(Imagoeconomica, Saverio De Giglio)

L’8 e il 9 giugno scorsi, per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, in occasione di elezioni politiche generali per il Parlamento europeo si è registrato un numero di votanti inferiore alla metà degli aventi diritto: il fenomeno dell’astensionismo, che dura da anni e che ha acquistato col passare del tempo proporzioni crescenti, ha toccato dunque il suo punto estremo (per ora). A determinare il dato è stata in buona misura la calante affluenza alle urne nelle due circoscrizioni meridionali (rispettivamente, il 43,7 per cento nel Sud peninsulare e addirittura il 37,8 per cento nelle Isole), non contenuta neppure dalla concomitanza con una tornata amministrativa che ha interessato molte città medie e piccole.

Antonio Decaro è stato eletto al Parlamento europeo con quasi 500mila preferenze (Imagoeconomica, Andrea Panegrossi)

A Bari, per fare un solo esempio, nonostante l’effetto di traino esercitato dalla candidatura alle europee del sindaco uscente Antonio Decaro (sul cui eccezionale risultato si avrà modo di ritornare), si è recato ai seggi il 58 per cento circa degli aventi diritto al voto, rispetto al 64 per cento circa del 2019. E appunto sull’ennesima, grave flessione dei votanti nel Mezzogiorno s’intende qui svolgere qualche rapida considerazione, dopo una premessa di ordine generale.

I simboli del partito democratico e di quello repubblicano statunitensi

Sulle cause del costante aumento della disaffezione degli elettori esiste una letteratura ormai sterminata. Non mette qui conto passare in rassegna il ventaglio delle interpretazioni avanzate in proposito da politologi, sociologi, statistici: ma alcune di esse meritano un minimo di riflessione. Più d’uno sostiene che non bisogna preoccuparsi della scarsa partecipazione al voto perché essa è tipica di ogni società industriale avanzata, e invoca a conferma il caso degli Stati Uniti d’America: ma l’assunto non regge. La democrazia americana, a differenza di quelle europee, non ha mai avuto come protagonisti i partiti di massa; in più, il suo sostanziale bipolarismo è un fattore limitativo dell’offerta politica, per quanto democratici e repubblicani ospitino sensibilità diverse, e la legge elettorale uninominale restringe notevolmente le possibilità di scelta degli elettori.

(Archivio fotografico Anpi nazionale)

Infine, per quanto riguarda la situazione italiana, non si può non rilevare come la percentuale degli astenuti sia paradossalmente più alta nelle campagne, ovvero nelle aree meno investite dai processi di modernizzazione. Se proprio si vogliono assumere a termine di riferimento gli Usa, converrà chiedersi in quale misura sulla decisione di disertare le urne abbiano inciso da noi la dissoluzione dei partiti di massa novecenteschi (formidabili strumenti di promozione e di organizzazione della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica), il tramonto delle ideologie (che hanno per decenni dato forma agli ideali, ai valori, persino ai sentimenti di vasti mondi sociali) e, relativamente al voto politico, l’adozione di una legge elettorale che, nella sua parte proporzionale, espropria gli elettori del diritto di scegliere i propri rappresentanti.

(Imagoeconomica, Claudia Colombo)

Ancora: in molti osservano che le elezioni europee non esercitano grande fascino perché la Ue è avvertita da larghi settori della cittadinanza come un’entità distante, estranea e persino ostile, un’arcigna autorità la cui funzione si esaurisce nella imposizione di obblighi, di vincoli, di divieti (a mutare in meglio questa immagine, peraltro enfatizzata dalla propaganda sovranista, non sono servite le timide misure solidaristiche varate a ridosso dell’emergenza pandemica); e perché il Parlamento europeo appare un organismo debole, soverchiato dalle prerogative del Consiglio e della Commissione. Forse anche perché consapevoli di questo diffuso stato d’animo, i leader delle nostre maggiori forze politiche, di governo e d’opposizione, hanno giocato la carta della “nazionalizzazione” del voto, attraverso una campagna elettorale incentrata su temi di politica interna: ma l’espediente non ha pagato, segno che le radici dell’astensionismo sono profonde e prescindono dalle circostanze specifiche.

Una protesta durante una manifestazione a Taranto. Imagoeconomica, foto di Saverio De Giglio

Il crollo della partecipazione al voto nel Meridione si colloca dentro un quadro complessivo caratterizzato dalla sfiducia nella politica, dovuta a fattori troppo noti per dover essere richiamati: una sfiducia che a sua volta ha generato disillusione, rancorosa rassegnazione, distacco progressivo fra società e istituzioni, arroccamento corporativo ed esasperato individualismo. Ma le dimensioni dell’astensionismo nel Sud dipendono anche da ragioni particolari, riconducibili in ultima istanza – per quanto possa suonare banale – alla irrisolta questione meridionale. Senza spingerci troppo a ritroso nel tempo, si deve riconoscere che tutte le politiche per il Mezzogiorno messe in atto in età repubblicana non hanno conseguito risultati decisivi.

(Imagoeconomica, Carino by Ia)

La riforma agraria, i piani d’industrializzazione realizzati attraverso l’intervento straordinario, l’incentivazione dello sviluppo autopropulsivo (ispirata alla volontà di mettere fine all’assistenzialismo), non sono serviti a colmare il divario fra le Regioni meridionali e il resto del Paese, e qualche volta hanno persino aperto nuove piaghe (si pensi soltanto all’Ilva di Taranto). A seguire, l’insorgere della “questione settentrionale” (levatrice della improvvida modifica del Titolo V della Costituzione), la conseguente riduzione della questione meridionale a questione criminale, i drastici tagli alla spesa pubblica e la sua mancata riqualificazione, lo smantellamento di interi settori produttivi causato dall’uscita di scena dello Stato imprenditore e dalla globalizzazione dell’economia e del mercato, hanno accentuato le disuguaglianze, ulteriormente ristretto lo spettro delle opportunità e dilatato l’area della povertà, sgretolato la coesione sociale e il tessuto civile, aggravato gli squilibri territoriali (il cui aspetto più vistoso è il progressivo spopolamento delle zone interne). Superfluo aggiungere che l’attuazione dell’autonomia differenziata aggraverebbe in misura forse irreparabile una situazione già drammatica.

Il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, è stato eletto al Parlamento europeo con 380 mila preferenze, di cui oltre 254 mila solo nella sua Regione

Non deve perciò meravigliare che il Meridione (si perdoni la generalizzazione, ma lo spazio disponibile non consente di entrare nei dettagli) si senta non soltanto abbandonato, ma addirittura tradito. Alla politica le popolazioni del Sud non chiedono miracoli, e neppure elemosine; chiedono che le loro legittime istanze siano almeno ascoltate e prese sul serio, che venga rispettata la loro dignità; chiedono di essere messe nelle condizioni di costruire il loro futuro senza vedersi costrette a pagare perennemente il prezzo di secolari arretratezze. Si spiega così il plebiscito ottenuto alle elezioni europee da Antonio Decaro. Al di là del positivo bilancio dell’azione amministrativa, durante i dieci anni di mandato di sindaco della città metropolitana Decaro ha percorso migliaia di chilometri, ha incontrato un numero enorme di persone, ha dialogato con loro, ha mostrato attenzione ai loro bisogni, si è fatto carico delle loro attese. A essere premiate sono state appunto la sua dedizione, la sua cura del bene comune, la sua costante interlocuzione con gli individui in carne e ossa; a essere premiata è stata insomma una politica non autoreferenziale ma vicina ai cittadini, partecipe delle loro sofferenze e delle loro speranze, interessata al loro destino (per inciso: non sembra davvero un caso che un lusinghiero consenso sia stato raccolto anche da altri sindaci e da un presidente di Regione candidati al Parlamento europeo).

Il mito di Masaniello. Un ritratto di Aniello Falcone

Orbene, non si vede perché queste eccezioni non possano diventare regola, perché il loro insegnamento non debba essere messo a frutto; e soprattutto non si comprende perché, al di là delle stucchevoli geremiadi di rito, continuino a essere colpevolmente sottovaluti i pericoli che l’astensionismo comporta per la tenuta stessa della democrazia: quando i cittadini rinunciano a «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», come recita l’art. 49 della Costituzione, l’involuzione autoritaria è dietro l’angolo. L’allarme riguarda soprattutto il Mezzogiorno. A qualcuno fa comodo – per cinico calcolo o per cattiva coscienza – rappresentarsi le popolazioni meridionali come afflitte da un atavico immobilismo, da una fatalistica remissività.

Reggio Calabria nel 1970 fu teatro di una rivolta popolare cavalcata dai movimenti di destra, in particolare dal Msi, che durò ben otto mesi e costò 5 morti e 2.000 feriti. L’esponente missino e sindacalista Cisnal Ciccio Franco rilanciò il motto “boia chi molla”, di dannunziana matrice, e ne fece uno slogan per incendiare la protesta dei reggini sulla scelta di Catanzaro come capoluogo  (Archivio fotografico Anpi nazionale)

Ma la storia racconta che la loro passività non è una condizione perenne, e che lo stato di quiete apparente cova una rabbia pronta a esplodere: nonostante sia trascorso più di mezzo secolo, non dovremmo dimenticare la rivolta di Reggio Calabria, in cui rivendicazioni campanilistiche fecero da detonatore a un profondo malessere sociale. Insomma la pazienza del Mezzogiorno non è infinita, e si può stare certi che quando verrà toccato il punto di rottura (probabilmente lo provocheranno gli effetti dell’autonomia differenziata), la protesta scoppierà e imboccherà la via o della sedizione violenta contro le istituzioni (lo spettro di Masaniello continua ad aleggiare sulle contrade del Sud), o dell’acclamazione di un “re taumaturgo”, di un uomo (una donna) che prodigiosamente guarisca dagli antichi mali e compia il riscatto di una comunità. Scenari entrambi inquietanti per chiunque abbia a cuore le sorti della democrazia costituzionale.

Ferdinando Pappalardo, vicepresidente nazionale Anpi

 

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Notizie e commenti dalle sezioni Anpi in Europa

Belgio e italiani all’estero

In Belgio si sono tenute in contemporanea con le elezioni europee anche le elezioni regionali, provinciali e federali. Al voto del Parlamento europeo hanno partecipato i ragazzi di 16 e 17 anni, che invece non sono stati coinvolti per le elezioni regionali e federali. A causa del complesso sistema di divisione linguistica del Paese, dividiamo i risultati per regioni.

Nella regione fiamminga c’è stata una conferma del partito di estrema destra Vlaams Belang con il 23,1 e del partito di “Destra-Centro” l’N-VA con il 22,2 per cento. Rimangono i maggiori partiti nelle Fiandre e conservano i tre seggi che avevano al Parlamento europeo. Il partito dei lavoratori, marxista, guadagna 1 seggio, portando a Strasburgo un operaio e sindacalista. Guadagnano pure un seggio i socialisti fiamminghi di Vooruit, mentre perdono un seggio i liberali. Mantiene i due seggi, mantenendo il posto di terzo partito il CD&V, i democristiani fiamminghi.

In Vallonia, i liberali MR (34,83 per cento) sono i grandi vincitori, passando da due a tre seggi. Il Partito Socialista ha mantenuto due eurodeputati; Les Engagés, i cristiano democratici che hanno cambiato sigla, elegge 1 deputato; il partito del lavoro, PTB in area francofona, aumenta di 1 deputato, portando a due rappresentanti la sua presenza. I Verdi francofoni perdono 1 seggio.

Sul voto degli 800.000 16-18enni l’unico dato disponibile dall’Universitá di Lovanio mostra un impatto dell’esposizione mediatica dei partiti sui primi votanti nelle Fiandre. Colpiti dall’esposizione mediatica il 42% vota l’estrema destra del VlaamsBelang e il 30% il partito di “destra-centro” dell’NVA.

I salariati poveri in Vallonia, nei feudi del Partito Socialista e Ptb (Partito del Lavoro del Belgio, marxista) hanno votato in parte per i Liberali per veder aumentare la differenza, a loro favore, tra salari e indennità di disoccupazione, oggi bassissima. L’UCM (Unione classi medie) è assicurata per il risultato dei partiti “PME Friendly”, quindi amici delle piccole e medie imprese. Il presidente ha dichiarato “Una maggioranza formata da questi due partiti (i liberali francofoni del MR e la rediviva formazione centrista cristiana) offrirebbe un ambiente molto più confortevole per i lavoratori autonomi e permetterebbe loro di sviluppare le proprie attività”.

La Confindustria belga ha dichiarato: “Contro ogni previsione, i belgi del sud, del centro e del nord del Paese hanno scelto il centro-destra. Questo è un chiaro segnale della necessità di una politica diversa, che sostenga l’imprenditorialità. Una politica che osi fare riforme coraggiose e che metta la competitività delle nostre imprese e del nostro Paese in cima alle sue priorità”. Questo fa presagire la ripresa dell’attacco delle imprese sia al welfare di sostegno ai lavoratori che al meccanismo di recupero automatico dell’inflazione.

Belgio, risultati delle elezioni federali

Non c’è sfondamento della destra estrema: da un lato l’autonomismo moderato del partito di “destra centro” N-VA sembra ancora capace di assorbire una parte maggioritaria del voto di protesta e del voto nazionalista fiammingo, relegando a un ruolo ancillare i contenuti più apertamente xenofobi del partito di estrema destra Vlaams Belang.

Dall’altro, il cordone sanitario praticato dai partiti e dai media nelle province meridionali della Vallonia, oltre all’antifascismo militante di settori piuttosto estesi del sindacato e della società civile francofona, ha impedito fino ad oggi lo sviluppo di un nazionalismo belga à la Marine Le Pen.

Come nel resto dell’Europa occidentale e continentale, crollano i partiti verdi: dopo una breve parentesi di crescita culminata coi numerosi successi delle scorse Europee, il modello verde post-ideologico, metropolitano ed europeista sembra in crisi irreversibile.

Crescono, un po’ a sorpresa, liberali e centristi francofoni (mentre nelle Fiandre questa dinamica sembra intercettata e in parte assorbita dal N-VA): sembrano essere loro, ancor più della sinistra cosiddetta “radicale”, ad aver approfittato della moderata crisi dei socialisti dovuta alla più generale crisi della socialdemocrazia e del suo modello, che in Belgio è stato a volte assistenziale.

Qualunque governo dovrà tenere conto del fatto che quasi il 30% degli elettori su base nazionale (e il 45% nelle Fiandre) ha espresso istanze a vario titolo autonomiste.

Continua la crescita del PTB, il Partito dei Lavoratori: un partito marxista capace di rinnovarsi nel modello di comunicazione e anagraficamente alla fine degli anni 90 e che, da quel momento in poi, è sempre cresciuto (altri 200mila voti guadagnati in questa tornata elettorale) diffondendosi in settori via via più vasti della società belga e soprattutto dei suoi ceti popolari: il dato forse più in controtendenza rispetto alla fase storica che vive l’Europa in questi anni.

Una fotografia del voto degli italiani all’estero in Europa

Anche per queste elezioni europee, solo gli italiani all’estero residenti in un Paese dell’Unione Europea hanno potuto partecipare al voto per il rinnovo del Parlamento europeo. Anche questa volta il governo e il parlamento hanno deciso di non apportare le modifiche necessarie a garantire il voto negli altri continenti, lasciando fuori circa 5 milioni di potenziali elettori.

Va inoltre tenuto presente che gli italiani residenti in un Paese comunitario possono optare per il voto a liste del Paese di residenza. Si tratta di una pratica molto seguita già da diverse consultazioni europee che riguarda sicuramente la maggioranza degli elettori italiani di più antica emigrazione.

Infine c’è da ricordare che se si decide di votare per le liste italiane non lo si può fare per corrispondenza (modalità che alle elezioni europee non è previsto dall’Italia, mentre è prevista per le elezioni politiche), ma lo si può fare solo direttamente nei seggi istituiti presso i Consolati. Fino ai primi anni 2000 venivano istituiti numerosi seggi in diverse città in accordo con le autorità locali cercando di coprire la distribuzione territoriale delle diverse comunità. Successivamente i seggi sono stati istituiti solo presso i consolati, in questo modo molte persone che avrebbero potuto optare per il voto per le liste italiane vengono disincentivate a farlo anche a causa delle distanze e tempi per raggiungere queste sedi.

In questa occasione, l’afflusso concentrato ai pochi seggi consolari ha prodotto in diverse città lunghe file di elettori, molti dei quali hanno desistito visti i lunghi tempi di attesa all’esterno degli edifici.

In ogni caso, il risultato del voto per le liste italiane in Europa è stato significativamente diverso da quello in Italia. Probabilmente si tratta in buona misura di un voto influenzato dal recente arrivo di nuova emigrazione. Il dato complessivo mostra importanti differenze con quello italiano. Allo stesso tempo è da sottolineare la differenza del voto da Paese a Paese, indice di tipologie di emigrazione differenziate rispetto all’origine dei flussi e alle posizioni ricoperte all’interno dei mercati del lavoro dei Paesi di arrivo.

Pur nel quadro complessivo di una affermazione del PD sul FdI, con al terzo posto AVS e al quarto il M5S, che mostrano dati relativamente diversi da quelli nazionali, il risultato nei singoli Paesi mostra ulteriori sensibili differenze. Esse possono essere relative al diverso peso di più antica e più recente emigrazione tra coloro che hanno votato, come anche delle diverse tipologie (sia per classi di età, sia per provenienze regionale italiana, sia per la differenziazione interna di classe, ovvero della posizione lavorativa o professionale) della nuova emigrazione arrivata negli ultimi 10-15 anni.

Francia

Delle elezioni europee in Francia si parla poco o niente. In effetti anche la campagna elettorale è stata per lo più incentrata su temi nazionali che europei. Con il risultato che è sotto gli occhi di tutti: al trionfo della destra estrema, Jordan Bardella – Rassemblement national – 31,37% (30 parlamentari europei) e Marion Maréchal – Reconquête – 5,47% (5 parlamentari), il presidente Macron ha sparigliato le carte, dissolto l’Assemblée Nationale e convocato i francesi al voto per il 30 giugno e 7 luglio prossimi.

Il partito del presidente si è piazzato al terzo posto: Valerie Hayer ha infatti raccolto il 14,60% dei voti (13 parlamentari). Buono lo score dei socialisti, con Raphäel Glucksmann, già parlamentare europeo, di Place Publique al 13,83% (13 parlamentari) e ottimo quello della France Insoumise con Manon Aubry (co-presidente del gruppo parlamentare della Sinistra Unitaria) al 9,89% (9 parlamentari).

Seguono i repubblicani, con François-Xavier Bellamy al 7,25% (6 parlamentari), i vedi di Europe Écologie con il 5,50% (5 parlamentari). Tutte le altre formazioni politiche, compreso il Pcf, non hanno raggiunto la soglia del 5% e dunque non avranno nessun parlamentare europeo.

Qui si insiste molto sul fatto che, malgrado l’avanzata dell’estrema destra in tanti Paesi d’Europa, gli equilibri del Parlamento europeo non cambiano poi moltissimo e, in sostanza, si avrà una composizione abbastanza simile a quella del Parlamento uscente. Ci si concentra molto più sulle imminenti elezioni: Ps (con Place Publique), Insoumis, Verdi e Pcf si presenteranno uniti nel Front Populaire (al quale ha aderito anche l’NPA), le destre estreme litigano (ma è quasi irrilevante, i voti sarebbero probabilmente comunque confluiti su Rn), la destra repubblicana si sgretola, il centro annaspa. In tutta la Francia si sono tenute manifestazioni contro l’estrema destra: l’appello alla mobilitazione è stato fatto da cinque sindacati ai quali si sono aggiunte decine di associazioni e di Ong. Nel suo piccolissimo anche l’ANPI Parigi ha invitato iscritti e simpatizzanti a partecipare alle manifestazioni.

Paola Vallatta

Germania 

L’affluenza alle urne è stata notevole, il 65% dei poco più di 65milioni di elettori (corpo elettorale cresciuto del 2,5% in quanto composto anche di 1,5 milioni di elettori tra i 16 e i 18 anni), nettamente superiore alla media europea e in crescita anche rispetto al 2019 quando si era registrata una partecipazione del 61,4%.

Dalla consultazione elettorale emergono nettamente tre “vincitori”, una pesante “conferma” e una serie di “sconfitti”. Gli sconfitti sono le forze della coalizione governativa, chiamata “Semaforo”, che arretra complessivamente, soprattutto per la caduta in picchiata dei verdi, dell’8% rispetto alla precedente consultazione elettorale europea.

Ovviamente i leaders della CDU/CSU, confermati con quasi un terzo dei consensi elettorali, tanti quanto ne mette insieme l’alleanza dei partiti di governo, hanno avuto buon gioco a chiedere in pratica nuove elezioni, come in Francia, dove Macron lo ha annunciato ai francesi immediatamente dopo la batosta elettorale incassata.

Tra i vincitori, due relative “sorprese” e una vittoria direi “annunciata”. Oltre alla affermazione della piccola formazione extraparlamentare VOLT, progressista ed europeista, che è arrivata al 2,7%, si è confermata una “attesa” con il 6% del partito della Wagenknecht, autonomizzatasi da oltre un anno dai Die Linke, portandosi dietro una dote di voti che ha penalizzato il suo ex partito, ridotto a meno del 3%.

Il vincitore più ingombrante resta il partito dell’AfD, che diventa il secondo partito con un aumento del 5% che lo porta a rappresentare il 16% dell’elettorato tedesco, con una forte presenza nelle regioni orientali.

Se si pensa che stime non superficiali valutano che i giovani al di sotto dei trenta anni abbiano votato soprattutto i piccoli partiti (che alle politiche non supererebbero lo sbarramento) nella misura di quasi il 30% e che per oltre il 17% abbiano votato AfD, mentre solo il 19% vota per Verdi ed SPD, la faccenda assume connotati piuttosto preoccupanti.

La distribuzione del voto a livello regionale, quando i dati saranno definitivi, permetterà analisi approfondite sulla complessità delle ragioni del voto, in particolare sull’influenza relativa delle scelte europee e di quelle nazionali nelle scelte degli elettori.

Se il tema della Pace ha una influenza almeno pari a quella della sicurezza sociale, si spiega perché sono stati penalizzati i partiti più guerrafondai, che li hanno messi in contraddizione. Certamente, ma vorrei sbagliarmi, hanno avuto pochissima influenza la politica maccartista con la quale è stata gestita la “ragion di Stato” israeliana, sulla quale il popolo tedesco fonda mirabilmente in una unità ottusamente conformista, razzismo, neocolonialismo europeo, atlantismo fino alla disumanità. SPD e Verdi hanno pagato certo il prezzo del silenzio sullo Stream 2 e dell’elmetto in testa, ma non sono stati penalizzati per aver chiamato “effetti collaterali della lotta al terrorismo” l’uso della fame e della sete nella striscia di Gaza.

Il tema di una politica migratoria più rigida ha nettamente favorito il BSW e l’AfD, soprattutto nel terreno di coltura delle regioni della ex DDR, che hanno dovuto subire le politiche economiche e sociali fallimentari dell’annessione dell’89.

I due partiti usciti vincenti dalla competizione elettorale sono stati probabilmente aiutati anche da errori “tattici” dei loro avversari. Per mesi si è assistito ad un attacco concentrico di forze politiche, sociali, sindacali, media sia su AfD che su BSW, utilizzando tutti i mezzi possibili e immaginabili. Ad esempio, cittadini di indiscutibile fede democratica hanno partecipato per mesi a oceaniche manifestazioni contro l’AfD, forse senza notare il paradosso che alla loro testa c’erano forze di governo che combattevano contro una forza parlamentare di minoranza che non aveva mai governato (tattica che non avevo mai visto). L’AfD è stata messa per un anno al centro della scena politica giocando tutto sulla paura, peraltro giustificatissima, di un suo rafforzamento, invece che fare politiche di governo propositive e convincenti.

Difficile dire quanto abbiano pesato la crisi economica, ma l’abbandono della Ost Politik, che ha messo in crisi interi settori e peggiorato le condizioni materiali di vita di diversi strati della popolazione, aumentando le diseguaglianze, a favore di un riarmo a tappe forzate che travolge tutte le buone intenzioni sul clima, credo abbiamo avuto un impatto nella obsolescenza rapida della coalizione semaforo, facendo diventare le elezioni europee quasi un voto di fiducia sul Bundestag.

Con i suoi 96 seggi, la Germania contribuirà a spostare a destra l’equilibrio complessivo del parlamento europeo, e si può cominciare a speculare con preoccupazione, se non con paura, sul fatto che viene proprio dai Paesi fondatori della UE, a parte Belgio e Spagna, un significativo contributo allo spostamento del baricentro politico del Parlamento, aiutati da Polonia, Cechia, Austria, etc. trasformandosi da “vestali” dell’Europa di Ventotene a una coalizione di nazionalismi, razzismi, militarismi difficilmente governabili.

Parleranno i numeri ma le maggioranze saranno di difficile composizione nel Parlamento europeo:

  • il modello italiano (Ppe, ECR e ID) è difficile da praticare perché potrebbe non superare la soglia dei 316 deputati, ma anche per ragioni politiche, ovvero per i conflitti tra Meloni e Le Pen, oltre che con Orban e i polacchi del Pis;
  • il modello svedese (PPE, Destra, Renew) non pare possa averte migliore fortuna
  • il modello tedesco del semaforo è sotto i 300 deputati e anche con l’aiuto di Left non ce la farebbe
  • extra EPP nulla salus, non si governa, e forse ci tocca la Grosse Koalition ma con due sconfitti (S&D e Renew) che hanno sempre detto “mai con i conservatori” e “mai con i socialisti”, sarà dura comporre qualche tavolo.

Avremo tempo per approfondire quando l’esito sarà più consolidato e il quadro generale definito.

Franco Di Giangirolamo

 Germania da Francoforte

In Germania la CDU risulta essere il primo partito, con 30% delle preferenze, seguito da AfD al 16% circa, ma prima forza nei 5 Bundesländer della ex Germania Orientale, dove arriva anche al 30% e in alcune Province addirittura al 40%.

La Linke è completamente annientata, non avendo raggiunto neppure il 3%, di converso, il nuovo partito di Sahra Wagenknecht (BSW) è andato oltre il 6%, un risultato straordinario, se si considera che è stato fondato pochi mesi fa.

Due dei tre partiti della coalizione di governo sono stati puniti duramente, i Verdi e la SPD, i liberali (FDP) restano stabili e mantengono 5 seggi nell’europarlamento.

Evidentemente l’ascesa dell’AfD spacca il Paese non solo tra Est e Ovest, ma anche demograficamente, perché anche molti votanti sotto i 30 anni hanno dato loro la propria preferenza, esattamente come gli over 60. Due fasce di età diverse, ma stesso orientamento.

Non ho le competenze per trarre alcuna conclusione da un risultato che, in Germania, ha visto un’affluenza buona (quasi il 65% degli aventi diritto), ma la cui media europea è di poco superiore al 51% (in Italia siamo fermi al 48,3%), per cui non è certo rappresentativo dell’intero Paese.

Personalmente credo che in gran parte quello della AfD sia un voto di protesta e disperazione. Fa ancora più male perché mette a nudo l’incapacità dei partiti tradizionali di cogliere il disagio e le difficoltà delle persone e proporre soluzioni che non siano ad effetto o semplici slogan, ma si traducano in politiche di più ampio respiro.

Non so quanto sia consolante, ma credo sia importante ricordare che, malgrado l’ascesa della destra, anche estrema, ovunque, il nuovo assetto parlamentare resta, nei gruppi, praticamente identico a quello uscente.

Anna

Lussemburgo

In Lussemburgo l’affluenza è stata una delle più alte d’Europa: 82,29%. Il voto nel Granducato è obbligatorio, come pure in Belgio, Bulgaria e Grecia. Vengono eletti 6 Deputati europei.

Il Partito Popolare Cristiano-Sociale (CSV) con il 22.91% (2 seggi) ed il Partito Operaio Socialista Lussemburghese (LSAP) (gruppo europeo Socialisti e Democratici) con il 21,71% (1 seggio) risultano essere i due principali partiti, con il LSAP che cresce del 10% rispetto alle Elezioni europee precedenti. Il Partito Democratico DP (liberali del Gruppo europeo Renew Europe), junior partner dell’attuale coalizione di governo, guidata dal CSV, ottiene il 18,29% (1 seggio). I Verdi (déi Gréng) con l’11,76% salvano il loro seggio dopo la débacle alle Elezioni legislative dello scorso ottobre (1 seggio), l’ADR (nazionalisti sovranisti del Gruppo europeo Conservatori e Riformisti di FdI e Vox) con l’11,76% ottiene un seggio, sottraendolo al DP (1 seggio). I Pirati col 4,92% non ottengono nessun seggio così come la sinistra: déi Lénk/La Gauche, membro della Sinistra Europea, perde consensi, ottenendo solo il 3,15% con una lista tutta composta da giovani, mentre resta residuale il KPL (Partito Comunista Lussemburghese) che ottiene solo lo 0,97%.

Anche in Lussemburgo, quindi, si è verificato uno spostamento a destra dell’elettorato, con l’entrata nel Parlamento Europeo dell’ADR.

Edoardo Pizzoli e Pietro Benedetti

Spagna

I risultati delle elezioni europee per quanto riguarda la Spagna non si sono discostati da quelle che erano le previsioni: la vittoria è andata al centrodestra del Partido Popular (PP), ma il PSOE del primo ministro Sánchez ha sostanzialmente tenuto bene, superando il 30% del voto.

La vigilia del voto è stata segnata soprattutto da due fenomeni. Il primo è relativo al fatto che il voto europeo è stato il quarto in appena sei mesi. Infatti, tra fine inverno e metà maggio si è votato in Galizia, nei Paesi Baschi e soprattutto in Catalogna meno di un mese fa. Le elezioni catalane sono state un trionfo per i socialisti, che per la prima volta hanno vinto chiaramente in seggi e voti nella comunità autonoma; inoltre, sempre per la prima volta dal ritorno della democrazia, le forze nazionaliste non hanno la maggioranza assoluta dei seggi nel Parlamento catalano. La politica del governo Sánchez riguardo alla cosiddetta “questione catalana” si è dunque dimostrata vincente, tanto che la stessa Catalogna, alle successive elezioni europee, si è dimostrata uno dei bacini elettorali più proficui per i socialisti. Il dato negativo del voto catalano è dato dall’ascesa della destra: se il PP ha guadagnato molti voti, Vox ha mantenuto posizioni ed è entrato nel parlamento locale anche un gruppo di ultradestra catalano nazionalista e xenofobo.

Il secondo fenomeno che ha caratterizzato la campagna elettorale per le europee è stato la campagna mediatica contro la moglie di Sánchez, denunciata da un’associazione di privati cittadini per presunti abusi in ambito lavorativo. La denuncia, che qualsiasi tribunale avrebbe scartato perché priva di significato e di prove, è stata invece accettata a Madrid, e ha portato alla reazione di Sánchez che per alcuni giorni ha lasciato in dubbio la sua continuità al governo. Il caso è parte dell’abituale strategia della destra di costruire “campagne di fango” per delegittimare i rivali politici (un parallelo si potrebbe tracciare con le montature di cui furono oggetto i Clinton negli anni 90), attuato attraverso un bombardamento mediatico specialmente nei nuovi social media. La destra – sia il PP che Vox – hanno ovviamente rilanciato le accuse inasprendo il tono dello scontro politico, con l’obiettivo di far cadere al più presto un governo che continuano a considerare illegittimo da quando, nell’estate scorsa, non hanno ottenuto, contro le loro previsioni, la maggioranza alle elezioni generali ed hanno dovuto ingoiare l’amaro boccone di una riconferma di Sánchez. Il risultato di tutto questo è stato che la campagna per le europee è stata convertita da PP e Vox in una sorta di “plebiscito” contro Sánchez, con la speranza di ottenere un trionfo di dimensioni tali da costringere il premier alle dimissioni. Il PSOE, d’altro canto, ha invece risposto con una campagna a favore dell’attuale primo ministro e della sua coalizione di governo, cercando di mobilitare l’opinione pubblica e denunciando le losche manovre della destra.

Dopo queste doverose premesse, commento i risultati elettorali del 9 giugno cominciando dalle notizie negative, sottolineando anche la bassa partecipazione della cittadinanza. In primo luogo, il PP ha vinto le elezioni con il 34% del voto, crescendo di ben 9 eurodeputati rispetto al 2019, nonostante il suo discorso sempre più estremista e violento. Vox si attesta sul 9,6%, guadagnando 2 deputati e posizionandosi stabilmente come terza forza politica del paese. È inoltre entrato al Parlamento europeo un nuovo gruppo di ultradestra, guidato da un agitatore mediatico di nome Alvise Pérez, che ha fatto campagna praticamente solo sui social (Telegram), utilizzando molti degli slogan tipici della nuova destra (a favore di Putin e contro gli ucraini, contro i vaccini, contro la “casta”). Il nome di questa specie di “partito” che ha raggiunto il 5% è già tutto un programma, Se acabó la fiesta (in italiano verrebbe a significare qualcosa come “È finita la pacchia”). Infine, altro elemento negativo è il crollo delle forze alla sinistra del PSOE: la piattaforma di sinistra Sumar, guidata da Susana Díaz, ha preso solo il 4,6%, tanto che la stessa Díaz si è dimessa dalla guida della piattaforma. Podemos, che dopo esser confluito in Sumar per le scorse elezioni politiche ha deciso di scindersi e correre in solitario – con arroganza e notevole stupidità, e comunque in linea con le abituali tendenze autodistruttive della sinistra – è ridotto a un ridicolo 3,28%, e se non intervengono fattori inaspettati sembra condannato all’estinzione a breve.

Nonostante tutti questi elementi negativi, ci sono però un paio di elementi positivi da tener presenti, elementi che fan sì che, tutto sommato, il panorama spagnolo continui a essere molto meno catastrofico che quello di altri Paesi della UE. In primo luogo, se il leader del PP Feijóo aveva pensato a un plebiscito per cacciare Sánchez, non ha ottenuto quel che voleva. La destra vince, sì, ma non vince come sperato e quanto sperato. Non, comunque, tanto da portare alle dimissioni Sánchez. In secondo luogo, il PSOE resta un partito di centrosinistra molto forte e solido. È vero che nel suo risultato conta la suicida disintegrazione delle forze di Sumar e Podemos, assorbite in gran parte dallo stesso PSOE, ma è anche vero che i socialisti superano il 30% dei voti – cosa che nel resto d’Europa appare quasi fantascientifica – e che in alcuni territori fondamentali come appunto la Catalogna restano una forza largamente maggioritaria.

Per concludere: il risultato spagnolo, che sotto certi aspetti è in linea con le generali tendenze europee che vedono il rafforzarsi della destra e della destra estrema, mostrando alcuni segnali chiaramente preoccupanti, sotto altri aspetti continua a costituire una (parziale) eccezione al panorama continentale. C’è da sperare che questa (parziale) eccezione si mantenga e che – soprattutto – Sánchez si mantenga alla guida del governo ancora a lungo.

Svezia

In contrasto con il chiaro spostamento a destra dell’elettorato in Europa, si nota un’apparente inversione di tendenza nel Nord (Svezia, Finlandia, Danimarca). Da due anni è al governo in Svezia una coalizione di centro destra (i partiti Borghesi, come li chiamano qui): il più grande è il partito della destra tradizionale, i Moderati, con i Democratici Cristiani e il Partito Liberale e l’appoggio esterno ma indispensabile dell’estrema destra, i Democratici di Svezia, con radici neonaziste, mediante un dettagliato accordo di collaborazione, il cosiddetto accordo di Tidö.

Negli ultimi due anni i due partiti più piccoli, Liberali e Democratici Cristiani avevano perso molto appoggio e oscillavano intorno al 4,5%, rischiando quindi, nelle elezioni europee, di non superare il quorum. La concorrenza era tra i Moderati e i Democratici di Svezia che nelle inchieste di opinione avrebbero superato i Moderati diventando cosí il secondo partito di Svezia, dopo i Socialdemocratici, e il primo della coalizione borghese. Jimmy Åkesson, il leader dei Democratici di Svezia, molto popolare tra i suoi elettori, e forse il personaggio politico più intervistato e citato nei social e nelle reti televisive negli ultimi mesi, ha dichiarato in diverse occasioni, forte di queste previsioni, che alle elezioni europee e poi alle politiche tra due anni sarebbero diventati il primo partito della coalizione borghese e che questa volta non si sarebbero contentati dell’appoggio esterno ma avrebbero avuto la Presidenza del Consiglio.

Le previsioni fino a pochi giorni prima delle elezioni prevedevano una lieve diminuzione sia per i Socialdemocratici che per i Moderati, forse il Partito Liberale, e magari anche quello Democratico Cristiano sarebbero finiti sotto il quorum, e un successo per i Democratici di Svezia, e forse un piccolo aumento per i Verdi che in Svezia erano molto impopolari dopo la loro partecipazione nel precedente governo di centro-sinistra. Ma il risultato ha sorpreso tutti.

Il partito della Sinistra ha raggiunto l’11%, i Socialdemocratici hanno guadagnato in percentuale, i Moderati hanno tenuto e i Verdi sono saliti a razzo diventando il secondo partito della coalizione borghese e il terzo nel Paese dopo in Socialdemocratici e i Moderati, mentre i Democratici di Svezia, per la prima volta da quando iniziarono la loro ascesa, prima in comune poi in Parlamento, hanno perso consenso in tutto il Paese e persino nella città natale di Åkesson, diventando cosí il quarto partito, dopo i Socialdemocratici, i Moderati e i Verdi. Per questi ultimi, un vero shock che non riuscivano a nascondere.

Se si fosse ottenuto questo risultato alle politiche, il Centrosinistra avrebbe avuto la maggioranza in Parlamento.

Qui occorre intanto ricordare che il voto per il Parlamento europeo non è come quello per le elezioni politiche: non ci sono considerazioni strategiche o preoccupazioni per le conseguenze in politica, si vota più liberamente, per il candidato che convince o per un tema che ci sta a cuore. Lo dimostra un’indagine di opinione fatta sulle preferenze politiche, fatta a metà maggio ma pubblicata solo ora, dove i risultati invece corrispondono esattamente alle previsioni.

Perché è andata così? È forse prematuro emettere giudizi e sarebbe necessario aspettare un’analisi più dettagliata dei risultati (per fasce di età, sesso, classe). Gli analisti fanno diverse ipotesi: i cambiamenti climatici sono stati sempre indicati negli ultimi mesi come la preoccupazione principale degli svedesi, seguita dall’aumento della criminalità. L’estrema destra è negazionista e il suo cavallo di battaglia è la fissazione sui problemi dell’immigrazione, la sostituzione etnica ecc, che invece non è stato un tema un tema molto sentito tra gli svedesi negli ultimi mesi. Anche perché nell’ultimo anno, grazie a severe misure prese dal governo, è fortemente diminuita e sono iniziati i rimpatri forzati.

Il centrosinistra ha puntato in generale sui temi della sicurezza nel lavoro, la salute, il welfare, e ha scelto, come hanno anche fatto i Verdi, capilista conosciuti e molto popolari. Hanno anche dato mostra di interno fair play, congratulando gli altri partiti del centrosinistra e rallegrandosi del calo dell’estrema destra.

La campagna di Jimmy Åkesson, forte delle previsioni di stravittoria, è stata molto aggressiva e con misure scorrette, come l’uso sistematico di conti anonimi per attacchi personali agli altri candidati. Non svedese, diciamo. Tutti i partiti borghesi della coalizione di governo, per attrarre gli elettori dei Democratici di Svezia, si sono spostati in misura maggiore o minore verso destra e anche il Centrosinistra ha smussato molte delle sue armi (nel nuovo statuto del partito della Sinistra, è stata eliminata la parola socialismo).

E il grande assente della campagna elettorale è stato il tema della pace. Tutti i partiti, da sinistra a destra, senza eccezione intendono aiutare con armi o sanzioni l’Ucraina e nessuno propone almeno tentativi di incontri, trattative, sforzi diplomatici.

Antonella Dolci