consulta, ti ritrovi con gli indipendenti che vanno incontro a priori ai presidenti magari più strutturali a questa organizzazione. Quindi il caso di CasaPound è un dato costruito mediaticamente per provare a sfondare nella mediaticità, nel momento in cui gli si stava dando lo spazio per poter emergere. Sicuramente in alcuni contesti ci sono delle “vittorie” che pesano. Perché Firenze è sempre stata una Consulta che, nel bene e nel male, è stata governata dal centro sinistra, dalla sinistra. In dimensioni che poi si sono rotte e hanno permesso l’avanzata di CasaPound.
Sicuramente manca anche la capacità di raccontare il mondo studentesco, perché non viene fatto con le dovute attenzioni. Se dovessimo guardare tutte le consulte che le diverse organizzazioni a sinistra controllano, governano, gestiscono, sicuramente il dato sarebbe diverso. Ma non fa notizia. In un’intervista ad inizio anni 2000, Berlusconi diceva che le scuole sono il mondo della sinistra, insieme all’università. Forse ha dato per scontato una cosa che oggi non è più scontata. Oggi ti confronti e sicuramente bisogna ragionare di come dare risposte diverse. E su quello, magari, c’è anche una difficoltà nostra, come organizzazioni che fanno rappresentanza sociale e degli studenti a sinistra, di riuscire a far pesare quelli che sono i nostri risultati. Perché racconti maniera diversa? Perché non c’è la strumentalità di voler dire “le consulte le gestiamo noi di destra”, perché se io vinco nella consulta, per esempio di Treviso, non è una notizia. Sto solo facendo il mio lavoro, il mio dovere, sto mettendo le mie esperienze per far funzionare quell’organo, per costruire qualcosa sul territorio. Non ho spesso la volontà di andare a far pesare quel tipo di dato.
La domanda che facevi tu Gianfranco – cosa cercano i giovani? – è una bellissima domanda e come organizzazioni ci interroghiamo continuamente, ma le risposte sono difficilissime. Io per primo non lo so. In questo momento, ho finito il mandato e tornerò a casa, so che tornerò a casa e completerò gli studi ma non ho idea di cosa farò, di come affronterò tutta una serie di problemi, e condivido la paura di Martina. Nel momento in cui esci da queste organizzazioni che ancora, comunque, ci sono e sono un baluardo per alcune cose, fuori non vedi un qualcosa che è in grado di entusiasmarti, di farti dire “bene, sono tornato e farò quello”. Non c’è una risposta, eppure costruire qualcosa capace di entusiasmare e tenere insieme le persone è fondamentale.
Io credo che un altro punto importante da discutere, e come organizzazioni studentesche ci stiamo lavorando, (e se guardiamo alcune uscite che ci sono state recentemente, anche la destra vi sta investendo) è il tema dell’aggregazione. Noi tutte le estati organizziamo dei campeggi, che sono dei momenti dove provi a dare delle risposte allo stare insieme, allo stare bene insieme, ascoltare la musica. Ci sarebbero da aprire tutta una serie di temi sulle culture e le sub culture e sulla capacità di dare delle vacanze a tutti, anche a chi non se lo può permettere, cercando di abbassare i costi. L’estrema destra fa la stessa cosa, diversa per i contenuti, per le braccia tese, per i concerti dove si prendono a cinghiate, perché si divertono così. Una cosa che mi ha scioccato molto, ne ha parlato Internazionale qualche mese fa, è il campeggio estivo organizzato in Ucraina da un partito neonazista e su cui loro investono moltissimo. Secondo me servirebbe un ragionamento su come si vanno a occupare i luoghi della formazione, di come si vanno a rompere e ricostruire alcuni paradigmi. È il problema della cultura che diceva Margherita. A scuola non si arriva a studiare cosa c’è dopo la seconda guerra mondiale, cosa è avvenuto negli anni di piombo, non sai neppure cos’è neofascismo. L’ultimo modello di Paese che ci viene insegnato è lo Stato fascista che forse scopri che viene abbattuto alla fine della seconda guerra mondiale. E non è solo un problema di programmi, ma anche di come vengono messi in pratica i programmi. È un problema enorme, perché uno studente non ha riferimenti e strumenti per capire come si arriva all’oggi. Esce dalle scuole superiori, dovrebbe votare, e non ha nemmeno un’idea. In primo luogo perché non ha letto nulla, perché magari su certi pensatori si ha sempre il dubbio se affrontarli o meno, o affrontarli con riserva in base agli insegnanti. E non hai neppure un approfondimento a livello storico: del Biennio rosso non se ne parla perché erano – dicono – quattro comunisti e allora si salta, e si arriva direttamente al fascismo. Quindi il fascismo è l’ultimo modello che ti viene comunicato dalla scuola. Non si arriva mai alla Repubblica, e i processi che la governano e l’hanno costruita restano sconosciuti. Questo è un tema fondamentale, sul quale bisogna andare ad agire.
Un punto iniziale: la storia serve perché ci fornisce anche degli strumenti di interpretazione del presente, perché quello che si manifesta i nostri occhi non è un fenomeno improvviso, ma ha una sua radice e una sua matrice d’origine.
Le consulte studentesche. Se andiamo a guardare i dati della rappresentanza delle consulte studentesche universitarie tra il ’66 e il ’67, vediamo che sono a maggioranza di destra. L’anno dopo c’è il ’68 e l’anno dopo ancora il ’69 operaio. Questo non per parlare dei corsi e ricorsi della storia, ma per capire che ci sono dei processi che non sono un fatto dell’oggi. Ragioniamo sugli spazi occupati, dal punto di vista sociale, dall’estrema destra, da CasaPound, che differiscono dai campeggi delle vostre associazioni, organizzazioni solo per le braccia tese e le cinghiate, eccetera. Negli anni 70 c’erano i Campi Hobbit dei neofascisti. E i campi Hobbit erano effettivamente una riproduzione manifesta delle attività alternative della destra.
I programmi scolastici. Se andiamo a vedere i programmi scolastici degli anni 68-69 arrivano forse alla Prima guerra mondiale, tendenzialmente dopo le Guerre d’Indipendenza si chiudeva il ragionamento della storia.
Quindi, questi fenomeni sono sempre presenti, non sono una produzione della nostra contemporaneità, sono elementi che si riproducono perché i punti, gli elementi e le leve di frattura non sono state tanto profondi da modificarne le condizioni. E non modificandone le condizioni hanno reso possibile una riemersione di queste problematiche.
La trasformazione non è un concetto progressista o conservatore. La trasformazione è un concetto “neutro”, se vogliamo usare questo termine. Quindi sulla base di questa categoria, quella della trasformazione, bisogna vedere come ci si rapporta a questo.
La destra sembra avere uno spazio egemonico sul piano sociale, su alcuni temi, perché opera, rispetto all’approccio alla trasformazione, una misura semplificatoria che non scioglie nessun nodo ma la rende manifesta. La differenza con la sinistra in questi anni è stata questa: quando la destra indica la questione della migrazione come “la Questione”, non sta risolvendo il problema, non lo sta affrontando né sta affrontando quel processo di trasformazione. Dichiara semplicemente la sua esistenza. La sinistra questo non lo ha fatto ed è questa la differenza, perché sia la destra sia la cosiddetta Sinistra storica, istituzionale, non ha una risposta reale al governo di questo processo. La destra però, semplicemente per il fatto di denunciarne l’esistenza, rompe quella formula del cosiddetto politicamente corretto che, invece, è stata la tara storica dell’approccio all’analisi reale della materialità delle condizioni delle persone, da parte della sinistra.
Non a caso, rispetto al mondo giovanile, la sinistra attraversa una crisi strutturale, e non solo rispetto alla partecipazione ma anche al consenso giovanile. Partecipazione e consenso sono due cose diverse.
L’Italia, tanto per cambiare, è un laboratorio particolare: se l’estrema destra non si è manifestata nelle dimensioni di massa come nel resto dell’Europa è perché la risposta sistemica alla crisi si è, in qualche maniera, prodotta in una convergenza dentro un movimento d’opinione di centro: il Movimento 5 Stelle, che oggi rappresenta un terzo dell’elettorato italiano e che ha al suo interno elettori su 10 compresi in un’età tra i 18 e i 35 anni. Questo partito che raccoglie il 30% dell’elettorato, cioè quanto raccoglieva nei momenti apicali il Partito comunista nel cuore della partecipazione del movimento operaio e del movimento studentesco, eccetera negli anni 70. Oggi un terzo dell’elettorato, un italiano su tre, vota Movimento 5 Stelle. Dentro questa pancia di elettori 7 su 10 sono giovani, che partecipano alla vita politica del movimento? No. I deputati sono stati indicati da circa 40.000 persone, che hanno partecipato alle Parlamentarie.
Dunque, consenso e partecipazione sono due cose diverse, che non a caso identifichiamo con due categorie diverse e con parole diverse. Questa risposta sistemica, in Italia, ha evitato un tracimare della destra, a differenza di quello che è successo negli altri Paesi d’Europa in cui l’estrema destra è andata a un passo dal governare, come in Francia per esempio, o che governa Paesi dell’Europa dell’Est.
A questo contesto, in Italia, si è data una risposta sistemica, che ha stabilizzato il quadro, non l’ha destabilizzato, consentendo ai partiti politici di mantenere una forma precedente alla manifestazione della trasformazione della crisi.
Ci dobbiamo interrogare su quali sono le risposte a queste trasformazioni, che non sono in sé un concetto conservatore né progressista.
La risposta alla conservazione è la denuncia dell’esistente e la raccolta immediata di una rappresentanza che serve a non modificare il quadro. È esattamente questo il punto dirimente: è la raccolta del consenso con una finalità stabilizzatrice. La risposta sistemica francese all’emersione dell’estrema destra è stata Macron, cioè una stabilizzazione di fatto del quadro politico.
In Italia, il Movimento 5 Stelle ha, di fatto, permesso una stabilizzazione del quadro politico, nella misura della costante linearità d’indirizzo della destra e della sinistra, rispetto alla fase precedente. Quindi dobbiamo interrogarci su qual è, invece, la risposta della sinistra; è fondamentale e, ripeto ancora una volta, lo studio del neofascismo consente di avere un punto osservazione interessante. Infatti, è vero che anche minoritariamente riesce ad avere delle funzioni egemoniche dentro un blocco sociale largo, ma anche questo è sempre stata una sua caratteristica. Anche del Movimento Sociale. Ricordo il Fronte articolato anticomunista, la Grande destra, la riforma presidenzialista che ogni primo giorno della legislatura Almirante portava in commissione, sono diventati meccanismi che poi hanno fatto parte della trasformazione politica di quella parte, di quel blocco che all’epoca faceva capo alla Democrazia Cristiana e progressivamente si è modificato con la destrutturazione partitica di quella rappresentanza di quel pezzo della società italiana.
Quindi osservare il fenomeno neofascismo è sicuramente utile, indispensabile. Allo stesso tempo, il punto dirimente, che scinde la strada della conservazione da quella del “progressismo”, è affrontare i problemi con delle proposte forti, reali, che immediatamente investano le vite delle persone. Se metà dell’Italia è direttamente investita da una trasformazione che tutti vedono, dal cittadino di Lampedusa a quello che ha il Centro di Accoglienza vicino casa – non intendo il centro di accoglienza come luogo fisico ma come questione politica – si devono investire le forze sociali di cui si dispone e chiamare, con una proposta politica reale, i pezzi di società direttamente investite da queste trasformazioni. La destra lo fa dicendo “chiudiamo i centri d’accoglienza e buttiamo fuori i clandestini”, la sinistra lo deve fare con un altro approccio evidentemente, che è l’unico percorribile. Di certo la militarizzazione non ottiene una risposta. Quindi la sinistra deve attivare un colloquio con quella porzione larga di società, in primis i ragazzi.
Continuo a parlare della questione dei giovani del Sud perché un Paese in cui due terzi dei giovani del Sud lasciano la loro terra è un Paese che non ha una prospettiva di nessun tipo, nessun futuro. Investire lì risorse, fatica, politica, cultura significa trasformare la questione della migrazione in un terreno di conflitto, e di scontro, con la destra, in campo aperto. Perché è lì che ci si misura sul terreno della politica, intesa come capacità di aggregazione su una proposta reale. Trasformare il Sud nel laboratorio d’Europa sulla migrazione è un tema che la sinistra si deve porre. In Italia c’è una conformazione politica, sociale, geografica che dà una enorme possibilità su questo. Bisogna investire sul piano della formazione di nuove professioni, che oggi nemmeno immaginiamo, da costruire dentro le università, in un dialogo costante, in un rapporto costante con la gioventù che si forma dentro quelle università. E che, formata in quella maniera, depotenzierà le misure militari, militariste, smilitarizzerà tutto l’approccio al concetto della migrazione come fenomeno da cui difendersi, e quindi disarmerà le parole d’ordine della sicurezza intesa come misura securitaria. Noi su questo terreno con proposte forti, che non abbiano paura della radicalità, possiamo effettivamente avviare un colloquio, un dialogo. Se giovani si sono avvicinati al Movimento 5 Stelle è sul piano della radicalità di un movimento che esprimeva una necessità, confusa, disorganica, assolutamente non rappresentativa, nel concetto stesso di partito, di nessuna prospettiva futura. Un movimento come quello dei 5 Stelle non rappresenta, infatti, un elemento di rottura perché non è un partito. Un partito, per la stessa natura intrinseca della democrazia, è rappresentanza di una parte. Se un partito non rappresenta una parte, ma mira a rappresentare il tutto, automaticamente acquisisce un profilo identitario, tendenzialmente autoritario. Laddove un partito non riconosce, nella democrazia, lo spazio dove raccogliere la pluralità, di cui lui come struttura è una porzione e non può essere tutto. Il partito fascista si proponeva di rappresentare tutto il corpo della nazione. In democrazia, un partito deve rappresentare una parte dell’azione, una parte della società, altrimenti diventa un’altra cosa. Nel nostro caso, il Movimento 5 Stelle, che pure ha drenato il malcontento, evitando il tracimare della destra, giocoforza esprime le sue pulsioni profonde in termini autoritari: sul tema dell’immigrazione, per esempio, sul tema del lavoro che è sostanzialmente assente all’interno di qualsiasi programma o dichiarazione di un partito che pure rappresenta un italiano su tre, ed è un Paese in cui c’è il 50% di disoccupazione giovanile. Eppure un partito che rappresenta un italiano su tre non parla di questo, non si pone il problema, o lo scioglie con la proposta del reddito di cittadinanza. Su questi temi la sinistra, invece, si deve cementare: quello della migrazione è “Il tema”, perché investe direttamente le periferie: le periferie sociali, intese come segmenti della società a disagio dentro processi di trasformazione; le periferie urbane, nel concetto stesso di costruzione di un centro e di una periferia, di un interno ed un esterno della cittadinanza; e le periferie culturali, dove non ci si pone il problema della costruzione della cittadinanza attraverso la cultura, ma si parte dal presupposto che questa sia un elemento secondario della cittadinanza, che sia subordinato ad altre priorità.
Questi tre temi, secondo me, rappresentano oggi l’antidoto all’espansione egemonica della destra, dal punto di vista culturale, e anche una bussola di orientamento per la sinistra.
Mi sono venute in mente due cose. Una è un personaggio di Altan, che un certo punto sta seduto sulla sua sedia e dice “mi vengono in mente opinioni che non condivido”. Vi dirò quali sono le opinioni che non condivido. Prima vi propongo quella un po’ più seria. Qualche anno fa, mi capitò di leggere un’intervista al filosofo basco Fernando Savater, che a un certo punto conversando con l’intervistatore gli dice “sai, nella scrittura cinese non esiste un ideogramma per la parola ‘crisi’, bisogna scrivere due ideogrammi: pericolo e opportunità”.
Questo riflettevo sentendo Martina; mi è sembrato che ci fosse come una sorta di elencazione di pericoli o perlomeno una condizione di precarietà, che non è soltanto lavorativa, professionale, ma è anche precarietà esistenziale. E mi è venuto di chiedermi, rispetto alla “domanda delle cento pistole” per citare Sandro Paternostro, grande giornalista televisivo del passato. È la domanda che poneva il direttore. Rifacendomi al concetto di crisi come pericolo e opportunità, qual è stata, per esempio, l’opportunità della generazione degli anni Settanta, dei giovane degli anni 70? Indubbiamente, l’opportunità, grande, di passare attraverso una cesura storica, un passaggio di modernizzazione della società, con prospettive e in un contesto di crescita, di consolidamento di una identità sociale. Perché parlo degli anni 60 e 70? Perché quegli anni, secondo me – e qui arrivo a quello che non condivido, ma la mia opinione forse non è molto politicamente corretta – in quegli anni viene fondata la categoria dei giovani. Si comincia a guardare alle giovani generazioni come categoria, come gruppo sociale, come qualcosa di decifrabile, come entità collettiva, negli anni 60.
Quando mia figlia era bambina, purtroppo alcuni anni fa, pensavo “ma guarda quanti giocattoli, quanti libri hanno i bambini di oggi!”. Questo perché negli anni 70 non solo i giovani, ma anche l’infanzia è stata categorizzata, considerata come un gruppo. Prima i bambini erano soltanto adulti in attesa di diventare tali mentre a un certo punto diventano un oggetto di studio e, ovviamente, come tutti gli oggetti studio, la prima cosa che si fa è cercare delle categorie. Davide parlerebbe della società categoriale, concetto a lui molto caro e che lui ha usato molto bene nei suoi lavori. Però, forse, questo è il problema: nella categorizzazione fatta negli anni 70, l’elemento di identificazione è stato quello di vedere i giovani come gruppo sociale fortemente politicizzato, con un forte tasso di politicità. Penso a tutte le nostre riunioni di oggi, quando ossessivamente si contano i giovani: “C’erano 10 giovani, è andata bene”. “Ma c’erano 200 persone!” “Non fa niente, è andata bene lo stesso”. Quando si contano i giovani, in fondo le generazioni più anziane fanno loro un rimprovero: non siete come noi, non siete politicizzati!
Dovremmo anche dovremmo arrivare a una critica di questa categorizzazione, di questa pretesa di ridurre le generazioni a una serie di definizioni nelle quali le giovani generazioni, soprattutto oggi, non entrano. Non entrano perché quando aumenta la complessità sociale, la stratificazione, l’articolazione ideologica e culturale, aumenta la differenza di aspirazioni, di desideri, di intenzionalità, cioè di tutte quelle cose che vanno a comporre la felicità. Forse un tempo era più facile essere felici, è difficile dirlo ed è anche inutile. Però dovremmo cominciare a riflettere su questo e cioè che le giovani generazioni non sfuggono ai processi di frammentazione culturale, sociale, economica. Non possono essere più considerati come un continuum, nel quale basterà prendere un anello che ci consentirà di tirare a noi tutta la catena. Non è così. E allora forse la ricomposizione sociale generazionale avviene realmente intorno a un progetto, a un progetto politico progressivo, chiamiamolo così. Su questo vorrei dire qualcosa.
In questa tavola rotonda non abbiamo parlato di Europa, se non di alcuni Paesi, di tendenze.
La costruzione europea, così come è stata fatta, in questo discorso c’entra molto. È molto difficile, oggi, per persone che soffrono la disoccupazione, l’impoverimento intellettuale di una scuola che non è più tale, è molto difficile riconoscersi. Come si fa a riconoscersi in una fondazione europea, in una costruzione europea che si basa sul concetto di libertà di circolazione, delle persone, delle merci e dei servizi? La costituzione materiale, intendo. Non c’è un testo scritto, lo sappiamo. Il costituzionalismo europeo, soprattutto in questi anni dopo Maastricht, in fondo si è individuato per questo. Ma come fa una persona giovane a riconoscersi in questi valori?
La Costituzione italiana dice che la Repubblica è fondata sul lavoro. E il lavoro è uno di quei grandi filoni in cui è possibile immaginare anche una ricomposizione tra le generazioni su un progetto di cambio di passo profondo. Per 12 anni ho fatto il Segretario della Commissione Lavoro in Senato, e lo so bene. Da 30 anni ormai, in questo Paese le politiche del lavoro sono politiche formulate tutte sul versante dell’offerta di lavoro, politiche che rendono che tendono a ridurre il costo di acquisto del lavoro, a rendere il lavoro una merce più conveniente. È possibile un progetto politico di trasformazione su una prospettiva del genere? Evidentemente, no. Non può che essere un progetto di conservazione sociale. Allora cambiare il passo, dire francamente che il fine della legislazione del lavoro non è rendere il lavoro meno costoso, perché la Costituzione dice che il fine della legislazione del lavoro è altro: aumentare la tutela, gli spazi dei diritti delle persone che lavorano, le opportunità di lavoro.
Allora questo cambio di passo può effettivamente comportare una trasformazione profonda e un terreno di impegno dove effettivamente si può manifestare, e già si manifesta oggi, la volontà di protagonismo delle giovani generazioni. I giovani, giustamente, vogliono essere protagonisti perché il mondo è loro. Come diceva un vecchio cinese: “il mondo è nostro e anche vostro, ma soprattutto vostro”. Il mondo è dei giovani.
Il protagonismo giovanile ha tratto di continuità, ce l’ha detto molto chiaramente Martina: aumenta l’astensionismo, ma non diminuisce la volontà del mondo giovane di partecipare e la partecipazione si manifesta in forme anche non politiche. Bisogna andare tutti a fare volontariato? Potrebbe essere anche una soluzione, ma non è “la soluzione”. La soluzione è riscoprire una dimensione di progettualità che sia anche in grado di operare una grande ricomposizione delle generazioni, individuare terreni comuni dove le generazioni possono effettivamente ritrovarsi in un impegno di lungo respiro.
Un altro grande tema è quello della scuola e della formazione. Colpisce che nel corso di questi ultimi anni si siamo sovrapposte una serie di riforme complessive della scuola che, spesso e volentieri, si sono copiate. Si sono copiate al punto che alcune norme della “Buona scuola” sono la fotocopia dei prodotti della precedente riforma Gelmini. Il risultato è stata una sorta di bulimia legislativa per cui ogni legislatura, ogni governo si è sentito di fare una propria riforma della scuola. La scuola è un corpo in coma, non assorbe più alle sue funzioni essenziali. E non solo sul piano della formazione. La scuola non è più un ascensore sociale.
Nella società italiana non c’è più mobilità sociale. Così la destra radicale può formulare parole d’ordine, non proposte, come diceva Davide, ma solo accertamenti della realtà, certificazioni della realtà, che possono avere una certa presa. Ma non c’è dubbio che questo è un terreno contendibile, un terreno sul quale è possibile, oggi, riaffermare una egemonia delle forze democratiche. Certo, ci vuole coraggio politico. Il mancato voto sullo ius soli, un disegno di legge molto moderato, è proprio il segnale di una paura, di una incapacità di concepire la discesa in campo come scontro aperto su grandi ideali. Tantissimi anni fa, quando si fece il referendum sul divorzio, una grossa parte della sinistra non voleva quel referendum, perché temeva di essere sconfitta.
Ecco, alle volte forse il coraggio di poter finire in minoranza può pagare di più che non la quiescenza all’eterno presente, che riduce la politica ad amministrazione e governo del momento e che non può esercitare alcun fascino sulle giovani generazioni.
Ascolta l’audio integrale della seconda parte della tavola rotonda “Giovani e antifascismo”:
Pubblicato giovedì 22 Marzo 2018
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