Il fallito colpo di stato in Turchia ha contribuito a rafforzare il potere del presidente Erdoğan. La notte dello scorso 15 luglio l’esercito ha bloccato i due ponti sul Bosforo e sembrava che, ancora una volta nella storia del Paese, la via del golpe avrebbe dato le carte in mano ai militari. Invece, dopo qualche ora in cui i mezzi di comunicazione di massa di tutto il mondo e i social network di utenti comuni rilanciavano i presunti spostamenti in volo di presidente e famiglia, ecco che tutto si conclude.
Recep Tayyip Erdoğan si mostra in video, da località imprecisata, utilizzando FaceTime (un social network, ndr) in diretta sulla CNN turca. Un paradosso se pensiamo che negli ultimi anni il presidente ha sempre posto il bavaglio a twitter, Facebook e a molti giornalisti. Poi, mentre i suoi sostenitori scendevano in strada, è apparso in pubblico a Istanbul, la città di cui è stato sindaco ovvero la vetrina della Turchia nel mondo, e non nella capitale Ankara, tradizionalmente più laica e legata ai militari kemalisti (da Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna, ndr). Il golpe è di fatto fallito. Il bilancio ufficiale degli scontri è di almeno 270 morti e più di 2mila feriti.
Da lì acclamazione e festeggiamenti dei sostenitori del presidente tra le strade e nelle moschee. Subito dopo le annunciate epurazioni di massa. Tra il 17 e il 20 luglio sono state arrestate o esonerate quasi 35mila persone appartenenti alle forze armate, alla magistratura e alla polizia. 15mila impiegati del ministero dell’istruzione sono stati sospesi, a 21mila insegnanti è stata revocata l’abilitazione e più di 1.500 docenti universitari sono stati costretti alle dimissioni. Sono state chiuse 15 università e 1.043 scuole private.
Inoltre sono stati chiusi 16 canali tv, 23 stazioni radio e 15 quotidiani. Si può dire che il presidente abbia colto la palla al balzo per far fuori un po’ di nemici interni.
Secondo Erdoğan il responsabile del tentato colpo di stato è Fethullah Gülen, un anziano ex imam dal 1999 autoesiliatosi negli Stati Uniti, in Pennsylvania, del quale Ankara ha subito chiesto a Washington l’estradizione.
Gülen è stato un alleato di Erdoğan, dichiara di ispirarsi a Said Nursi, un teologo sufi di origine curda, e ha creato la principale organizzazione del Paese. La cemaat (comunità) di Gülen è estesa e ben inserita nella Turchia moderna. L’hanno paragonata ai movimenti evangelici statunitensi. Questa confraternita è stata molto utile durante gli anni in cui il presidente ha consolidato il suo potere: l’Akp (il Partito della giustizia e dello sviluppo fondato da Erdoğan, ndr) e Gülen sono stati alleati tra il 2002 e il 2012.
L’hoca effendi (rispettato maestro) – così è chiamato Gülen dai suoi seguaci – ha predisposto un’infiltrazione lenta e capillare all’interno dello Stato, senza farsi notare per raggiungere i centri di potere in questi anni. I gülenisti avevano messo a punto un sistema per favorire i loro protetti alle selezioni per accedere alle accademie militari fornendo in anticipo le risposte ai questionari, come ha svelato un’inchiesta. Molti fethullahci sono entrati anche nella polizia.
Qualche anno fa due grandi processi pubblici e molto seguiti dai media – Ergenekon e Balyoz – si sono concentrati sul cosiddetto Stato parallelo della Turchia: militari, giornalisti e avvocati furono condannati sulla base di prove false per presunti complotti contro l’Akp, il partito di governo. Queste sentenze sono poi state annullate tra il 2014 e il 2015.
La rottura con Gülen è avvenuta dopo altre inchieste e scandali che hanno coinvolto anche Erdoğan quando era primo ministro. Intanto il presidente continua le sue epurazioni, vorrebbe reintrodurre la pena di morte (era stata abolita dopo l’inizio dei negoziati di adesione all’Unione Europea) e la maggioranza dei turchi lo sostiene.
Il Paese ha subito un altro terribile attentato lo scorso 20 agosto a Gaziantep, una cittadina al confine con la Siria, durante il matrimonio di un militante del partito filocurdo Hdp: 54 morti e più di un centinaio di feriti. Secondo alcuni osservatori gli attentatori volevano colpire i curdi di Turchia come vendetta per la sconfitta del gruppo Stato islamico a Manbij. Sta di fatto che in questo momento i curdi sono un attore importante nel vicino conflitto siriano. Lo scorso 12 agosto infatti le Fds (Forze democratiche siriane) – una coalizione di milizie guidate dalle Ypg curde (Unità di protezione popolare), cioè i curdi siriani, legate al Pkk, il movimento dei curdi di Turchia – hanno preso la città di Manbij a ovest dell’Eufrate, sostenute dagli Stati Uniti, dopo oltre due mesi di combattimenti. Questa città si trova lungo una strategica via di rifornimento che collega la frontiera turca con Raqqa, roccaforte del gruppo Stato Islamico (Is).
Lasciare che i curdi si creino una zona di loro competenza all’interno della Siria ovviamente è una cosa che la Turchia impedirà a tutti i costi, perché potrebbe dare speranza anche ai curdi turchi che da anni rivendicano una loro autonomia nel sud-est del Paese. Erdoğan ha quindi aperto una nuova via in Siria, dopo il recente avvicinamento con Putin. Dopo il fallito golpe infatti, il 9 agosto il leader turco ha fatto visita a Putin a San Pietroburgo, per porre fine alla crisi seguita all’abbattimento di un aereo militare russo in Siria da parte di un jet turco lo scorso novembre.
Così il 24 agosto l’esercito turco ha sconfinato in territorio siriano, con un gruppo di combattenti dell’Esl (esercito siriano libero) e il supporto dell’aviazione statunitense con l’obiettivo di conquistare la città prima delle forze curde. I turchi hanno occupato Jarablus senza incontrare resistenza da parte del gruppo Stato Islamico. Prima del disgelo con Putin (che nel puzzle siriano sostiene il presidente siriano Assad) una tale mossa nella guerra in Siria non sarebbe stata possibile per Erdoğan. La Turchia prende di mira anche le posizioni dei curdi a nord di Manbij.
Questa operazione detta “Scudo dell’Eufrate”, con il pretesto di combattere il gruppo Stato Islamico (Is) vuole di fatto cacciare indietro le forze dei curdi siriani, a ovest del fiume. D’altronde Erdoğan, dopo aver rigettato un cessate il fuoco chiesto dai curdi siriani e averli accusati di pulizia etnica, ha ribadito che la Turchia combatterà i curdi e il gruppo Stato Islamico con la stessa determinazione, oltre naturalmente all’altro nemico interno Gülen. Per ora quel che è certo è che ci sono un sacco di vittime civili, dentro e fuori i confini della Turchia.
A margine del vertice G20 in Cina dei primi di settembre, Obama ha incontrato Erdoğan, la Turchia ha una posizione chiave in quell’area e i nuovi rapporti con la Russia vanno tenuti in conto.
Antonella De Biasi, giornalista professionista freelance. Ha lavorato al settimanale La Rinascita della sinistra scrivendo di politica estera e società. Collabora con Linkiesta.it e si occupa di formazione giornalistica per ragazzi
Pubblicato giovedì 8 Settembre 2016
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/erdogan-il-tentato-golpe-e-la-questione-curda/