“Che giornata straordinaria, grazie POTUS”. È allegro il tweet di Netanyahu che ringrazia il President Of The United States. Periferia sud di Gerusalemme, apre i battenti la nuova ambasciata degli Stati Uniti, la prima che riconosce Gerusalemme come capitale di Israele. È soltanto il vecchio consolato americano nel quartiere di Armona ristrutturato alla svelta, blindato all’inverosimile (parte del terreno è zona d’occupazione tolta ai residenti arabi) e rapidamente battezzato ambasciata per poter tagliare il nastro nel giorno simbolico dei 70 anni di Israele. Settant’anni da quando un quarto di milione di palestinesi venne cacciato dalle proprie case, il giorno che gli uni chiamano patria e gli altri Nakba, catastrofe. A mezz’ora di automobile dai diplomatici in festa, dietro la “barriera di separazione” a Gaza, a quell’ora i morti erano già 25, ma quelli non valgono un tweet, non valgono niente. Sì, che giornata straordinaria.
Donald Trump aveva promesso l’ambasciata Usa a Gerusalemme e dopo sei mesi la inaugura, con le stelle filanti e la banda musicale. Lui non c’è, ha inviato la first daughter Ivanka e il first genero Jared Kushner. Che su Instagram avverte il mondo: “Trump mantiene le promesse”. Quando aveva infranto il patto sul nucleare dell’Iran, un miracolo diplomatico faticosamente negoziato da Obama, era stato Donald stesso a incensarsi sul New York Times: “Quel patto era un disastro, avevo detto che l’avrei cancellato”.
Intanto a Ramallah, Betlemme, Nablus, Gerico i sassi si incrociano con i fucili, e come sempre i sassi hanno la peggio, i morti palestinesi si ammucchiano, prima del tramonto saranno 60, i feriti in ospedale 1.700, tra loro donne, bambini, una neonata di pochi mesi strangolata dai gas lacrimogeni. È la peggiore strage dal 2014, dalla guerra di Gaza. Ma Trump mantiene.
L’ossessione che porta la Casa Bianca a imbracciare come un’arma la sua roboante campagna elettorale è una delle più forti chiavi di lettura del comportamento americano. Trump ha promesso, Trump mantiene, non importa il prezzo. Se per convincere diecimila decisivi elettori del Michigan che “Donald is different” è necessario devastare la vita di cinque milioni di profughi palestinesi e ucciderne qualche decina, ebbene che si faccia. È politica interna, la sola che conta davvero: “make America great”, e il Michigan ha 16 grandi elettori…. Così, un passo dopo l’altro, Donald adempie. E un passo dopo l’altro, si avvicina alla terza Guerra del Golfo. Che giornata straordinaria.
Benjamin Netanyahu ha molti motivi per festeggiare. Questo giorno di festoso massacro è il punto di arrivo di un cammino iniziato tre anni fa, un pomeriggio di marzo del 2015 a Washington. Quel giorno il capo del governo di Israele entrò in Campidoglio per parlare al Congresso americano in seduta congiunta. Un evento raro, l’audizione pubblica. E Netanyahu non tradì le aspettative: il vero nemico, disse a deputati e senatori americani, è l’Iran. L’Iran che appoggia i massacratori di Assad in Siria, che appoggia le milizie sciite in Iraq, che appoggia il regime dello Yemen messo a guardia dello stretto di Hormuz, il tappo di quella botte di petrolio e corsie strategiche che è il Mar Rosso. L’Iran che voleva “cancellare Israele dalla mappa”, come tanti altri, ma il solo con le risorse per farlo. Quel giorno l’asse Stati Uniti-Israele-Arabia Saudita imboccò apertamente la strada per ridisegnare il Medio Oriente a costo di metterlo a ferro e fuoco. Una linea che paga: oggi Netanyahu ha un consenso del 69%, il suo Likud non è mai stato così forte e nessuno più parla o scrive delle tre inchieste per corruzione che lo riguardano, e che sembrava dovessero eliminarlo dalla mappa politica del Paese. Tutto sparito dietro la bandiera di guerra della patria.
L’Arabia Saudita, a lungo il tradizionale protettore dei palestinesi, venne imbarcata in fretta. Il suo primo viaggio come presidente, nel maggio del 2017, fu proprio a Ryadh e servì a Trump per stabilire il contatto con l’allora principe della corona dei Saud, il 31enne Mohammed bin Salman. E per chiarire ai petro-emiri sunniti, ai loro miliardi e ai loro alleati, che “l’Iran finanzia, arma e addestra terroristi, milizie e gruppi estremisti che diffondono distruzione e caos”. L’obiettivo comune era fissato e Ryadh poteva pagarselo. Ad esempio, se la Boeing americana perde 20 miliardi di dollari di contratti con l’Iran a causa dell’embargo, verrà almeno in parte risarcita dall’Arabia Saudita che acquisterà 5 miliardi di dollari di altri prodotti Boeing, le armi. E così via.
Nell’assalto all’Iran, i palestinesi sono sulla traiettoria. Cinque milioni e 150mila profughi vivono su una linea di tiro che dalla Cisgiordania passa da Tehran, Damasco, Sanaa e altre capitali di un fronte unito solo dal comune nemico, Israele. Le loro armi sono sassi, mucchi di copertoni vecchi a cui dare fuoco confidando nella gravità, un inaudito tasso di natalità e ora l’ultima risorsa, quella contro cui i soldati di Israele hanno sparato a alzo zero, riempito il cielo di droni carichi di gas lacrimogeno, lanciato salve di missili e attacchi di carri armati: i temibili burning kites. Aquiloni incendiari. Sì, proprio aquiloni, mezzo metro quadrato di stoffa e bastoncini, coi colori della Palestina e lunghe code di carta a cui dare fuoco sperando che il vento e le stoppie dei campi israeliani facciano il resto. C’è da stupirsi se i morti sono sempre da una parte sola?
L’Onu è sparita, ancora una volta. Sei mesi fa, all’annuncio della nuova ambasciata, Usa e Israele erano stati sepolti dai voti di una mozione che chiedeva di rispettare gli accordi internazionali e considerare Gerusalemme Est città occupata e non proclamarla capitale di Israele fino alla soluzione del conflitto. Washington se n’è allegramente fregata, seppellendo una volta per tutte i “due popoli due Stati” firmati un quarto di secolo fa a Oslo e il proprio ruolo di mediatore terzo nel conflitto – ora l’unico rimasto è Putin, non proprio un modello democratico.
L’Europa impugna ancora la bandiera della protesta, dalla “ministra degli esteri” Mogherini sono venute le sole parole di ferma condanna della strage, ma è una bandiera che sventola debolmente e alcuni Stati l’hanno già ammainata: Austria, Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia hanno persino inviato propri rappresentanti alla cerimonia dell’inaugurazione, che si sono uniti ai religiosi ultra-ortodossi, ai leader dei partiti di destra e agli altri curiosi personaggi venuti a Gerusalemme a celebrare la vittoria della Bibbia sulla ragione. Tra loro ce n’era uno che è l’emblema del trumpismo militante, e da solo merita qualche parola. Si chiama Sheldon G. Adelson, ha passato l’ottantina, per qualche anno è stato il terzo uomo più ricco degli Usa dopo Bill Gates e Warren Buffett. È un ebreo di genitori lituani e infanzia proletaria a Boston, ha fatto i soldi all’inizio della Silicon Valley e li ha moltiplicati per cento con i casinò a Las Vegas: li compra, li rade al suolo, ne estirpa gli aspetti obsoleti – dalle decorazioni più pacchiane al sindacato – e li ricostruisce come macchine da miliardi. È il grande finanziatore delle lobby filo-israeliane e dei repubblicani americani, ed è l’uomo che ha convinto Trump a spostare l’ambasciata. La sua arma segreta? Le donazioni. Ma a botte di 25 milioni di dollari l’una. Gerusalemme si può conquistare, come fece Moshe Dayan nel ’67 per mai più andarsene (e chiamò le nuove case “rifugi temporanei per le truppe”, per aggirare la convenzione di Ginevra che vieta alla potenza occupante di costruire tranne che per necessità militari: quei “rifugi temporanei” sono ancora lì). Gerusalemme si può comprare. Sheldon G. Adelson l’ha fatto. Anche per lui, una giornata straordinaria.
I Paesi arabi sono frastornati, hanno riunito la Lega Araba ma senza una vera reazione comune. La Turchia di Erdogan è il solo Paese che alza la voce, ha richiamato l’ambasciatore a Tel Aviv ed espulso quello israeliano da Ankara, minacciando reazioni e ritorsioni, ma lo scopo sembra più quello di ritagliarsi un ruolo di potenza regionale che di far uscire la Palestina dall’inferno in cui sprofonda, oggi un po’ più di ieri.
In Italia, il solo a parlare contro la violenza è papa Francesco, e del resto un governo non c’è, e quando ci sarà il Medio Oriente non sarà la sua occupazione principale. Anche se un attacco all’Iran e ai suoi alleati sparsi nella regione ci riguarderà da molto vicino: in Libano, in cui Hezbollah (filo-iraniano) è tra i protagonisti della politica, ci sono ancora oltre un migliaio di alpini della Julia, missione Unifil delle Nazioni unite, ma chi se ne ricorda più? Per ora, l’Italia ci ha messo tre servizievoli tappe del Giro d’Italia, parte di un’efficace operazione di propaganda di cui chissà se ci ricorderemo quando cominceranno a saltare i 25-30 miliardi di euro di contratti tra le aziende italiane e l’Iran, quando decisioni prese a Washington – e non a Roma o a Bruxelles – cominceranno a costare posti di lavoro italiani.
Roberto Zanini, giornalista, già redattore capo de il Manifesto
Pubblicato venerdì 18 Maggio 2018
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